Novella Cantarutti, Senza titolo
Può la poesia dire cose che altrimenti non
arrivano alla parola, che altri linguaggi – quelli della prosa, per
esempio, o della filosofia o della scienza – non sanno sollevare fino
alla percezione? Sembra proprio di sì, e di tal natura è la breve poesia
di Novella Cantarutti, che non ha titolo, ma che io chiamerei Il cerchio e la riga.
Non tutta la poesia però ha queste caratteristiche. Non le filastrocche, o quella delle sagre e delle cerimonie che suona familiare alle orecchie della maggior parte, e neppure la poesia che occupa posti importanti nella scala delle altezze perché canta sentimenti profondi, imprese mitiche, avvenimenti eccezionali.
Non tutta la poesia però ha queste caratteristiche. Non le filastrocche, o quella delle sagre e delle cerimonie che suona familiare alle orecchie della maggior parte, e neppure la poesia che occupa posti importanti nella scala delle altezze perché canta sentimenti profondi, imprese mitiche, avvenimenti eccezionali.
Io anzi ne conosco poca di anticipatrice di mondi nuovi o di nuovi aspetti del medesimo. Quella di Hölderlin e Novalis, per esempio. Il primo ha visto e seguito gli Dèi in fuga nella notte santa, fino a smarrirsi; il secondo ha affrontato e indagato il regno della notte e morte per ritrovare la fidanzata Sophie, “dove quel petalo era volato” in giovanissima età. Oppure
la poesia dei presocratici, da cui il pensiero filosofico è nato.
Sapienza che ha preceduto il sapere razionale quel loro dire in versi.
Collocata la poesia di Novella nel posto che
le spetta, vale a dire nel tempo e luogo che è il crinale fra passato e
futuro in questo caso, provo ora a sviluppare quel che essa dice in
modo molto breve ed enigmatico. Me lo consente, io credo, una lunga
pratica in questo campo e poi quel mio accanirmi, durato una vita, su
quelle righe diritte che stanno davanti, soprattutto su quella della
vita. Quella che comincia, si sviluppa per un breve tratto o arco, e poi
finisce e dopo non si sa. Con questa io ho combattuto fino a ridurla a
un cerchio anch’essa. È la linea che ha un verso solo su cui, come si
vedrà, la poesia s’appunta, forse per additare come la sibilla delfica
che essa è il problema del nostro tempo, che ora dobbiamo risolvere per
salvarci.
La poesia comincia, dunque, nel punto dove,
come scia di nave che avanza, il passato si scioglie e scompare e dopo
c’è il futuro. Ma “Rotolo indietro”, dice il primo verso, e pare che ci
sia in esso anche una nota di rifiuto ad andare avanti. Chi può rotolare
è cerchio o cosa rotonda ed è tale tutto ciò che in noi è natura: vale a
dire il corpo e tante sue manifestazioni; e rotola, recita la poesia,
in altre rotondità. Nelle braccia della madre, e da madre in ava sempre
più indietro. Più indietro di ciò che è apparso come Storia più di
venticinque secoli fa, prima di Erodoto, di Tucidide. Quanto prima?
Dove diceva Pitagora, che ricordava molte delle sue precedenti esistenze, e in una di esse anche il suo nome di allora: Euforbo, milite nella guerra di Troia e ucciso in battaglia sotto le mura di quella città da Menelao, re di Sparta.
Dove diceva Buddha, che la notte precedente l’illuminazione ha richiamato alla memoria “migliaia di vite come rivivendole e le ha collegate fra loro”.
Dove ha detto Ermete Trismegisto, nato tre volte in Egitto dove si è dedicato alla conoscenza, finché nell’ultima vita terrena si è illuminato, ha ricordato le sue precedenti esistenze, ha ricuperato il suo vero nome, e poi è salito al mondo superiore dov’è l’origine.
Fin dove Empedocle ricordava d’esser stato: “Un tempo io fui già fanciullo e fanciulla, arbusto, uccello e muto pesce che salta fuori del mare”.
O ancora più in giù? Forse si, “nel tempo senza storia”, afferma la poesia. Forse essa attinge anche alla profondità più grande, alla “cuna d’acqua” che è il grembo della madre, dell’ava, ma anche il fondo primordiale dove la vita sulla terra è cominciata quattro miliardi d’anni fa. Perché, come il sonno, il sogno, l’inconscio da cui arriva, non ha limiti di tempo e di spazio la poesia. Inoltre c’è somiglianza fra una “cuna” e l’altra, fra il primordiale grembo del mare e quello della donna. Il secondo è una specialità del primo.
Dove diceva Pitagora, che ricordava molte delle sue precedenti esistenze, e in una di esse anche il suo nome di allora: Euforbo, milite nella guerra di Troia e ucciso in battaglia sotto le mura di quella città da Menelao, re di Sparta.
Dove diceva Buddha, che la notte precedente l’illuminazione ha richiamato alla memoria “migliaia di vite come rivivendole e le ha collegate fra loro”.
Dove ha detto Ermete Trismegisto, nato tre volte in Egitto dove si è dedicato alla conoscenza, finché nell’ultima vita terrena si è illuminato, ha ricordato le sue precedenti esistenze, ha ricuperato il suo vero nome, e poi è salito al mondo superiore dov’è l’origine.
Fin dove Empedocle ricordava d’esser stato: “Un tempo io fui già fanciullo e fanciulla, arbusto, uccello e muto pesce che salta fuori del mare”.
O ancora più in giù? Forse si, “nel tempo senza storia”, afferma la poesia. Forse essa attinge anche alla profondità più grande, alla “cuna d’acqua” che è il grembo della madre, dell’ava, ma anche il fondo primordiale dove la vita sulla terra è cominciata quattro miliardi d’anni fa. Perché, come il sonno, il sogno, l’inconscio da cui arriva, non ha limiti di tempo e di spazio la poesia. Inoltre c’è somiglianza fra una “cuna” e l’altra, fra il primordiale grembo del mare e quello della donna. Il secondo è una specialità del primo.
Ed ora l’altra parte che chiamiamo futuro,
quella delle “righe”, che ci appare come davanti e che stiamo conducendo
fra pianti e canti. Non più il tondo ma il dritto. Ma cos’è questo dritto che viene dopo se dietro di noi tutto rotola; anche il sole, la terra, la luna, le stagioni, e tutto appare tondo e circolare? Cos’è quel dritto innaturale? Lo dice la poesia cos’è: “Righe/ di muro, di ferro, d’asfalto/ senza appoggio”. Cioè tecnica.
E se grattiamo un po’ su quelle dure scorze, ecco che appare quel che
sta prima di esse: la conoscenza umana, quella scientifica che ha dato
numeri, ordine, misure. Poi, se s’insiste e si va più a fondo, appare la
filosofia, appare la sapienza da cui la filosofia è nata e infine
l’autore di questo mondo di conoscenza e tecnica. Si chiama Io.
Ciò che s’è staccato in tanta parte dalla natura e mira ad aumentare la
distanza; quello che è libero, si dice, che si conduce da sé. l’Io penso di Cartesio, ma anche quello di Kant, e poi l’Io assoluto di Fichte, Schelling, Hegel, che per loro è anche Dio.
Ma è pure la nostra povertà più grande; ce ne siamo accorti soprattutto nel secolo appena trascorso, funestato da due guerre mondiali e da campi di sterminio. Un Io che ci fa intendere la morte e ce la pone sempre davanti, ma non arriva a darci la vita oltre i limiti concessi dalla natura; un Io che ci apre all’immortalità ma essa è come un miraggio nel deserto.
Le “righe”, dunque, sono le opere dell’uomo, le conoscenze che le hanno prodotte, la concezione lineare del tempo che le accompagna, dritta come un fuso, ma “senza appoggio”. Nessun sostegno per loro come invece l’hanno i corpi celesti che circolano, ritornano al punto da dove sono partiti, coincide la fine con l’inizio e mai non cadono.
La riga è la conoscenza che abbiamo di noi stessi, che è limitata al tempo della vita, alla parte diurna di essa. Può andare anche oltre, anche a ciò che hanno escogitato gli altri in pensieri ed opere e al cammino comune compiuto in un luogo e tempo determinati. Per esempio quello degli italiani nella loro patria o assieme ad altri popoli in Occidente. Ma sempre riga rimane.
Ma è pure la nostra povertà più grande; ce ne siamo accorti soprattutto nel secolo appena trascorso, funestato da due guerre mondiali e da campi di sterminio. Un Io che ci fa intendere la morte e ce la pone sempre davanti, ma non arriva a darci la vita oltre i limiti concessi dalla natura; un Io che ci apre all’immortalità ma essa è come un miraggio nel deserto.
Le “righe”, dunque, sono le opere dell’uomo, le conoscenze che le hanno prodotte, la concezione lineare del tempo che le accompagna, dritta come un fuso, ma “senza appoggio”. Nessun sostegno per loro come invece l’hanno i corpi celesti che circolano, ritornano al punto da dove sono partiti, coincide la fine con l’inizio e mai non cadono.
La riga è la conoscenza che abbiamo di noi stessi, che è limitata al tempo della vita, alla parte diurna di essa. Può andare anche oltre, anche a ciò che hanno escogitato gli altri in pensieri ed opere e al cammino comune compiuto in un luogo e tempo determinati. Per esempio quello degli italiani nella loro patria o assieme ad altri popoli in Occidente. Ma sempre riga rimane.
La conclusione la poesia non la dice, ma l’addita. Perché deriva dalle altre due. Se il futuro è “riga”, basta piegarla. Affinché, come dice il TAO, “allontanarsi significhi tornare”; simile a quel che ha detto Hegel:
“L’andare innanzi è un tornare indietro, al fondamento, all’originario e
al vero, dal quale ciò con cui si è cominciato dipende ed è, di fatto,
prodotto”. Perché, come ha detto Goethe, “Più si conosce e più si sa/
tanto più si riconosce che tutto in circolo ruoterà”.
Dietro, infatti, solo così sono le righe: piegate, arcuate, a tornanti. Il cielo è concavo, i corpi celesti sono tondi, la donna è curve e circonferenze innumerevoli. E la stessa cosa sarà davanti.
Dietro, infatti, solo così sono le righe: piegate, arcuate, a tornanti. Il cielo è concavo, i corpi celesti sono tondi, la donna è curve e circonferenze innumerevoli. E la stessa cosa sarà davanti.
Piegare la riga, torcerla, finché
non ritorna dove è cominciata, questa è la soluzione del problema: cosa
più facile da dire, però, che da fare. Io ci ho messo cinquant’anni per
riuscirci e ho dovuto superare prove immani: uscire la Labirinto, attraversare l’Abisso, scoprire il segreto della Porta
per poterla aprire, e attraversare quella soglia, e mi ha aiutato il
Cielo. Ma non sarei ugualmente riuscito nel mio intento se non c’era la
filosofia, tutta quanta, dalla sua Aurora avvenuta venticinque secoli fa
nell’antica Grecia Fino al Tramonto del secolo scorso e alla Notte e
Mezzanotte degli ultimi decenni. Fino a tal punto mi ha accompagnato la
filosofia, e le ultime orme che ho seguito sono state quelle di
Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger, Freud, Jung, Jünger. Poi per il
superamento dell’ultima parte, dalla Mezzanotte in poi, dove provando a
scendere per poi risalire non si trova il fondo, ho fatto tutto da solo
usando lo stratagemma che mi ha dato la filosofia, ponendo la traccia di
quel Ponte sospeso sull’Abisso che potrebbe diventare un capolavoro
della conoscenza umana.
In tal modo la riga si è incurvata, è diventata un arco e un cerchio, e “in una circonferenza fine e principio stanno assieme, sono lo stesso”.
Ma questa è una lunga storia ed io mi fermo. Dico soltanto che anche la via della conoscenza che appariva diritta, ora non lo è più. Ma questa è ancora cosa segreta e nascosta, quasi nessuno ancora la sa.
In tal modo la riga si è incurvata, è diventata un arco e un cerchio, e “in una circonferenza fine e principio stanno assieme, sono lo stesso”.
Ma questa è una lunga storia ed io mi fermo. Dico soltanto che anche la via della conoscenza che appariva diritta, ora non lo è più. Ma questa è ancora cosa segreta e nascosta, quasi nessuno ancora la sa.
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