La vita e le opere
“Amstelodamensis”, “cittadino di Amsterdam”, così Spinoza si dichiara nell’unico saggio autografo: “Principi della filosofia cartesiana”. E’ Colerus, biografo e amico del filosofo, ad informarci sul luogo di nascita e sulla data: il 24 novembre del 1632. Proveniva da una famiglia di tradizione ebraica che si era impiantata in Olanda per le continue persecuzioni a cui andavano soggetti i “marrani”, “porci”, ricordando il modo in cui gli ebrei erano denominati.Il padre Michael era un attivo commerciante di pietre preziose, si occupava di importazioni ed esportazioni, inserendosi così pienamente nel contesto commerciale della florida Olanda del XVII secolo.Faceva parte la sua famiglia della comunità ebraica di Talmud Tora, e più precisamente del comitato formativo Mahamad, che si distingueva per intransigenza e ortodossia alla regola.Il giovane Baruch non frequentò probabilmente le scuole superiori, alle quali accedevano solo coloro che erano destinati a diventare rabbini, ma prese parte alla “Corona della legge”, sotto gli insegnamenti di Saul Levi Morteira. Spinoza fin da giovane non aveva mostrato alcun entusiasmo per le conezioni rigide e pedisseque della comunità di cui faceva parte. La sua mente stava elaborava proprio in quegli anni un concetto di divinità diametralmente opposto a quello predicato con veemenza e ossessione il sabato nelle sinagoghe.Un concetto rivoluzionario: la divinità non astratta dal mondo, ma presente in esso.Non un Dio-persona della tradizione giudaica, ma un ordine geometrico che regolasse la realtà.Una realtà derivata per necessità dall’essenza stessa di Dio.Come dal trinangolo non può non necessariamente derivare che la somma dei suoi angoli interni è centottanta gradi. In quale modo la Mahamad venne a sapere di tali concezioni considerate eretiche, è questione assai dibattuta.. Né essa aveva avuto modo di leggere alcuno scritto del filosofo, né quegli stesso aveva avuto modo di interloquire con alcuno dei suoi membri. L’ipotesi più probabile è che la comunità abbia ricevuto informazioni da due uomini che erano soliti conversare con lui di temi biblici. Subitanea giunse la scomunica feroce ed implacabile: Spinoza viene espulso dalla comunità, maledetto, appellato “cane”, “bastardo”. Su di lui si scagliano le peggiori infamie. E’ accusato d’eresia e di blasfemia. Così il testo della scomunica, l’herem:
“…Espelliamo, escludiamo malediciamo ed esecriamo
Baruch Spinoza.[…].Sia maledetto di giorno e di notte
quando si leva e quando si posa[…]Che nessuno dimori
sotto il suo tetto o legga i suoi scritti…”
Gli anni successivi alla scomunica sono caratterizzati dalla frequentazione della casa di Franciscus van den Enden. Era questi un libero pensatore, giurista, ex-gesuita che impartiva lezioni di latino ai suoi studenti. Qui Spinoza giunse per apprendere il latino, grazie al quale poter leggere, oltre alla sapienza classica, le opere della Scolastica e di Cartesio, considerato l’astro nascente della nuova filosofia. Il più grande di tutti i filosofi: così lo si accoglieva allora. Van den Enden era intellettuale eccentrico e stravagante. Si racconta che faceva recitare le commedie latine che insegnava. Ed è quindi probabile che ivi Spinoza imparò l’arte della recitazione. Era un clima, quello della casa di Franciscus, intriso di libertà di pensiero e d’azione. Ed era proprio di questo che il Nostro aveva bisogno. Successivamente si trasferisce a Rijnsburg, ha contatti con la setta dei Collegianti e apprende teorie significative sul libero arbitrio, sul rapporto con le Sacre Scritture e sul libero esame. Sono questi gli anni maggiormente intensi di lavoro. Incomincia la stesura dell’Ethica.Vengono conclusi “il Breve Trattato su Dio”, ed il “Trattato sull’emendazione dell’intelletto”.In seguito Spinoza si trasferisce a Vooburg, impartisce lezioni ad uno studente e comincia a scrivere il “Trattato teologico-politico”.Gli sono amici politici diplomatici, scienziati dello spessore di Jan de Witt, Gran Pensionario d’Olanda, Hudde, sindaco d’Amsterdam, Graevius, Vossius, solo per citarne alcuni.Nel 1665 viene pubblicato il “Trattato”, forse l’opera più direttamente polemica del filosofo, contro ciò che egli spesso chiama “l’odio teologico”. Un trattato in difesa della libertà di pensiero e di parola. In difesa dell’autonomia intellettuale. Sono chiariti i suoi rapporti con la comunità ebraica, le ragioni dell’espulsione e della scomunica. In questi anni scrive ad Oldenburg una lettera che chiarisce le motivazioni che l’hanno indotto alla stesura dell’opera: i pregiudizi dei teologi, la volontà di discolparsi dalle accuse d’ateismo e finanche l’affermazione della libertà di filosofare e di dire le cose che pensiamo.Un’opera altamente innovativa e rivoluzionaria. La rivendicazione delle libertà fondamentali a cui ogni individuo ha diritto.Il Trattato viene edito chiaramente anonimo, per rifuggire dagli eventuali atti censori a cui sicuramente il testo sarebbe andato incontro. Ciononostante, l’opera fu messa all’indice provocando aspre reazioni negli ambienti calvinisti ed ebraici. Il soggiorno all’Aja si caratterizza per la corrispondenza intrapresa con un’altra, seppur giovane, personalità filosofica del Seicento: Gottfried Wihelm von Leibniz. Spinoza non è entusiasta dell’”intrusione” di questo sconosciuto nei suoi affari privati. Chi faceva dell’imperativo “caute” il suo motto non poteva non guardare con dovuta diffidenza la figura di quest’uomo che chiedeva di incontrarlo.
Così il suo giudizio:
“A quanto ho potuto conoscere dalle sue lettere, mi è sembrato un uomo d’indole
liberale e versato in tutte le scienze.Reputo tuttavia imprudente di confidargli così
presto i miei scritti. Vorrei prima sapere che cosa sia andato a fare in Francia e
sentito il parere del nostro Tschirnaus dopo che lo avrà più a lungo frequentato.”
Il riserbo e la morigeratezza sembrano la chiave di lettura di questo pensatore.Ed è tale caratteristica che ha condotto molti suoi accusatori su posizioni imbarazzanti. Lo potevano accusare d’ateismo, certo. Ma non potevano rivolgergli le altre accuse connesse a chi veniva additato come ateo. Non la dissolutezza dei costumi, non l’amoralità. Spinoza in questo periodo prende parte attiva anche ad alcuni processi o cambiamenti politici. Viene coinvolto emotivamente dall’uccisione dei de Witt, si mette in cammino per incontrare il principe di Condè, che in precedenza aveva espresso la volontà di incontrarlo. Credeva il filosofo che il principe potesse fungere da tramite con Luigi XIV. Dichiarandogli le sue idee in fatto di politica e libertà, sperava che esse potessero arrivare al sovrano e che questi avesse potuto applicarle. Progetto, questo, che consideriamo a dir poco utopistico. La flessione degli assolutismi alle idee dei lumi della razionalità si avrà solamente un secolo e mezzo dopo, dando vita a qual fenomeno che va sotto il nome di dispotismo illuminato.
Il carattere di Spinoza- lo abbiamo messo in evidenza- è altamente insofferente dei rapporti pubblici, dei leziosimi e formalismi. Di una diffidenza quasi ossessiva, accoglieva non di buon grado nuove amicizie o proposte di frequentazione. Viveva appartato, solo in compagnia di pochi e fidati amici. E fu proprio in virtù di questo “lathe biòsas” che ebbe come sua unica occupazione lo smussare lenti, che rifiutò la non poco alettante offerta della cattedra di filosofia all’università di Heidelberg.
Spinoza muore il ventuno febbraio del 1677, per tisi, il male che da anni lo affliggeva. In compagnia, si pensa, del solo amico Schuller, del quale aveva richiesto aiuto in conseguenza dell’aggravarsi della patologia. I suoi unici averi, i manoscritti e la biblioteca, furono venduti per il pagamento delle spese di stampa e della sepoltura.
Il sistema e la dottrina
Nell’elaborazione filosofica di Baruch Spinoza convergono diversi filoni di pensiero che avevano caratterizzato i precedenti periodi storici. La critica evidenziato a volte una corrente in particolare, ora di favorirne altre. Certamente il pensatore ebraico è stato fortemente influenzato dalla filosofia cartesiana. Alla sua teoria dedica un’opera e di questa conserva il carattere geometrico e quello analitico-deduttivo. Analoga influenza esercita il pensiero di Thomas Hobbes, il cui teorizzare risulta egualmente scandito da un ritmo, quasi un flusso che si estrinseca in scoli, corollari e definizioni. Come non considerare, tra l’altro, la grande fascinazione subita dal filosofo nei confronti di posizioni cabalistiche-teosofiche. In parte riconducibili al suo pensiero risultano anche alcuni filoni della Scolastica e del Rinascimento. Affascinato Spinoza è soprattutto dalle suggestioni che gli provenivano dalla lettura di Giordano Bruno, alla cui filosofia appare molto vicino in particolar modo nell’opera giovanile che va sotto il nome di Breve Trattato.
Ciò tuttavia che maggiormente allontana Spinoza dalle religioni tradizionali, come il Cristianesimo o l’Ebraismo, è una difforme visione di Dio. Il suo Dio non è una divinità antropomorfica, non ha caratteri simili ai nostri, non è dotato di un’anima. E’ semplicemente l’ordine geometrico che regola il mondo. Lo regola senza tuttavia modificare il suo corso, senza interventi o arbitri.La realtà dunque non è creazione divina, ma sua derivazione. Il mondo, l’universo ed ogni ente esistente non è stato dunque creato, né esiste per emanazione. Spinoza in questo modo nega sia il creazionismo religioso sia l’emanazionismo plotiniano e neo-platonico. Tutta la realtà discende, segue per necessità dalla struttura stessa di Dio allo stesso modo di una dimostrazione geometrica: come dalla somma di tre angoli interni non può non derivare l’equivalente di centottanta gradi, così la realtà circostante deriva dalla natura di Dio. Egli, pur conservando la terminologia tradizionale, conduce una concezione innovativa e a tratti irriverente, in netto contrasto con la cultura di cui era imperniata la società seicentesca.Dio dunque è anche enunciato con il sinonimo di Sostanza. Puntuale arriva nell’Ethica la sua enunciazione:quod est in se et per se concipitur, ossia quell’entità il cui concetto non ha bisogno per esplicarsi del concetto di un’altra cosa da cui debba essere formato.”(Eth.I def. III) Ben evidenti sono già da quest’affermazione le caratteristiche di autonomia e autosufficienza. La sostanza di Spinoza si configura dunque come una realtà autoreggente e autosufficiente da cui necessariamente deriva l’esistenza.Essa è esplicitamente dichiarata come increrata, non avendo per esistere bisogno di nulla ed essendo causa sui, ossia un ente la cui essenza implica l’esistenza. Eterna, in quanto non riceve da altro la sua esistenza. Infinita, perché se fosse finita avrebbe bisogno di altro per esistere contraddicendo il primo punto. Finanche unica, “perché nella natura non si possono dare due o più sostanze della medesima natura ossia del medesimo attributo”. E’ interessante rilevare come quest’ultima particolarità può apparire similare al principio dell’identità degli indiscernibili di Leibniz, secondo cui in natura nulla è uguale ad un altro essere, “non foss’altro che per la posizione differente che entrambi occupano”. Per cui Dio, non traendo da nessun’altro se non da se stesso la capacità di essere, conserva nella sua stessa natura la propria ragion d’essere e non può non esistere. E’ questa la prova ontologica già applicata da Cartesio nel Discorso sul metodo come certificazione dell’ esistenza di Dio e che vede in S. Anselmo d’Aosta il primo teorico. Gli uomini e il mondo allora non esistono per virtù propria e devono dunque necessariamente derivare o dipendere da un altro ente superiore. Trova cosi applicazione la cosiddetta prova a posteriori. Ecco come il filosofo in un passo dell’Ethica esplica tale concetto: “noi esistiamo in noi o in un’altra cosa che esiste necessariamente.”(Eth. I prop. 11) In tal modo, la speculazione filosofica di Spinoza perviene ad una forma di panteismo o di panenteismo. Dio è in tutte le cose e tutte le cose sono in Dio. Ecco allora ciò che non compresero i membri della comunità Mahamad quando accusarono quest’uomo di ateismo. Non è ateismo la filosofia di Spinoza, ma panteismo. Non è priva di Dio, ma al contrario presuppone Dio in ogni ente.Deus sive natura, è talora l’affermazione erta a suo emblema:Dio è nella natura, nell’arte, siamo noi. Una considerazione dell’uomo quindi non pessimistica, come qualcuno ha evidenziato,ma ottimistica. In Spinoza c’è l’attribuzione alle capacità umane di qualcosa che forse è più grande delle sue stesse potenzialità. Homo homini deus, l’uomo deve farsi dio dell’altro uomo, sostiene il filosofo con toni probabilmente più speranzosi che oggettivi. Più che un’analisi realistica del vero, essa sembra forse una sfida futura posta all’uomo.Dicevamo prima che tra le caratteristiche fondamentali della Sostanza vi è quella dell’unicità. Essa è unica e per la stessa ragione non divisibile in più parti. Non si scompone in “sub-sostanze”.Ricorrente è la similitudine con l’acqua che non perde la sua identità molecolare sebbene sia versata in molteplici botti. Se la Sostanza stessa non ha bisogno di null’altro, non possono esistere delle “sostanze minori” che dipenderebbero dalla sostanza madre. Non c’è una gerarchia monadologica, ma è Dio che ingloba in sé l’intera creazione o, usando termini maggiormente precisi, l’intera derivazione. Risolto è anche il dualismo di Cartesio. Nel panteismo spinoziano non trovano luogo suddivisioni ousiologiche tra res cogitans e res extensa. Queste in effetti sarebbero dipese comunque da Dio, che rappresentava per l’uomo la sua garanzia metafisica, la continuazione dei “cogiti”, si diceva in risposta all’occasionalismo e a Gassendì. E se esse avevano bisogno di qualcosa, Dio, e da esso dipendevano, tradivano in tal modo il principio di unicità che li caratterizzava. La teorizzazione di “sostanze dipendenti”, questa era la contraddizione in termini della filosofia di Cartesio. La Sostanza pur nella sua unicità ontologica si articola in attributi e modi. Spinoza definisce l’attributo “ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come caratterizzante la sua essenza”. Gli attributi, discendendo da Dio che è infinito, sono anch’essi numericamente illimitati. Alla mente umana tuttavia è possibile percepirne soltanto due:l’estensione ed il pensiero. Sembra quasi una reminiscenza cartesiana. Eppure le due res erano considerate sostanze. Res appunto. Qui sono viste come attributi della sostanza. Questa la differenza intercorsa tra Descartes e Spinoza. “La cosa estesa o la cosa pensante sono o attributi di Dio o affezioni degli attributi di Dio.” (corollario II della prop. XIV) Controversa è stata la questione se gli attributi partecipassero della sostanza o fossero ad essa estranei. Nel corso degli anni due filoni di pensiero si sono contrapposti riguardo tale qaestio. Da una parte l’orientamento “modalistico”, capeggiato da Hegel, che sosteneva l’estraneità degli attributi. Dall’altra Fischer e Gueroult ne rivendicavano l’omogeneità.
Il modo invece è “quod in alio est”.Non ha esistenza autonoma, ma dipende dall’attributo a cui si riferisce. Sono manifestazioni o concretizzazioni particolari degli attributi. Possono essere pensati sono in virtù della Sostanza e dei suoi attributi. Sono dunque “ciò che in altro e per il cui mezzo è pure concepito.” A differenza della sola infinità degli attributi, si possono distinguere modi infiniti e modi finiti I modi infiniti rappresenterebbero il prodotto di ciò a cui ineriscono. Dato per attributo il pensiero, il suo modo infinito è l’idea. Per l’estensione, il corpo. I modi finiti invece stabiliscono questo o quel corpo in particolare. Questa o quell’idea. I modi infiniti particolarmente si suddividono in modi immediati e mediati.Tra i primi si riconoscono sia il movimento (Breve
Trattato) o la quiete (lettera al medico Schuller).Dei modi infiniti mediati Spinoza dà solo un esempio:la forma esteriore di tutto l’universo (Ep. LXIV).Utilmente esemplificativo risulta l’esempio chiarificatore fornito da Spinoza per meglio comprendere la Sostanza, gli attributi, i modi ed i rapporti che intercorrono tra loro. Considerando la Sostanza come un Oceano, l’acqua, elemento caratterizzante, rappresenterebbe l’attributo, le onde i modi infiniti e il movimento delle singole onde quelli finiti. Accennavamo prima alla presenza della necessità nella Weltanschauung spinoziana. Nell’universo nulla avviene a caso, ma tutto ha una determinazione ben programmata. E’ la casualità che cede posto alla causalità. Tutto ciò che accade ha quindi una causa che l’ha mosso. E’ la necessità, e non affatto il caso, a regolare il mondo, il suo andamento, le scelte dell’uomo. L’uomo, dunque. Anche la nostra stessa vita non siamo noi a deciderla, ma è stata già determinata. Spinoza è la negazione del libero arbitrio, della possibilità da parte di ogni essere umano di poter decidere il proprio avvenire. L’ “Homo faber fortunae suae”, pronunciata per prima da Appio Claudio Cieco e poi ripresa da tutta la corrente rinascimentale, assiste indenne alla sua frammentazione. E’ il determismo, non il finalismo, a regolare le azioni.Un meccanismo di causa ed effetto che non presuppone nessun intervento né umano né divino negli automatismi delle leggi della natura. “Nihil divinum”, scriveva Bernardino Telesio distaccandosi dalle concezioni magico-alchemiche dell’ermetismo rinascimentale. L’uomo dunque è solo illuso di poter scegliere secondo la propria volontà, ma in realtà è inglobato in un progetto divino a cui non può sottrarsi. Non ci si può opporre al destino, ma al massimo accettarlo. E proprio nell’accettazione del destino, l’Amor fati, risiede la libertà di ognuno. Fin troppo evidenti sono le analogie con lo stoicismo, che scorgeva l’essere umano come ineluttabilmente incapace di sottrarsi all’ordine programmato. Un Dio però che non agisce per volontà. E questa è la ragione per la quale non può creare. Se creasse, e conseguentemente agisse per volontà, questo comportamento implicherebbe un capriccio, un arbitrio, una scelta che Dio stesso in quanto tale non può emettere. Ecco anche perché Spinoza dà vita ad una filosofia rigidamente determisnistica, e non finalistica. Non c’è nessun fine nelle cose, benché l’esperienza confermi il contrario. Se Dio agisse per un fine, questo implicherebbe che Egli fosse mancante di qualcosa alla cui mancanza sopperire.Non sarebbe allora perfetto, se bisognasse della benché minima cosa. In questo modo il Nostro si distacca ancora di più dalla religione convenzionale che perorava non solo il creazionismo, ma anche il finalismo.Con queste parole il filosofo esprime con netta chiarezza in quale modo i sensi e l’abitudine quotidiana ci facciano credere che ogni “visa” ha una sua specifica finalità: (Ethica more geometrico demostrata)
“…Poiché in sé e fuori di sé gli uomini trovano parecchi mezzi
che contribuiscono al conseguimento del proprio utile, per esempio
gli occhi per vedere, il sole per illuminare, hanno tratto motivo per
considerare tutte le cose naturali come mezzi per il proprio utile.”
L’essere umano, già privato dell’arbitrio decisionale sul proprio destino, è inoltre considerato come un elemento naturale non al di sopra degli altri esseri. Contro l’antropologia dell’epoca, Spinoza sostiene la teoria della naturalità dell’uomo. Questi non è un eccezione, non è “un impero nell’Impero della natura”, ma fa parte di una specie, quella umana, sottoposta come le altre alle leggi dell’universo.
Riguardo le passioni, si è parlato, per quanto concerne l’interpretazione spinoziana, di “geometrismo morale”. Spinoza non aveva atteggiamenti di dura condanna nei confronti delle passioni: le considerava come ostacoli per raggiungere la visione completa per conoscere la realtà. Il comportamento da assumere è presto detto:
“Non ridere, nec lugere, nec detestari, sed intelligere…”
Ogni cosa tende allora a preservare il suo stato in virtù di uno sforzo autonomo, “conatus”, mediante il quale riuscire ad autoconservarsi. Concetto, questo, di matrice fortemente stoica (oikeiosis).Quando tale sforzo si riferisce alla mente, è detto Voluntas. Quando si riferisce anche al corpo Appetitus, definito l’essenza stessa dell’uomo. Quando leibnizianamente l’Appetitus ha appercezione, è cioè cosciente di sé, si chiama Cupiditas. A questi sentimenti seguono due diverse sensazioni:la Tristizia, legata al passaggio da una perfezione maggiore ad una minore, e la Laetitia, connessa al raggiungimento di una perfezione maggiore.(Leibniz nella sua “monadologia” lo chiamerà Appetizione). Dalla stesura di questi concetti, si configurano anche le definizioni di Bene e Male. Bene è tutto quello che favorisce lo sforzo di autoconservazione, Male tutto ciò che cerca di impedirlo.
Anche in Baruch parliamo, dunque, di intellettualismo etico. L’intellettualismo etico ha avuto diversi interpreti nel corso dell’evoluzione del pensiero filosofico. Il primo, si ricorderà, fu proprio Socrate in quanto concepì il progresso morale parimenti al progresso conoscitivo. Se già consideriamo alcuni passi del “Trattato sull’emendazione dell’intelletto” possiamo già scorgere una considerazione graduale della conoscenza. Infatti anche Spinoza, come Platone, parla di gradi della conoscenza. Il primo stadio esprime la percezione sensibile o l’immaginazione. Ciò che la mente percepisce a causa della conoscenza di primo genere, sono idee “confuse e frammentarie”.Tale cognizione appare dunque pre-scientifica, in quanto isola e non connette le realtà secondo il loro ordine.Trova rispondenza morale a questo comportamento intellettuale la schiavitù delle passioni a cui l’uomo è sottoposto. Sulle “idee comuni” invece si fonda la conoscenza di secondo genere. Una conoscenza razionale, ordinata, che capta idee “chiare e distinte”. E’ il grado di conoscenza tipico della scienza, capace questa di connettere le realtà secondo il loro ordine. E’ un punto di vista che definiremmo platonicamente “dianoetico”, relativo pertanto ad una interpretazione scientifica del mondo. Una vita virtuosa e fondata sulla razionalità è il corrispondente etico di questo stadio.Il terzo ed ultimo stadio della conoscenza è quello noetico, basato sulla “scienza intuitiva” della realtà. Questa visione, che potremmo definire imparziale e completa, consiste nella contemplazione della Sostanza stessa, dell’idea direbbe Platone, della costituzione di triade ousiologica: modi e attributi nella Sostanza e la Sostanza in essi. Dio nelle cose e tutte le cose in Dio. Panteismo e panenteismo.
E’ il grado massimo di beatitudine a cui l’uomo può aspirare, il raggiungimento completo di uno stato atarassico non bisognoso di nulla perché libero dalle passioni e dalla servitus humana.E’ l’Amor dei intellectualis,l’amore intellettuale di Dio, che inebria lo spirito umano di ebbrezza e piacere giubilare:
“Quanto più la mente gode di quest’amore divino ossia della
beatitudine, tanto più essa conosce, cioè tanto maggiore è la
potenza che ha sugli affetti, e tanto meno essa patisce dagli affetti
che sono cattivi…”
Solo chi si erge da questa altezza può godere della vera e completa visione del Tutto. Secondo la percezione sensibile, e di conseguenza la conoscenza di primo genere, il mondo appare profondamente difforme da quella reale contemplabile noeticamente. I sensi anche adesso ci ingannano, conformemente a quanto sostenne Platone e il più vicino Cartesio. Ai nostri occhi il mondo sembra multiforme, contingente e temporale. Realmente esso è invece unitario, in quanto la Sostanza è unica, necessario e necessitato ed eterno.
L’intero sistema spinoziano, da come si è visto, elabora concetti di libertà, necessità, libero arbitrio, di divinità e creazione stessa che sono in netta antitesi alle rispettive teorie che animavano il mondo prima di allora. Il Dio che emerge dagli scritti ingialliti e ammuffiti non è la divinità convenzionale, ma è il Dio dei filosofi, il Dio ragione, in una straordinaria anticipazione del deismo illuministico. Una grande rivoluzione, quella di Spinoza, sia metafisica che teologica. Si…o forse entrambe le questioni insieme, in quanto nella sua filosofia si assiste alla coincidenza perfetta di teologia, metafisica e ousiologia. Dio, e dunque la teologia, è tuttavia la Sostanza, ousiologia,ed entrambe fanno parte di un ambito metafisico, astratto dal mondo dei sensi e dell’immaginazione.
Altrettanto anticipatrici e rivoluzionarie sono le teorie riguardo la tolleranza , il rispetto reciproco, la fratellanza. Nel Trattato teologico.politico viene elaborata, e consigliata, una form adi Stato non oppressivo, non tirannico e dispotico, ma liberale e fraterno. Un uomo che parla di fratellanza e di affetto sebbene sia stato ingiuriato e scacciato da coloro che appartenevano alla sua stessa “famiglia”. Spinoza ai giorni nostri sta a simboleggiare l’emblema della coerenza e della disciplina, di una virtù non per forza religiosa, ma capace di albergare anche in animi che non conoscono o condividono la Rivelazione o il Dio ebraico, in un intuizione quattrocentesca che già per il bene odierno dell’Occidente ebbero ingegni sommi come gli umanisti delle corti del nostro paese.
A cura di Gianluca Forgione - umbertoforgione@hotmail.com
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Ricordatevi che di qualsiasi scritto, dove nasce da una idea un conflitto,
bisogna coglierne della logica l'essenza, per un sano spunto di partenza.
Se non si è schiavi di una religione, una idea anche se forte,
può far utilizzo della ragione, come del pennello ne fa l'arte.
(LexMat)
Quanto rimane, è un destino dove solo la conclusione è fatale.
Ed a dispetto della morte, tutto è libertà, un mondo di cui l'uomo è il solo padrone.
(Albert Camus)
Presentazione
La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.
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