«Con gli occhi che si spegnevano K.
vide ancora come, davanti al suo viso, appoggiati guancia a guancia, i
signori scrutavano il momento risolutivo. “Come un cane!”, disse, fu
come se la vergogna gli dovesse sopravvivere»
(F. KAFKA, "Il Processo")
(F. KAFKA, "Il Processo")
Sembra impossibile pensare alla morte in
condizioni normali: non vogliamo soffermarci su ciò che oltremodo ci fa
soffrire, ci sgomenta, ci fa paura e che sembra il contrario di tutto
ciò che vogliamo e desideriamo. Spesso si è data una rappresentazione
falsata della morte, oppure si è cercato di nasconderla alla vista ed
alla coscienza e, se forzati ad affrontarla, ci si è affidati al rito ed
alla fede. Ai giorni nostri c’è stata talvolta una spettacolarizzazione
della morte ed al necessario silenzio che sempre accompagna quei
momenti si è sostituito un ipocrita applauso: non solo nei casi di morte
per la patria, ad esempio, ma anche per la morte di persone innocenti;
si capiscono il dolore, lo sgomento, la rabbia, il mancamento, ma perché
applaudire se non per risolvere l’angoscia in comode giustificazioni?
Nel corso della storia, poi, il suicidio è stato a torto quasi
unanimamente condannato; il suicida è stato trattato come un peccatore,
uno che di fronte alle difficoltà della vita ha scelto una via comoda
per non assumersi responsabilità. Possiamo leggere questa condanna come
un non volere indagare sulle vere ragioni che spingono una persona a
quel gesto tragico.
Pertanto, il comun denominatore dei comportamenti davanti alla morte, soprattutto nella società contemporanea, è la fuga, ma se il pensiero vuole essere autentico deve affrontarla: essa non può non essere tematizzata, è forse “IL” tema per eccellenza per comprendere e misurare il nostro essere al mondo.
Pertanto, il comun denominatore dei comportamenti davanti alla morte, soprattutto nella società contemporanea, è la fuga, ma se il pensiero vuole essere autentico deve affrontarla: essa non può non essere tematizzata, è forse “IL” tema per eccellenza per comprendere e misurare il nostro essere al mondo.
Inutile ricordare che il culto dei morti e
le sue modalità di svolgimento sono elementi centrali nelle civiltà,
sono importante oggetto di studio antropologico e che la morte è ciò su
cui la religione e la filosofia hanno a lungo riflettuto. E’ evidente il
motivo di tale interesse: la nostra condizione è mortale, una delle
poche certezze della vita, o forse l’unica, è che ha una fine
inevitabile.
Cos’è che sconcerta così tanto nella morte al punto che preferiamo evitarne il pensiero?
Quello che ci pare assodato come esperienza comune è che, a dispetto di ogni credenza in una qualche forma di vita dopo la morte, nell’aldilà, la morte, nostra e delle persone che ci stanno intorno, sia un pensiero angoscioso. Sotto questo aspetto di immediato sentire non fa differenza essere credente o ateo, pensare che con essa tutto svanisca nel nulla o che ci siano l’Inferno o il Paradiso o l’Ade o qualsiasi altro mondo ultraterreno.
Qual è la prima caratteristica della morte? Possiamo partire ad interrogarci dalla visione di un cadavere; a tutti è capitato di entrare in una sala obitoria e di vedere un cadavere. Ciò che colpisce nel cadavere è la freddezza, il pallore e la fissità, il fatto che sia un oggetto come tutti gli altri, la sua estraneità. Il cadavere, a differenza dell’uomo vivente che era prima di spirare, è immobile, non ha più presa sul mondo, non ha più un mondo. Per contrasto, qui vediamo qual è la caratteristica essenziale dell’uomo: la sua luce interiore, quella per cui l’uomo ha un mondo, in cui l’esistenza si consuma in mille azioni, aspirazioni, ambizioni, speranze, ricordi, ecc. L’essere al mondo è avere un mondo. Ciò significa trascendere la realtà di fatto, data, verso il futuro: l’uomo è per essenza progetto. Allora il cadavere è la negazione e l’opposto di tutto questo, rapporto esterno ed estraneo con le cose nel mondo. A questo punto, si può dire che la morte fa sì che l’essere progettante, l’uomo, sia ridotto a puro oggetto passivo, che la luce interiore si spenga per sempre, che il progetto di fondo, costitutivo dell’uomo, fallisca per sempre. Mentre prima di morire ogni cedimento, ogni ruga, ogni inceppamento, veniva ripreso e superato, ogni debolezza veniva spiegata, filtrata da propositi di miglioramento o pensieri di giustificazione, il passato stesso era intenzionato nella interpretazione del ricordo e diventava o nostalgia o motivazione al cambiamento, la malattia era giustificata dalla speranza della guarigione; ora invece c’è la disfatta, l’inerzia totale di fronte all’azione del tempo.
La morte pertanto è chiusura assoluta e tragica dell’apertura che era cominciata con la vita: chiusura del mondo, interruzione definitiva del movimento costitutivo di trascendenza dell’uomo. E’ assoluta nel senso di assolutamente inspiegabile con gli strumenti che abbiamo a disposizione e nel senso di irrimediabile.
Se l’intera esistenza è dunque progetto, allora essa deve avere un senso causato dall’orientamento dell’insieme delle azioni, dei sentimenti, dei pensieri, che si compongono in una totalità posta alla base dell’apertura dell’essere al mondo. Il senso è la giustificazione dell’esistenza e viene pensato come raggiungibile, in parte, già qui su questa terra; tuttavia, vista la limitatezza dell’uomo e delle sue condizioni di vita, il senso troverà il suo pieno compimento in totalità solo nell’aldilà. A fondamento della totalità del senso sulla terra deve stare l’identità del soggetto che si pensa possa continuare a vivere, a esserci, sotto altra forma anche dopo la morte: senza questi elementi non è possibile concepire il progetto come coerente e dotato di senso. La morte è proprio la negazione di questa totalità di senso. Di fronte alla morte ci chiediamo non a caso: «Ma che senso ha la vita dal momento che termina con la morte?» e non per avere una risposta, ma solo per esprimere la nostra angoscia e lamentarci della nostra condizione, perché è chiaro che la morte è la perdita assoluta del senso come totalità e distruzione di senso. Ecco cosa ci terrorizza in essa, il fatto che contraddice il nostro essere al mondo, il nostro progetto: è un impossibile che diventa reale; noi progettiamo la nostra esistenza a partire da possibilità che vengono realizzate in modo più o meno concreto, la morte invece è una impossibilità che accade. Ciò significa che la morte è negazione dell’identità del soggetto come fondamento di senso e negazione dell’aldilà come condizione della realizzazione completa del senso-totalità.
L’uomo di fronte alla probabilità, che la coscienza della morte tramuta in certezza, che il senso non stia nell’identità dell’io o nel mondo ultraterreno, vuole almeno che la morte sia qualcosa di più che un accadimento fortuito o un banale incidente, tenta di pensare alla morte come compimento. Ciò risulta chiaro da alcune esperienze note: il fatto di voler concepire la fine come il fine della esistenza; ad esempio, nella esaltazione della bella morte: morte in circostanze eroiche, morte per ideali; oppure, altro esempio, nel mito delle parole in punto di morte: a lungo si è pensato che le parole pronunciatee prima di spirare debbano condensare in sé il succo dell’intera esistenza, inverare l’intera vita; esistono molti esempi ed aneddoti di personaggi storici che in punto di morte avrebbero pronunciato parole decisive, che ne svelavano una volta per tutte il carattere, parole memorabili o verità lapidarie. Da questi elementi risalta in piena luce il desiderio umano che la morte non sia un’insensata impossibilità, ma il fine della esistenza, il suo perfetto compimento. Nella realtà, invece, la morte accade spesso all’improvviso e in modo banale. La nostra condizione è ben raffigurata dal finale formidabile de Il Processo di Kafka, dove il protagonista K. senza alcuna spiegazione che giustifichi la sua condanna a morte (spiegazione che egli ricerca per l’intero romanzo) viene ucciso «come un cane». La rivelazione finale del romanzo è uno choc che dovrebbe far riflettere chi cerca una giustificazione alla morte. E’ vero che con la morte la vita ha compimento, ma mai il compimento desiderato o sperato. Ecco il destino che la bella morte e le parole in punto di morte vogliono mascherare!
L’assoluto inspiegabile che è la morte fa sì che essa stia in rapporto ben più stretto di quanto si pensi o ammetta con il suo opposto: la vita. C’è una stretta fratellanza tra vita e morte che il senso comune non vuole vedere: anche la vita nella contingenza e inspiegabilità della sua apertura è assoluta e di fatto. Il senso comune ha bisogno di poggiare l’esistenza su alcune certezze, una delle più tenaci è che la vita sia opposta alla morte; a tal fine s’ingegna a creare l’identità fittizia dell’io o dell’anima, a fantasticare di mondi oltre la morte, luoghi in cui trionferà il bene, in cui potremo ritrovare chi abbiamo perso e così via, mentre è chiaro che la morte non è sereno trapasso del nostro io verso un’altra forma di vita, ma angosciante chiusura assoluta che sperimentiamo già nella vita, rottura dell’identità dell’io che è destinato a non durare. Il tragico che l’accompagna non è dissimile da quello che presiede alla vita, che può essere definita, infatti, istintiva ed ostinata presenza priva di qualsiasi spiegazione.
Accettare l’accadere dell’impossibilità della morte significa accettare la correlativa gratuità dell’esistenza.
Ecco la verità tremenda ed al tempo stesso sublime della nostra condizione, che i più non vogliono vedere! Questa verità è svelata dal sentimento di angoscia che tutti proviamo e non è di poco conto, perché ci permette di capire che la vita è già da subito pericolo di morte e, viceversa, che il sentimento della morte può rinvigorire la vita e renderla autentica: l’intensità dell’esistenza, la sua potenza, non consiste forse nel fatto di essere effimera, mortale, finita, ed aver come destino quello di infrangersi come un’onda? Solo la fratellanza tra vita e morte è alla nostra portata, per cui tutto ciò che creiamo, conosciamo, costruiamo è destinato a finire e scomparire nel nulla. Perché ricorrere ancora alla finzione dell’eterno, quando un amore è grande, commovente, struggente, solo se ha l’oscura intuizione di dover necessariamente finire, solo se ha in sé già il germe della propria fine tragica? quando una vita è mirabile solo se non si arroga il diritto di aver fondato il senso una volta per tutte e si consuma pertanto nel molteplice del divenire delle proprie creazioni e sensazioni? quando una vita è eroica solo se guarda in faccia il proprio destino e affronta senza illusioni il viaggio con la consapevolezza del naufragio?
Cos’è che sconcerta così tanto nella morte al punto che preferiamo evitarne il pensiero?
Quello che ci pare assodato come esperienza comune è che, a dispetto di ogni credenza in una qualche forma di vita dopo la morte, nell’aldilà, la morte, nostra e delle persone che ci stanno intorno, sia un pensiero angoscioso. Sotto questo aspetto di immediato sentire non fa differenza essere credente o ateo, pensare che con essa tutto svanisca nel nulla o che ci siano l’Inferno o il Paradiso o l’Ade o qualsiasi altro mondo ultraterreno.
Qual è la prima caratteristica della morte? Possiamo partire ad interrogarci dalla visione di un cadavere; a tutti è capitato di entrare in una sala obitoria e di vedere un cadavere. Ciò che colpisce nel cadavere è la freddezza, il pallore e la fissità, il fatto che sia un oggetto come tutti gli altri, la sua estraneità. Il cadavere, a differenza dell’uomo vivente che era prima di spirare, è immobile, non ha più presa sul mondo, non ha più un mondo. Per contrasto, qui vediamo qual è la caratteristica essenziale dell’uomo: la sua luce interiore, quella per cui l’uomo ha un mondo, in cui l’esistenza si consuma in mille azioni, aspirazioni, ambizioni, speranze, ricordi, ecc. L’essere al mondo è avere un mondo. Ciò significa trascendere la realtà di fatto, data, verso il futuro: l’uomo è per essenza progetto. Allora il cadavere è la negazione e l’opposto di tutto questo, rapporto esterno ed estraneo con le cose nel mondo. A questo punto, si può dire che la morte fa sì che l’essere progettante, l’uomo, sia ridotto a puro oggetto passivo, che la luce interiore si spenga per sempre, che il progetto di fondo, costitutivo dell’uomo, fallisca per sempre. Mentre prima di morire ogni cedimento, ogni ruga, ogni inceppamento, veniva ripreso e superato, ogni debolezza veniva spiegata, filtrata da propositi di miglioramento o pensieri di giustificazione, il passato stesso era intenzionato nella interpretazione del ricordo e diventava o nostalgia o motivazione al cambiamento, la malattia era giustificata dalla speranza della guarigione; ora invece c’è la disfatta, l’inerzia totale di fronte all’azione del tempo.
La morte pertanto è chiusura assoluta e tragica dell’apertura che era cominciata con la vita: chiusura del mondo, interruzione definitiva del movimento costitutivo di trascendenza dell’uomo. E’ assoluta nel senso di assolutamente inspiegabile con gli strumenti che abbiamo a disposizione e nel senso di irrimediabile.
Se l’intera esistenza è dunque progetto, allora essa deve avere un senso causato dall’orientamento dell’insieme delle azioni, dei sentimenti, dei pensieri, che si compongono in una totalità posta alla base dell’apertura dell’essere al mondo. Il senso è la giustificazione dell’esistenza e viene pensato come raggiungibile, in parte, già qui su questa terra; tuttavia, vista la limitatezza dell’uomo e delle sue condizioni di vita, il senso troverà il suo pieno compimento in totalità solo nell’aldilà. A fondamento della totalità del senso sulla terra deve stare l’identità del soggetto che si pensa possa continuare a vivere, a esserci, sotto altra forma anche dopo la morte: senza questi elementi non è possibile concepire il progetto come coerente e dotato di senso. La morte è proprio la negazione di questa totalità di senso. Di fronte alla morte ci chiediamo non a caso: «Ma che senso ha la vita dal momento che termina con la morte?» e non per avere una risposta, ma solo per esprimere la nostra angoscia e lamentarci della nostra condizione, perché è chiaro che la morte è la perdita assoluta del senso come totalità e distruzione di senso. Ecco cosa ci terrorizza in essa, il fatto che contraddice il nostro essere al mondo, il nostro progetto: è un impossibile che diventa reale; noi progettiamo la nostra esistenza a partire da possibilità che vengono realizzate in modo più o meno concreto, la morte invece è una impossibilità che accade. Ciò significa che la morte è negazione dell’identità del soggetto come fondamento di senso e negazione dell’aldilà come condizione della realizzazione completa del senso-totalità.
L’uomo di fronte alla probabilità, che la coscienza della morte tramuta in certezza, che il senso non stia nell’identità dell’io o nel mondo ultraterreno, vuole almeno che la morte sia qualcosa di più che un accadimento fortuito o un banale incidente, tenta di pensare alla morte come compimento. Ciò risulta chiaro da alcune esperienze note: il fatto di voler concepire la fine come il fine della esistenza; ad esempio, nella esaltazione della bella morte: morte in circostanze eroiche, morte per ideali; oppure, altro esempio, nel mito delle parole in punto di morte: a lungo si è pensato che le parole pronunciatee prima di spirare debbano condensare in sé il succo dell’intera esistenza, inverare l’intera vita; esistono molti esempi ed aneddoti di personaggi storici che in punto di morte avrebbero pronunciato parole decisive, che ne svelavano una volta per tutte il carattere, parole memorabili o verità lapidarie. Da questi elementi risalta in piena luce il desiderio umano che la morte non sia un’insensata impossibilità, ma il fine della esistenza, il suo perfetto compimento. Nella realtà, invece, la morte accade spesso all’improvviso e in modo banale. La nostra condizione è ben raffigurata dal finale formidabile de Il Processo di Kafka, dove il protagonista K. senza alcuna spiegazione che giustifichi la sua condanna a morte (spiegazione che egli ricerca per l’intero romanzo) viene ucciso «come un cane». La rivelazione finale del romanzo è uno choc che dovrebbe far riflettere chi cerca una giustificazione alla morte. E’ vero che con la morte la vita ha compimento, ma mai il compimento desiderato o sperato. Ecco il destino che la bella morte e le parole in punto di morte vogliono mascherare!
L’assoluto inspiegabile che è la morte fa sì che essa stia in rapporto ben più stretto di quanto si pensi o ammetta con il suo opposto: la vita. C’è una stretta fratellanza tra vita e morte che il senso comune non vuole vedere: anche la vita nella contingenza e inspiegabilità della sua apertura è assoluta e di fatto. Il senso comune ha bisogno di poggiare l’esistenza su alcune certezze, una delle più tenaci è che la vita sia opposta alla morte; a tal fine s’ingegna a creare l’identità fittizia dell’io o dell’anima, a fantasticare di mondi oltre la morte, luoghi in cui trionferà il bene, in cui potremo ritrovare chi abbiamo perso e così via, mentre è chiaro che la morte non è sereno trapasso del nostro io verso un’altra forma di vita, ma angosciante chiusura assoluta che sperimentiamo già nella vita, rottura dell’identità dell’io che è destinato a non durare. Il tragico che l’accompagna non è dissimile da quello che presiede alla vita, che può essere definita, infatti, istintiva ed ostinata presenza priva di qualsiasi spiegazione.
Accettare l’accadere dell’impossibilità della morte significa accettare la correlativa gratuità dell’esistenza.
Ecco la verità tremenda ed al tempo stesso sublime della nostra condizione, che i più non vogliono vedere! Questa verità è svelata dal sentimento di angoscia che tutti proviamo e non è di poco conto, perché ci permette di capire che la vita è già da subito pericolo di morte e, viceversa, che il sentimento della morte può rinvigorire la vita e renderla autentica: l’intensità dell’esistenza, la sua potenza, non consiste forse nel fatto di essere effimera, mortale, finita, ed aver come destino quello di infrangersi come un’onda? Solo la fratellanza tra vita e morte è alla nostra portata, per cui tutto ciò che creiamo, conosciamo, costruiamo è destinato a finire e scomparire nel nulla. Perché ricorrere ancora alla finzione dell’eterno, quando un amore è grande, commovente, struggente, solo se ha l’oscura intuizione di dover necessariamente finire, solo se ha in sé già il germe della propria fine tragica? quando una vita è mirabile solo se non si arroga il diritto di aver fondato il senso una volta per tutte e si consuma pertanto nel molteplice del divenire delle proprie creazioni e sensazioni? quando una vita è eroica solo se guarda in faccia il proprio destino e affronta senza illusioni il viaggio con la consapevolezza del naufragio?
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20 luglio 2013 alle 08:33
20 luglio 2013 alle 11:42
Un caro saluto
Daniele
20 luglio 2013 alle 09:15
20 luglio 2013 alle 11:55
Daniele
20 luglio 2013 alle 11:32
20 luglio 2013 alle 16:37
Sottolineo questo passaggio: c’è un modello ideale di spiegazione, astratto, che tende a nascondere l’equilibrio come stato naturale della morte. E’ importante comprendere perché l’uomo provi il bisogno di un modello ideale e perché cada in preda all’angoscia una volta che esso è smentito in un caso limite come la morte; come funzionino il sentimento ed il pensiero umani in questa particolare situazione. Non per intenderli a livello psicologico, ma a livello esistenziale ed ontologico.
Un caro saluto
Daniele
22 luglio 2013 alle 08:05
Grazie.
23 luglio 2013 alle 22:00
Un caro saluto
Daniele
29 luglio 2013 alle 16:26
“Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’è minima parte d’uno degl’infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero dell’immensità delle cose, e si trova quasi smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose”.
Un carissimo saluto e grazie.
7. LexMat
E, tra l’altro, nemmeno tanto scontato.
Ottimi anche i commenti, tra i migliori mai letti da me, tranne il primo mi si permetta.
Desidero far presente che i millenni di interrogazioni filosofiche su questo (e tanti altri) argomento, sembrano non aver fatto raggiungere niente perchè l’uomo tende a dimenticare la storia ed i suoi insegnamenti.
Dimentica le sue parole come quelle degli altri.
E’ un continuo ricominciare daccapo, anche tra i filosofi.
La morte, via dicendo, ed il suo significato ultimo con relative implicazioni è conoscibile proprio soltanto da coloro che vi si sono avvicinati e sono tornati indietro per raccontarlo a se stessi per prima cosa.
Coloro che inventano (iperuranio e compagnia) probabilmente non hanno mai sostato sulla soglia di quel limite estremo.
Soltanto chi lo ha fatto può capire, ecco perchè i Filosofi non riescono a farsi capire da tutti, anche se tutti pretendono di capire.
Avere coraggio non significa non aver paura, un “salto nel vuoto” farebbe paura persino ad un Dio.
Bellissime le parole del nostro Leopardi.
LexMat
http://lexmat.blogspot.it/
Ognuno di noi può darsi una sua spiegazione personale e vivere e morire contento.
Siamo come gli uomini palla del discorso di Aristofane.
L’importante è ruzzolare insieme con serenità anche se verso la fine.
Radiguet insegna:
“Considerare la morte con salma conta solo se la si considera in solitudine.
La morte in due non è più la morte, anche per gli increduli.
Ciò che affligge non è lasciare la vita, bensì lasciare la persona che le dà un senso.
Quando un amore è la nostra vita, che differenza c’è tra vivere insieme e morire insieme?”
LexMat
8 ottobre 2013 alle 22:07
Come ha ben sottolineato è un continuo cominciare da capo. Forse il pensiero e il sentimento della morte sono il cominciamento per il pensiero; mettono, infatti, il soggetto di fronte alla radicale impossibilità di un evento che si realizza, illuminano la condizione umana. Il progresso della conoscenza oggettiva, il sapere, la tecnica, nulla possono di fronte a questo sentimento arcaico, “intimo” (non uso il termine soggettivo, perché farebbe pensare al soggetto, all’io, mentre qui si è nel campo dell’impersonale) dell’angoscia di fronte alla morte come rivelazione di un impossibile che si realizza e contemporaneamente della gratuità dell’esistenza. Questo sentimento non è solo paralizzante, ma anche collegato con la libertà profonda del singolo.
Un caro saluto
Daniele