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La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

giovedì 31 ottobre 2013

Socrate. Alla scoperta della sapienza umana

di Fulvio Notarstefano

Perché Socrate affermava di "sapere di non sapere"? Perché e in che modo tutto il pensiero socratico è riconducibile a questo atteggiamento di vita? A cosa era finalizzato? Sono queste tre delle questioni fondamentali che stanno alla base del recente saggio di Giovanni Reale dedicato a Socrate ("Socrate. Alla scoperta della sapienza umana" - Rizzoli, 2000) e di cui si riassumeranno alcune delle tesi principali.

Tre sono essenzialmente i concetti-cardine su cui ci si deve soffermare per comprendere l'importanza di Socrate nella storia del pensiero occidentale: 


Il "non sapere" quale fondamento pedagogico socratico

L'Apologia scritta da Platone ci rivela per quali motivi Socrate affermasse di "sapere di non sapere". Secondo Reale ed altri si deve riporre piena fiducia nella veridicità storica 1 di questo testo. Socrate dice che il motivo è connesso ad un responso fornitogli dall'oracolo di Delfi, secondo il quale era lui il più sapiente: egli infatti aveva compreso che «la sapienza umana è poca cosa e che il vero sapiente non è fra gli uomini, in quanto la sapienza è un possesso divino»2. Socrate si sentiva investito di una "missione divina", di un "compito assegnatogli dal dio": quello di esortare l'uomo alla virtù, ossia di «liberare l'uomo dalle illusioni che lo ingannano e lo spingono a prendersi cura di tutto, tranne che di ciò cui dovrebbe prendersi veramente cura, ossia della propria anima»3. Lo strumento di cui Socrate si servì per la sua "missione etico-educativa" di liberare l'anima dagli inganni, dagli errori, dalla falsa conoscenza, fu la sua dialettica confutatoria, il cui valore morale traspariva attraverso l'ironia. L'ironia appartiene essenzialmente all'attività pedagogica di Socrate, che è appunto quella di insegnare a prendersi cura della propria anima. Ironia e "non sapere" socratico sono finalizzati, secondo le interpretazioni di Kierkegaard e di Vlastos riprese da Reale, a «creare unità fra maestro e discepolo» - unità realizzabile solo tramite «l'amore del maestro per il discepolo»4:

Socrate, con la sua dichiarazione di non-sapere, cercava di mettere in atto proprio questo: «Perché, che cosa mai era la sua ignoranza se non l'espressione per l'unità dell'amore verso il discepolo?». In effetti, «se l'unità non si potesse realizzare con l'elevazione, si dovrebbe cercare di farla con l'abbassamento»: evidentemente, con l'abbassamento del Maestro al livello del discepolo, proprio al fine di poterlo elevare; e questo non può essere se non un atto d'amore. E' evidente che il Maestro - che con la maschera del «non-sapere» vuole avvicinarsi il più possibile al discepolo per liberarlo dall'ignoranza - non può se non negare, di conseguenza, di essere Maestro. Perciò, in senso assiologico, l'affermazione del non sapiente è propria del vero sapiente ...[così come quella di] «non essere un Maestro» è propria del vero Maestro, che in questo modo accende nel discepolo la fiamma del sapere. [...]«Quando Socrate professa di non avere conoscenza intende e al tempo stesso non intende quello che dice. [...] Nel senso convenzionale, dove insegnare è semplicemente trasferire conoscenza dalla mente di un docente a quella di un discente, Socrate intende quello che dice: non pratica quel tipo di insegnamento. Ma nel senso che lui aveva dato a "insegnare" - impegnare potenziali discenti nel ragionamento elenctico per renderli consapevoli della propria ignoranza e abituarli a scoprire da sé la verità che il docente aveva tenuto per sé - in questo senso di "insegnare" Socrate voleva dire di essere un insegnante; ...il suo dialogo con i compagni è diretto ad avere, e in effetti ha, l'effetto di suscitare e assistere il loro sforzo per un automiglioramento morale» (Vlastos).

1 - In breve, i motivi che inducono a ritenere così sono tre: a) l'opera è intitolata a Socrate, che è anche il protagonista, mentre negli altri dialoghi il titolo è dato dal deuteragonista; b) Platone cita se stesso nel dialogo per ben due volte: Socrate dice che è presente al processo e che appartiene al novero degli amici disposti a pagare l'ammenda proposta come pena alternativa alla morte; c) il processo cui assistette era un processo di Stato, dunque pubblico, e pertanto se avesse riportato falsità sarebbe stato senz'altro contestato; non solo, ma si sarebbe anche reso a sua volta reo di fronte a quella stessa polis che ne aveva condannato il maestro. (cfr. Reale, Socrate, Rizzoli, 2000, pp. 127-130).
2 - G. Reale, cit. p. 136.
3 - ibid., p. 139
4 - ibid., pp. 159-161 


La "rivoluzione" della dialettica socratica

C’è un nesso strutturale tra le motivazioni per cui Socrate non ha scritto nulla ed il metodo adottato nello svolgere il suo ruolo di filosofo nei confronti della comunità. La tesi secondo la quale "Socrate non ha scritto nulla perché dichiarava di non sapere nulla", e cioè per non cadere in contraddizione con se stesso è riduttiva. Secondo Giovanni Reale, le radici di questa scelta vanno ricercate nella cultura dell’oralità che oramai andava cedendo il passo alla scrittura, o per meglio dire nella fase di transizione da una oralità mimetico-poetica ad un’oralità concettuale-dialettica che preludeva ad un’alfabetizzazione più diffusa. Fino al V sec. a.C., periodo nel quale Socrate si formò ed operò, la cultura orale poteva dirsi ancora predominante. La fase culminante del processo cui Socrate assistette non rappresentava semplicemente il passaggio da una forma di comunicazione all’altra, ma piuttosto il superamento di un modo di pensare(quello della poesia, attraverso immagini ed emozioni) in direzione di un altro (quello della scrittura e della prosa, attraverso il ragionamento astratto).

La grandezza di Socrate risiede nel fatto che egli in qualche modo comprese ciò che accadeva, si accorse che maturava l'esigenza di un nuovo modo di esprimersi, e si inserì in questo processo con il metodo della sua dialettica. Non a caso il ritmo martellante della dialettica socratica, nel disturbare gli interlocutori interrompendoli e tempestandoli di domande ed osservazioni, stimolava l’altrui coscienza a smettere di ragionare attraverso immagini poetiche fini a se stesse, per indurla a pensare astrattamente, in modo tale che potessero fornire «precise spiegazioni razionali delle affermazioni da loro fatte»1. I "perché" e i "cos'è" di Socrate, insomma, imponevano all'interlocutore di ragionare facendo uso di una nuova terminologia e di una nuova sintassi, ribaltando così quello che era stato finora «l'asse portante della cultura greca» cioè, nella definizione di Reale, un pensare per immagini e per miti basato sulla ripetizione. A ciò Socrate contrappose un «modo di pensare per concetti e il ragionare in funzione dei principi e delle conseguenze»2,

introducendo così nel mondo greco concetti dotati di universalità e di astrattezza.

Socrate criticava la poesia proprio perché non permetteva alla mente umana di compiere "astrazione", intesa nel senso di separazione della «

"cosa in sé" dal contesto narrativo, che si limita a dirci cose intorno a questa "cosa in sé" o la illustra o la personifica»3. Nell’antica cultura orale mimetico-poetica, infatti, il soggetto pensante si immedesimava con l'oggetto rappresentato, mentre con il passaggio a quella concettuale-dialettica si affermava l’esigenza di rendere autonoma il primo dal secondo. E Socrate realizza questa separazione con la sua teoria dell’identità della persona umana con la psyché. Per Havelock, «la dottrina della psyché autonoma è la controparte della cultura orale». Prosegue Reale4:

La dottrina della psychéautonoma che si impone come controparte del rifiuto della cultura orale mimetico-poetica è avvenuta con Socrate nell’ambito dell’oralità stessa nella nuova forma, ossia mediante l’oralità dialettica e non nell’ambito della scrittura. [Questa rivoluzione] è stata messa in atto e sollecitata da una forma di oralità che si opponeva a una forma di oralità antitetica e tendeva a sostituirla. […] La parola scritta si è imposta ad un certo punto come necessaria, perché era nata e si era sviluppata accanto all’oralità mimetico-poetica una oralità dialettica la quale, proprio al livello cui l’aveva portata Socrate, se poteva essere comunicata in modo perfetto nella dimensione dell’oralità non poteva invece essere memorizzata conservata e reimpiegata se non con il supporto della scrittura. […] Socrate è l’ultimo grande esponente di quella cultura dell’oralità che era stata dominante fino al V secolo, che tuttavia mediante la dialettica ha svuotato completamente dei suoi antichi contenuti poetico-mimetici e dei metodi ad essi connessi; ma, nello stesso tempo, egli ha contribuito a rendere necessaria in modo determinante la scrittura per la conservazione e la riutilizzazione di ciò che aveva detto e insegnato.

Dunque dalla rinuncia alla scrittura di Socrate nasce la scrittura su Socrate, e per di più in una forma – quella dei lógoi sokratikói – senza alcun precedente storico, dal momento che il messaggio «che tanto colpiva nei suoi contenuti e nella forma con cui veniva comunicato non poteva essere memorizzato, fissato in modo stabile e riutilizzato nell’ambito dell’oralità»5. D'altro canto, le disparità e le contraddizioni delle fonti socratiche sono spiegabili se si prende atto del fatto che, mentre i messaggi comunicati mediante l'oralità mimetico-poetica potevano essere recepiti, memorizzati e riutilizzati senza variazioni significative, quelli comunicati mediante l'oralità dialettica erano, per loro natura, difficilmente recepibili e riferibili allo stesso modo da persone differenti. Perciò, nelle dimensioni dell'oralità, il messaggio di Socrate non poteva conservarsi immutabile e intatto, ma doveva, necessariamente, subire le variazioni interpretative di coloro che lo recepivano e lo tramandavano.

1 - G. Reale, Socrate, Rizzoli, 2000, p. 83.
2 - Ibid., p. 162.
3 - Ibid., p. 92.
4 - Ibid., pp. 87-93.
5 - Ibid., p. 100. 


L'uomo e la psyché

Tanto il metodo quanto la forma, e cioè l'oralità concettuale-dialettica unita all'ironia di cui si servì Socrate, retti dall'atteggiamento spirituale del "sapere di non sapere", è finalizzato ad un preciso scopo: permettere agli uomini di vivere meglio, ossia insegnare loro a prendersi cura della propria anima, poiché essa e l'uomo sono una sola cosa. Il merito maggiore da attribuire a Socrate è proprio quello di aver introdotto nel mondo occidentale l'identificazione dell'essenza dell'uomo con la sua anima, intesa come intelligenza o capacità di intendere e volere secondo coscienza, facendo assumere alla stessa quel significato destinato a rimanere pressoché immutato fino ad oggi. Egli non si occupò di physis, come avevano fatto praticamente tutti i filosofi prima di lui, poiché dunque mirava molto più in alto, in quanto provò a fornire una risposta al grande enigma avanzato dal motto apollineo: "Conosci te stesso". La risposta di Socrate è "l’uomo è la sua anima ed il prendersi cura della medesima rappresenta il fine più alto cui debba aspirare". Ma perché l'uomo possa prendersi cura della propria anima deve poter operare in vita le giuste decisioni, e per farlo deve possedere una conoscenza del bene, sulla base della quale giudica e decide. Per Socrate la conoscenza del bene si identifica con la virtù (areté) ed il suo opposto è l'ignoranza, collegata invece al vizio. Pertanto colui che possiede una conoscenza del bene, cioè sa cosa è giusto per sé, per la propria anima, è un uomo virtuoso. I vizi di cui parla Socrate comprendono l'attaccamento dell'uomo a tutto ciò che non è anima, cioè i beni ed i valori esteriori e materiali, che avevano fino ad allora costituito la "tavola dei valori" del mondo greco. Socrate ribaltò questa tavola, affermando che la loro bontà e la loro utilità era subordinata alla conoscenza. L'animo, in quanto capace di azioni morali, può produrre azioni "buone" e "cattive". L'affermazione contenuta nel Protagora secondo la quale l'uomo non vuole il male ma solo il bene è comprensibile se si considera che l'uomo è sempre mosso da un desiderio non meglio definito di "felicità". Ma la felicità non è data da beni esteriori ma da quelli dell'anima, cioè del perfezionamento della medesima tramite la virtù ossia la propria conoscenza: in tal modo, l'uomo attua quella che è la sua natura. Le azioni che producono del male sono frutto di cattive scelte, fatte sulla base di considerazioni dettate dall'ignoranza che convincono l'uomo che ciò che sta facendo in realtà è bene. E' necessario quindi comprendere il bene per praticarlo. Socrate indica nella filosofia il mezzo per giungere ad una conoscenza più ampia di se stessi e delle cose, per comprendere quale sia l'essenza del bene. Una vita vissuta senza indagine non vale la pena di essere vissuta: e nell'affermare ciò, Socrate afferma il primato del sapere sull'essere semplicemente virtuosi e sul vivere secondo virtù in se e per sé. Pertanto, il compito del filosofo diviene quello di accompagnare l'uomo nella sua proiezione verso la conoscenza e la realizzazione di se stesso. Ecco dunque il ruolo che la filosofia deve assumere, ecco la grande rivoluzione del pensiero socratico nell'ambito del pensiero politico occidentale: quella di aver distinto la filosofia dalla scienza naturale e dalla teosofia, e di averne definito i compiti.

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