di Marilisa Lasorsa*
La figura del filosofo, nel Teeteto [1]
viene tratteggiata più volte da Platone, quasi come un filo rosso che
accompagna tutto il dialogo, un riferimento costante nelle parole di
Socrate: in apertura, per esempio, nel prologo, Euclide e Terpsione
ricordando il giovane Teeteto, morto prematuramente in battaglia,
individuano in lui delle qualità particolari che rendono la sua una vera
“natura filosofica” [2], tanto che «era proprio destinato a diventare
un uomo di chiara fama, se fosse giunto ad età matura» [3].
Socrate delinea poi un tratto
fondamentale del vero filosofo: il vero filosofo non deve «riempire i
suoi discepoli, come fossero dei vasi vuoti», con le proprie dottrine,
ma deve agire come una levatrice, deve saper riconoscere un’anima in
travaglio, deve saper aiutare questa a tirar fuori le idee di cui è
gravida e deve, infine, essere in grado di riconoscere se questo è stato
un vero parto oppure un aborto [4]. E’ il tema della maieutica
socratica, che riguarda, certo, la figura del filosofo, anzi ne
costituisce una parte considerevole, ma non è su questo che vorrei
soffermarmi in quest’occasione.
Vorrei, invece, prendere in esame il vero e proprio “Intermezzo sul filosofo” [5], in cui Socrate ed il geometra Teodoro – senza dimenticare che all’ascolto c’è, un po’ confuso e forse anche turbato, dai discorsi e dall’interrogazione serrata a cui Socrate lo sta sottoponendo da un bel po’, il giovane e provetto allievo di Teodoro, Teeteto – si soffermano sulla figura del filosofo.
Vorrei, invece, prendere in esame il vero e proprio “Intermezzo sul filosofo” [5], in cui Socrate ed il geometra Teodoro – senza dimenticare che all’ascolto c’è, un po’ confuso e forse anche turbato, dai discorsi e dall’interrogazione serrata a cui Socrate lo sta sottoponendo da un bel po’, il giovane e provetto allievo di Teodoro, Teeteto – si soffermano sulla figura del filosofo.
I tre stanno
conversando sul tema principale dell’intero dialogo ovvero su “cosa sia
mai Scienza”, e hanno appena messo in luce quali possano essere le
conseguenze etico-politiche della dottrina che Teeteto aveva proposto
all’inizio della conversazione, come soluzione alla questione relativa
all’essenza della Scienza: Teeteto, infatti, aveva affermato con
convinzione i principi della dottrina protagorea, ovvero che Scienza non
è altro che sensazione-percezione, ed in riferimento al campo del
giusto e dell’ingiusto il pensiero di Protagora li ha portati alla
conclusione che «è ciò che sembra alla comunità che diventa vero, nel
momento in cui sembra e per tutto il tempo in cui sembra» [6]. A Socrate
però sembra necessaria ed urgente una piccola digressione, una
chiarificazione sulla figura del filosofo, e aggiungiamo noi, del
filosofo nella πόλις ovvero del filosofo inserito in un contesto sociale
cittadino che lo osserva e lo giudica: così il filosofo vien fuori
dalla protezione e dalla sicurezza dell’Accademia, dal ristretto circolo
dei discepoli, dal «pensatoio delle anime sapienti» [7], come afferma
un suo contemporaneo, e si mette, invece, in rapporto alla comunità:
comincia così un lungo gioco di sguardi tra loro, il filosofo ed il
resto della città, gioco in cui Platone sa già chi avrà la meglio.
Ma perché Socrate vuole, anzi, sente il
bisogno impellente di fare questa digressione proprio adesso? Potrebbe
sembrare, infatti, assolutamente superflua, visto che Teeteto e Teodoro
sono già convinti degli esiti disastrosi che una teoria del genere
potrebbe portare in città. Forse, però, i due non si sono ancora accorti
che la situazione ateniese è già catastrofica e che il relativismo
protagoreo si è ormai imposto. Le assemblee sono già piene di uomini
qualunque, non specialisti, che pretendono di prendere decisioni su
questioni che ignorano. La dottrina del “così è, se mi pare”
sta portando alla deriva la classe politica ateniese, i giovani, che
saranno i futuri dirigenti, ed il popolo intero. L’incomunicabilità e
l’impossibilità di riferirsi a qualcosa di vero in sé non fanno parte di
un apocalittico orizzonte: tutto ciò è reale, è attorno a loro, domina
Atene…e Socrate sa già che è proprio lui che, fra non molto tempo, ne
farà le spese.
Questo breve “Intermezzo sul filosofo” è da leggere sullo sfondo di un altro celebre dialogo platonico, l’Apologia di Socrate [8],
ambientato in quello stesso anno [9]. Un’assemblea di rumorosi ed
ottusi uomini qualunque, uomini che per decenni non avevano fatto altro
che dare ascolto a coloro che volevano Socrate fuori dalle mura di Atene
– perché fastidioso come un tafano che ronza attorno a un cavallo,
assillante con quel suo domandare incessante, sconveniente, perché non
faceva che mettere in ridicolo tutti, ma soprattutto la classe politica,
che veniva puntualmente smascherata nella propria ignoranza e
ridicolizzata per l’aver creduto e fatto credere di sapere così tante
cose – un’assemblea indispettita, carica d’odio e poco lucida, quella
che ha condannato a morte Socrate: è la falsa democrazia della città più
giusta del mondo antico che, paradossalmente, ha messo al bando ed
ucciso l’uomo più giusto, quello più saggio e sicuramente quello meno
dannoso per la città stessa.
L’”Intermezzo sul filosofo” va letto alla luce dell’intera vicenda biografica di Socrate, raccontata magistralmente nell’Apologia:
solo così possiamo cogliere quel velo di tristezza e rassegnata
disillusione che accompagna le parole di Socrate – un Socrate
consapevole del processo che sta per colpirlo – e solo così possiamo
cogliere lo stato emotivo di Platone, un Platone che, mentre racconta,
conosce già gli esiti di questa vicenda e sa, o comincia a prenderne
coscienza, che il filosofo potrà essere riscattato forse solo in una
città ideale [10].
Adesso risulta molto più chiaro il motivo che spinge Socrate a soffermarsi sulla figura del filosofo proprio nel momento in cui si sta parlando degli esiti etico-politici della dottrina protagorea, che tanto entusiasmava il giovane Teeteto all’inizio della discussione.
Fatte queste premesse, rivolgiamoci al testo stesso [11].
Adesso risulta molto più chiaro il motivo che spinge Socrate a soffermarsi sulla figura del filosofo proprio nel momento in cui si sta parlando degli esiti etico-politici della dottrina protagorea, che tanto entusiasmava il giovane Teeteto all’inizio della discussione.
Fatte queste premesse, rivolgiamoci al testo stesso [11].
Socrate vorrebbe soffermarsi sulla figura
del vero filosofo in contrapposizione a coloro che concepiscono la
Scienza alla maniera di Protagora: «…è ciò che sembra alla comunità che
diventa vero, nel momento in cui sembra e per tutto il tempo in cui
sembra. E tutti quelli che seguono, anche se non proprio in tutto, la
dottrina di Protagora, concepiscono la sapienza pressappoco in questo
modo» [12]. Già da queste poche parole emerge il tratto fondamentale che
distingue le due figure: uno ricerca la verità, l’altro si ferma a ciò
che appare: ma questo noi possiamo indovinarlo solo perché conosciamo in
anticipo lo sviluppo del dialogo, quindi rimandiamo la discussione su
questo punto e seguiamo, invece, i vari passaggi come Teodoro li segue,
come se stessimo ascoltando Socrate, seduti accanto a lui nel ginnasio,
denudati di ogni conoscenza pregressa.
La parentesi sulla figura del filosofo allontana i tre dal tema centrale della discussione, ma Teodoro insiste dicendo: « E non abbiamo, dunque, tempo a disposizione, Socrate? », e l’altro: «E’ evidente che l’abbiamo. E certo, spesso, venerabile, anche in altre occasioni ho osservato, ma in particolare adesso, che coloro che dedicano molto tempo agli studi filosofici, quando affrontano i tribunali, si rivelano, naturalmente, degli oratori ridicoli» [13]. Racchiusi in due sole battute troviamo due concetti fondamentali: il tempo e il luogo, a sottolineare che il filosofo non differisce dal resto dei cittadini esclusivamente per le sue qualità spirituali, se possiamo dire così, per la sua esigenza di verità, per il suo amore per la sapienza, come dirà in altre occasioni, per le sue doti morali. No, anzi, non solo: il filosofo è collocato spazio-temporalmente in modo diverso, abita altri luoghi, vive un altro tempo rispetto agli altri cittadini di Atene. Il filosofo è ά-τοπος [14]: il filosofo è, sì, inclassificabile, insolito… ma, soprattutto, rispettando l’origine della parola greca, il filosofo è senza luogo, ovvero senza un luogo specifico. Il filosofo non trova posto in città, tra gli altri, abita dei non-luoghi, non si sente a casa in nessun-luogo.
Luogo e tempo della città, della piazza, dei tribunali vengono così contrapposti a quelli del ginnasio, dell’Accademia, dei “pensatoi”, per dirla con Aristofane [15], delle rilassanti ombre dei grandi alberi fuori dalle mura di Atene, dei simposi: luoghi che per il resto dei cittadini non sono dei veri luoghi, ma posti inautentici, inospitali perché totalmente estranei e differenti da quelli che loro stessi frequentano. Quelli frequentati dai filosofi, invece, sono i luoghi più autentici, in cui è possibile conversare in amicizia e, soprattutto, con tranquillità, senza fretta, senza clessidre a segnare il tempo, senza distrazioni di nessun genere che ostacolino il raggiungimento della Verità.
Non è, però, solo una questione di spazi abitati e ritmi differenti, come si trattasse di un gruppo di amici che sceglie di incontrarsi in una piazza piuttosto che in un’altra. C’è qualcosa di più. I filosofi non si trovano in questi spazi come, per esempio, i mercanti si trovano per lo più in piazza, nei mercati, o gli artigiani nelle loro botteghe: non è una questione di pertinenza di spazi.
Ed, infatti, anche a Teodoro il discorso non pare del tutto chiaro e subito chiede maggiori spiegazioni. Socrate risponde, senza per questo rendere il concetto più comprensibile: «Quelli che fin da giovani si aggirano nei tribunali e nei luoghi simili, in confronto con coloro che sono stati allevati nella filosofia e in questo tipo di studio, rischiano di apparire come degli schiavi in confronto con uomini liberi» [16]. Socrate ci disorienta: nell’affermazione precedente erano i filosofi ad apparire ridicoli alla città intera perché goffi, pessimi oratori; ora, invece, sono tutti gli altri – ed il riferimento è soprattutto ai sofisti – ad apparire degli schiavi. La situazione è completamente ribaltata, ma dal testo non ne capiamo immediatamente il perché. Socrate, però, si appresta subito a chiarire in che senso egli parli di libertà e schiavitù, in riferimento a cosa si è liberi o schiavi. Ebbene, si è schiavi o uomini liberi innanzitutto in riferimento al tempo [17]; inoltre, si è liberi o schiavi in riferimento al tema, all’argomento di discussione [18]: «Gli altri, invece, parlano sempre con scarsa disponibilità di tempo, perché l’acqua della clessidra, scorrendo, li incalza, e non è loro concesso di fare i discorsi che riguardano l’argomento che desiderano, ma l’avversario sta loro addosso con l’inesorabilità delle norme e con l’atto d’accusa da leggere: al di fuori di questi limiti non è lecito parlare» [19]. In più, gli uomini, in tribunale, sono schiavi del giudice che emetterà la sentenza e costretti ad adularlo con la speranza di addolcirlo, con la speranza di guadagnarne la benevolenza; sono schiavi di altri schiavi ovvero degli avversari nella disputa, e schiavi della disputa stessa; sono schiavi di un pubblico rumoroso e scalpitante che fa presto a mandarli a morte [20]: «E i loro discorsi, che riguardano sempre un compagno di schiavitù, sono rivolti ad un padrone che, seduto, ha nelle sue mani una qualche pena, e le gare non vanno mai in altra direzione, bensì sempre verso la stessa meta, anzi, spesso la corsa mette in palio la vita» [21]. Abbiamo qui l’ennesimo rovesciamento: l’innovativa e democratica possibilità che tutti i cittadini hanno di partecipare alla vita pubblica, di prendere le decisioni giudiziarie e politiche, è, in realtà, agli occhi di Socrate, un atteggiamento servile [22]. Nel rapporto tra schiavo e padrone l’unica comunicazione possibile è di “comando” da un lato e di “adulazione” dall’altro: tra schiavo e padrone è impossibile che ci sia amicizia, condizione essenziale, invece, del dialogo socratico, del dialogo filosofico, quello autentico. La violenza, il disprezzo, l’ira, l’offesa reciproca continua, la menzogna, allontanano i giudici e la platea dalla lucidità necessaria per raggiungere la Verità. Anzi, la Verità non è più il fine della comunicazione: il fine degli interlocutori-schiavi sarà, invece, distruggere la posizione dell’altro e, in un secondo momento, vincere l’agone: il loro non è affatto uno scopo puramente conoscitivo e, soprattutto, quale etica può esistere in una comunicazione siffatta? E’ una comunicazione che non porterà mai al Vero né al Bene in sé, ma a ciò che chi discute ritiene sia il vero ed il bene per se stesso, per il proprio successo e vantaggio personale [23].
La parentesi sulla figura del filosofo allontana i tre dal tema centrale della discussione, ma Teodoro insiste dicendo: « E non abbiamo, dunque, tempo a disposizione, Socrate? », e l’altro: «E’ evidente che l’abbiamo. E certo, spesso, venerabile, anche in altre occasioni ho osservato, ma in particolare adesso, che coloro che dedicano molto tempo agli studi filosofici, quando affrontano i tribunali, si rivelano, naturalmente, degli oratori ridicoli» [13]. Racchiusi in due sole battute troviamo due concetti fondamentali: il tempo e il luogo, a sottolineare che il filosofo non differisce dal resto dei cittadini esclusivamente per le sue qualità spirituali, se possiamo dire così, per la sua esigenza di verità, per il suo amore per la sapienza, come dirà in altre occasioni, per le sue doti morali. No, anzi, non solo: il filosofo è collocato spazio-temporalmente in modo diverso, abita altri luoghi, vive un altro tempo rispetto agli altri cittadini di Atene. Il filosofo è ά-τοπος [14]: il filosofo è, sì, inclassificabile, insolito… ma, soprattutto, rispettando l’origine della parola greca, il filosofo è senza luogo, ovvero senza un luogo specifico. Il filosofo non trova posto in città, tra gli altri, abita dei non-luoghi, non si sente a casa in nessun-luogo.
Luogo e tempo della città, della piazza, dei tribunali vengono così contrapposti a quelli del ginnasio, dell’Accademia, dei “pensatoi”, per dirla con Aristofane [15], delle rilassanti ombre dei grandi alberi fuori dalle mura di Atene, dei simposi: luoghi che per il resto dei cittadini non sono dei veri luoghi, ma posti inautentici, inospitali perché totalmente estranei e differenti da quelli che loro stessi frequentano. Quelli frequentati dai filosofi, invece, sono i luoghi più autentici, in cui è possibile conversare in amicizia e, soprattutto, con tranquillità, senza fretta, senza clessidre a segnare il tempo, senza distrazioni di nessun genere che ostacolino il raggiungimento della Verità.
Non è, però, solo una questione di spazi abitati e ritmi differenti, come si trattasse di un gruppo di amici che sceglie di incontrarsi in una piazza piuttosto che in un’altra. C’è qualcosa di più. I filosofi non si trovano in questi spazi come, per esempio, i mercanti si trovano per lo più in piazza, nei mercati, o gli artigiani nelle loro botteghe: non è una questione di pertinenza di spazi.
Ed, infatti, anche a Teodoro il discorso non pare del tutto chiaro e subito chiede maggiori spiegazioni. Socrate risponde, senza per questo rendere il concetto più comprensibile: «Quelli che fin da giovani si aggirano nei tribunali e nei luoghi simili, in confronto con coloro che sono stati allevati nella filosofia e in questo tipo di studio, rischiano di apparire come degli schiavi in confronto con uomini liberi» [16]. Socrate ci disorienta: nell’affermazione precedente erano i filosofi ad apparire ridicoli alla città intera perché goffi, pessimi oratori; ora, invece, sono tutti gli altri – ed il riferimento è soprattutto ai sofisti – ad apparire degli schiavi. La situazione è completamente ribaltata, ma dal testo non ne capiamo immediatamente il perché. Socrate, però, si appresta subito a chiarire in che senso egli parli di libertà e schiavitù, in riferimento a cosa si è liberi o schiavi. Ebbene, si è schiavi o uomini liberi innanzitutto in riferimento al tempo [17]; inoltre, si è liberi o schiavi in riferimento al tema, all’argomento di discussione [18]: «Gli altri, invece, parlano sempre con scarsa disponibilità di tempo, perché l’acqua della clessidra, scorrendo, li incalza, e non è loro concesso di fare i discorsi che riguardano l’argomento che desiderano, ma l’avversario sta loro addosso con l’inesorabilità delle norme e con l’atto d’accusa da leggere: al di fuori di questi limiti non è lecito parlare» [19]. In più, gli uomini, in tribunale, sono schiavi del giudice che emetterà la sentenza e costretti ad adularlo con la speranza di addolcirlo, con la speranza di guadagnarne la benevolenza; sono schiavi di altri schiavi ovvero degli avversari nella disputa, e schiavi della disputa stessa; sono schiavi di un pubblico rumoroso e scalpitante che fa presto a mandarli a morte [20]: «E i loro discorsi, che riguardano sempre un compagno di schiavitù, sono rivolti ad un padrone che, seduto, ha nelle sue mani una qualche pena, e le gare non vanno mai in altra direzione, bensì sempre verso la stessa meta, anzi, spesso la corsa mette in palio la vita» [21]. Abbiamo qui l’ennesimo rovesciamento: l’innovativa e democratica possibilità che tutti i cittadini hanno di partecipare alla vita pubblica, di prendere le decisioni giudiziarie e politiche, è, in realtà, agli occhi di Socrate, un atteggiamento servile [22]. Nel rapporto tra schiavo e padrone l’unica comunicazione possibile è di “comando” da un lato e di “adulazione” dall’altro: tra schiavo e padrone è impossibile che ci sia amicizia, condizione essenziale, invece, del dialogo socratico, del dialogo filosofico, quello autentico. La violenza, il disprezzo, l’ira, l’offesa reciproca continua, la menzogna, allontanano i giudici e la platea dalla lucidità necessaria per raggiungere la Verità. Anzi, la Verità non è più il fine della comunicazione: il fine degli interlocutori-schiavi sarà, invece, distruggere la posizione dell’altro e, in un secondo momento, vincere l’agone: il loro non è affatto uno scopo puramente conoscitivo e, soprattutto, quale etica può esistere in una comunicazione siffatta? E’ una comunicazione che non porterà mai al Vero né al Bene in sé, ma a ciò che chi discute ritiene sia il vero ed il bene per se stesso, per il proprio successo e vantaggio personale [23].
Torniamo al testo: Socrate ribadisce
ancora una volta la differenza di coloro che, fin da giovani, sono stati
educati alla filosofia e la distanza di questi dai tribunali, dalle
piazze, dal palazzo del Consiglio, dai luoghi di riunioni pubbliche
della città, dagli intrighi per il raggiungimento di cariche pubbliche,
dai convegni, dai pranzi e dai festini con le belle suonatrici di flauto
[24].
Socrate, però, non ci sta presentando l’immagine di una figura ghettizzata ed esclusa dal resto della città, una figura dolorosamente messa al bando da un ambiente sociale sprezzante ed intollerante. Il filosofo non si accorge neanche del brusio cittadino, ne è del tutto estraneo ed incosciente: «E tutto questo non sa neppure di non saperlo. Infatti, non si astiene da quelle cose con lo scopo di crearsi una fama, ma perché, in realtà, è solo il suo corpo che si trova nella città e vi risiede, mentre la sua mente, giudicando tutte queste cose di scarso, anzi di nessun valore, non le stima per niente, e se ne vola dappertutto, come dice Pindaro, sotto la terra, misurando le superfici come un geometra, studiando gli astri lassù nel cielo, ed esplorando da ogni parte l’intera natura delle cose esistenti, di ciascuna nella sua interezza, senza abbassarsi a nessuna di quelle che gli stanno vicino» [25].
Queste, dunque, sono le cose che al filosofo interessano; egli le considera di maggior valore rispetto alle faccende quotidiane della città [26] ed è così preso dai suoi studi, dall’osservare il cielo, la terra e tutte le cose nella loro totalità, l’intero essere, che non guarda nemmeno ciò che ha davanti, ciò che ha trai piedi, come vedremo fra poco. Non solo tra il filosofo e la città c’è totale alterità, rottura, incomprensione e, nella vicenda biografica di Socrate, abbiamo visto, persino odio: il filosofo ed il resto dei cittadini abitano due mondi totalmente differenti.
A questo punto, dopo aver sottolineato l’indifferenza dei filosofi nei confronti dell’ambiente sociale cittadino e la loro attenzione, invece, a cose “più alte” come la geometria, l’astronomia, la cura dell’anima, Socrate, per rendere più comprensibile il discorso ad un Teodoro che ancora non riesce a capire a fondo la portata della polemica che Socrate sta portando avanti ormai da un po’ (una polemica che, dato il coinvolgimento emotivo, ha più il sapore dello sfogo di un uomo rassegnato ad una triste sorte), rispolvera le sue vecchie conoscenze sulle favole del grande Esopo e racconta a Teodoro ed a Teeteto la celebre storiella dell’astronomo Talete, che, intento ad osservare le stelle, cade distrattamente in un pozzo, provocando il riso di una sua serva tracia, intelligente e graziosa, che sottolineò come il suo padrone «si preoccupava tanto di conoscere le cose che stanno nel cielo, e, invece, non vedeva quelle che aveva davanti, trai piedi» [27]. E Socrate precisa: «La medesima facezia si può riferire a tutti quelli che dedicano la loro vita alla filosofia» [28].
Socrate, però, non ci sta presentando l’immagine di una figura ghettizzata ed esclusa dal resto della città, una figura dolorosamente messa al bando da un ambiente sociale sprezzante ed intollerante. Il filosofo non si accorge neanche del brusio cittadino, ne è del tutto estraneo ed incosciente: «E tutto questo non sa neppure di non saperlo. Infatti, non si astiene da quelle cose con lo scopo di crearsi una fama, ma perché, in realtà, è solo il suo corpo che si trova nella città e vi risiede, mentre la sua mente, giudicando tutte queste cose di scarso, anzi di nessun valore, non le stima per niente, e se ne vola dappertutto, come dice Pindaro, sotto la terra, misurando le superfici come un geometra, studiando gli astri lassù nel cielo, ed esplorando da ogni parte l’intera natura delle cose esistenti, di ciascuna nella sua interezza, senza abbassarsi a nessuna di quelle che gli stanno vicino» [25].
Queste, dunque, sono le cose che al filosofo interessano; egli le considera di maggior valore rispetto alle faccende quotidiane della città [26] ed è così preso dai suoi studi, dall’osservare il cielo, la terra e tutte le cose nella loro totalità, l’intero essere, che non guarda nemmeno ciò che ha davanti, ciò che ha trai piedi, come vedremo fra poco. Non solo tra il filosofo e la città c’è totale alterità, rottura, incomprensione e, nella vicenda biografica di Socrate, abbiamo visto, persino odio: il filosofo ed il resto dei cittadini abitano due mondi totalmente differenti.
A questo punto, dopo aver sottolineato l’indifferenza dei filosofi nei confronti dell’ambiente sociale cittadino e la loro attenzione, invece, a cose “più alte” come la geometria, l’astronomia, la cura dell’anima, Socrate, per rendere più comprensibile il discorso ad un Teodoro che ancora non riesce a capire a fondo la portata della polemica che Socrate sta portando avanti ormai da un po’ (una polemica che, dato il coinvolgimento emotivo, ha più il sapore dello sfogo di un uomo rassegnato ad una triste sorte), rispolvera le sue vecchie conoscenze sulle favole del grande Esopo e racconta a Teodoro ed a Teeteto la celebre storiella dell’astronomo Talete, che, intento ad osservare le stelle, cade distrattamente in un pozzo, provocando il riso di una sua serva tracia, intelligente e graziosa, che sottolineò come il suo padrone «si preoccupava tanto di conoscere le cose che stanno nel cielo, e, invece, non vedeva quelle che aveva davanti, trai piedi» [27]. E Socrate precisa: «La medesima facezia si può riferire a tutti quelli che dedicano la loro vita alla filosofia» [28].
Non sappiamo come abbia reagito il povero
e malcapitato astronomo alle parole della servetta: non sappiamo se si
sia ritirato di corsa in casa pieno di vergogna o se si sia rialzato da
terra e abbia ripreso ad osservare le stelle con ostentato orgoglio.
Sappiamo, però, che nelle parole della servetta, ma soprattutto nelle
sue risa, Socrate non legge un’offesa, ma un riconoscimento. La
questione è strana e forse solo un filosofo può capire fino in fondo
cosa si nasconde dietro l’eco di quelle risa, dietro le risa della
folla, dei più. Ebbene, dietro quelle risa c’è la tristezza
dell’incomunicabilità, non di un qualsiasi sapere, ma di quello più
importante, ed è triste e doloroso raggiungere la consapevolezza che mai
nessuno lo riterrà tale. Mi hanno colpito molto, a questo proposito, le
parole di Pierre Hadot in un piccolo saggio intitolato, appunto, La filosofia è un lusso?
[29], laddove Hadot scrive che: «La filosofia è un lusso? Il lusso è
qualcosa di costoso e inutile. […] I non filosofi generalmente
considerano la filosofia un linguaggio astruso, un discorso astratto,
che un piccolo gruppo di specialisti, l’unico in grado di capirlo,
sviluppa senza scopo intorno a questioni incomprensibili e prive di
interesse, un’occupazione riservata ad alcuni privilegiati che, grazie
al loro denaro o a un fortunato insieme di circostanze, hanno il tempo
di dedicarvisi; dunque, un lusso. Bisogna riconoscere che, perché un
solo allievo possa aspirare al baccalauréat, perché possa avere
accesso al privilegio di redigere la sua dissertazione filosofica,
notevoli oneri finanziari devono essere stati sostenuti dai suoi
genitori e dai contribuenti. Per di più, a che cosa gli servirà
realmente, “nella vita”, il fatto di avere compiuto questo esercizio di
stile? Nel mondo moderno, dominato dalla tecnica scientifica e
industriale, in cui tutto è valutato in funzione della redditività e del
valore commerciale, a che cosa può servire discutere dei rapporti tra
verità e soggettività, mediato e immediato, contingente e necessario, o
del dubbio metodologico di Cartesio. D’altro canto, non si può nemmeno
dire che la filosofia sia completamente assente dal mondo moderno, cioè
dagli schermi televisivi, dato che, in generale, l’uomo contemporaneo ha
la sensazione di cogliere veramente il mondo esterno solo quando lo
vede riflesso in questi piccoli quadrilateri. Di tanto in tanto alla
televisione si vedono anche, su qualche canale, dei filosofi: di solito,
essi seducono il pubblico grazie alla loro abilità espressiva; il
giorno dopo la gente acquista i loro libri, ne sfoglia le prime pagine,
prima di richiuderli definitivamente, respinta per lo più, dal loro
gergo incomprensibile. Tutto ciò viene percepito come un lusso per
privilegiati, qualcosa che interessa “una ristretta cerchia”, ma non
influenza le grandi scelte della vita» [30]. Nelle risa della servetta
c’è la tristezza dell’isolamento che è, allo stesso tempo, un isolamento
volontario e non: quello dei filosofi è un sapere che si vorrebbe
comunicare a tutti, ma è un desiderio accompagnato dalla disillusa
rassegnazione del fatto che questo non è che un sapere per pochi, che i
più rifiutano e allontanano senza neanche cercare di capire o
semplicemente ascoltare. Questo naturalmente succede per molte
discipline: non tutti capiamo al volo la chimica, la fisica, la
matematica, ma questi saperi sono ritenuti importanti, utili alla
comunità intera, anche se in prima persona non siamo in grado di
cogliere il loro significato, ma la filosofia no: questo è un sapere
ritenuto del tutto inutile, un sapere ozioso per gente oziosa che non ha
voglia di lavorare, gente che non sarà mai utile a nessuno, non salverà
delle vite, non farà nessuna scoperta, non troverà mai la cura per
nessuna malattia. Eppure tu sai, da giovane filosofo carico di
illusioni, che dentro di te c’è un sapere così grande, che, se solo te
ne dessero la possibilità, se solo non ci fossero così tanta ostilità e
diffidenza, se solo ti ascoltassero o leggessero dei testi che a te
hanno cambiato la vita, il mondo sarebbe migliore [31]. Ed è quello che
riconosce il nostro geometra: «Se tu, Socrate, riuscissi a persuadere
tutti come me, ci sarebbero più pace e minori mali tra gli uomini» [32].
E’ un sapere che erompe dai suoi stessi confini, è un sapere eccessivo e
incomunicabile: tu sai che potresti riassumere perfettamente
l’argomento di una tesi di laurea, potresti spiegare dettagliatamente e
appassionatamente un dato tema o autore, ma sei cosciente che non basta a
ricreare nella mente di un altro, per quanto attento e disponibile
all’ascolto sia, le tue stesse emozioni, immagini, aspettative, la tua
stessa passione. Quale possa essere lo stato d’animo di uno che a tutto
ciò debba aggiungere il fatto che il proprio sapere lo porterà alla
morte, una morte voluta e pretesa dall’ignoranza della gente, non riesco
ad immaginarlo nemmeno.
A questa profonda tristezza, però, si accompagna la consapevolezza di “essere sulla strada giusta”: «…è solo dalle risa della servetta che il filosofo caduto aveva appreso o ricevuto la conferma di star facendo qualcosa di più e d’altro da ciò che aveva potuto avvalorarsi in un enunciato del tipo della predizione dell’eclisse» [33].
A questa profonda tristezza, però, si accompagna la consapevolezza di “essere sulla strada giusta”: «…è solo dalle risa della servetta che il filosofo caduto aveva appreso o ricevuto la conferma di star facendo qualcosa di più e d’altro da ciò che aveva potuto avvalorarsi in un enunciato del tipo della predizione dell’eclisse» [33].
Filosofia è quando si ride [34], dice
Hans Blumenberg nel capitolo intitolato proprio “Da cosa si riconosce
l’importante”, e si ride perché non si capisce. «Chi comprende si
riconosce dal fatto che nessuno lo comprende. Se ne sta come un factum brutum,
che si è sottratto ad ogni ricerca di adesione e consenso. Perciò il
plurale delle servette: tutti sono diventati coloro che ridono. Nulla
convalida il deriso se non la sua stessa pretesa, la quale si risolve
nella paradossale evidenza: ciò è filosofia, ma non si capisce nulla. In
questo modo il fattuale è diventato il criterio dell’essenziale» [35].
Qui Blumenberg riporta il pensiero di Heidegger, che si sofferma a
riflettere sull’aneddoto di Talete e la servetta tracia nel testo La questione della cosa [36],
e non manca di rilevarne l’arroganza [37], un’arroganza che forse è lo
stadio finale dell’illusione giovanile, quando ormai si sarà spenta,
quando l’incomunicabilità non sarà più uno scoglio, un muro da
abbattere, ma il pretesto per non dover più lottare contro le risa, un
pretesto come un altro per sentirsi migliori degli altri, chiusi nei
bozzoli del proprio sapere. Molto probabilmente la nostra illusione si
trasformerà nella stessa arroganza di Heidegger: noi non abbiamo, come
Socrate e Platone, altri mondi su cui proiettare le speranze che in
questo mondo sono vane: «E’ per questo che bisogna anche sforzarci di
sfuggire di qui a lassù al più presto. E fuga è rendersi simili a Dio
secondo le proprie possibilità: e rendersi simili a Dio significa
diventare giusti e santi, e insieme sapienti» [38]. Bisogna sforzarsi di
fuggire via dal mondo in cui ci troviamo, per raggiungere luoghi e
stati più alti e felici, luoghi divini. Dio non è mai, in nessun modo,
ingiusto, ma è l’essere supremamente giusto, e comportarsi secondo
giustizia e virtù il più possibile vuol dire rendersi simili a Dio:
l’uomo, per essere un uomo autentico, deve spogliarsi della sua umanità e
vestirsi, invece, dell’essenza divina. L’umanità dell’uomo, allora, sta
nella sua potenzialità di diventare simile a un dio, di diventare,
così, divino. Scrive Platone: «Amico, ci sono due modelli di vita fissi
nell’ambito dell’essere: uno divino, felicissimo, e uno senza Dio,
infelicissimo; non vedendo che le cose stanno così, per stupidità e per
estrema demenza, non si accorgono che, con le loro azioni ingiuste, si
rendono simili all’uno, ma dissimili dall’altro. Di questo, appunto,
pagano la pena vivendo la vita che è immagine del modello a cui si
rendono simili» [39]. Siamo passati con un balzo ad un livello
completamente diverso, quasi senza rendercene conto: in poche righe
Socrate ci sta dicendo qualcosa di molto importante, ma sconvolgente,
tanto da provocarci delle vertigini. Cosa vuole dire? Innanzitutto, ci
sta dicendo che il filosofo è l’unico a possedere pienamente l’umanità, è
l’unico che può dirsi veramente uomo. Ma il concetto dice qualcosa di
più: il filosofo, l’unico vero uomo, proprio per questo, è simile al
dio, è divino.
Ma vediamo cosa si legge in un dialogo tardo, il Simposio [40].
Qui Platone, per mezzo della rievocazione di un dialogo avvenuto tra
Socrate e la sacerdotessa Diotima, ricolloca il filosofo in modo meno
ambizioso e arrogante: nelle righe che abbiamo visto prima, il filosofo è
visto come un dio, per il suo essere giusto e retto, per il fatto che,
tra gli uomini, è l’unico a conoscere e, dunque, automaticamente a
seguire – in quanto, se si conosce il Bene, si fa il bene; mentre il
male si compie solo per ignoranza, ovviamente, del Bene [41] – il
modello di vita felicissimo e divino [42]; nel Simposio,
invece, il filosofo non è propriamente un dio, né semplicemente un
uomo. Il filosofo è a metà strada: «sta in mezzo fra sapienza e
ignoranza. Ed ecco come avviene questo. Nessuno degli dei fa filosofia,
né desidera diventare sapiente, dal momento che lo è già. E chiunque
altro sia sapiente, non filosofa. Ma neppure gli ignoranti fanno
filosofia, né desiderano diventare sapienti. Infatti, l’ignoranza ha
proprio questo di penoso: chi non è né bello né buono né saggio, ritiene
invece di esserlo in modo conveniente. E, in effetti, colui che non
ritiene di essere bisognoso, non desidera ciò di cui non ritiene di aver
bisogno» [43].
Il filosofo non è sapiente, né totalmente
ignorante: ancora una volta è ά-τοπος, non trova una precisa
localizzazione, non è facilmente definibile o collocabile. Ancora una
volta, però, il mito accorre in nostro aiuto, per facilitarci la
comprensione di un concetto abbastanza complesso: è il mito riguardante
il più famoso demone della mitologia greca, Eros. Anche lui è, essendo
un demone, a metà strada tra gli dei e gli uomini; anche lui è ά-τοπος.
«Dunque, in quanto Eros è figlio di Penia [Povertà] e di Poros
[Espediente], gli è toccato un destino di questo tipo. Prima di tutto è
povero sempre, ed è tutt’altro che bello e delicato, come ritengono i
più. Invece, è duro e ispido, scalzo e senza casa, si sdraia sempre per
terra senza coperte, e dorme all’aperto davanti alle porte o in mezzo
alla strada, e, perché ha la natura della madre, sempre accompagnato con
povertà. Per ciò che riceve dal padre, invece, egli è insidiatore dei
belli e dei buoni, è coraggioso, audace, impetuoso, straordinario
cacciatore, intento sempre a tramare intrighi, appassionato di saggezza,
pieno di risorse, ricercatore di sapienza per tutta la vita,
straordinario incantatore, preparatore di filtri, sofista. E per sua
natura non è né mortale né immortale, ma, in uno stesso giorno, talora
fiorisce e vive, quando riesce nei suoi espedienti, talora, invece,
muore, ma poi torna in vita, a causa della natura del padre. E ciò che
si procura gli sfugge sempre di mano, sicché Eros non è mai né povero di
risorse, né ricco» [44].
Il filosofo, allora, è “mancanza”, ma la sua non è una mancanza assoluta, in quanto è anche e soprattutto “espediente” per raggiungere ciò di cui manca: la saggezza, ovvero ciò che gli serve per essere effettivamente un dio. La saggezza, il sapere, però, sfuggono costantemente, vengono continuamente persi, forse perché averne pieno possesso travalica il potere dell’uomo.
Il filosofo ha coscienza di essere privo di saggezza e di giacere nell’ignoranza: egli “sa di non sapere” ma cerca di sollevarsi da questo umile giaciglio e di allontanarsi quanto più può dall’ignoranza, per raggiungere, invece, la conoscenza e il possesso di cose belle e buone, ovvero la piena saggezza. Il suo è un continuo e faticoso scalare ed un continuo e doloroso ricadere a terra, per poi ritentare, rialzarsi e cercare di raggiungere la vetta, per poi cadere ancora – e questo lo vediamo molto bene nel Teeteto, dove la questione su “cosa sia mai Scienza” viene riproposta di continuo appena si raggiunge una qualche definizione, appena si trova una risposta. E’ un eterno ed incessante domandare, senza tregua, un continuo ed incessante tentare di rialzarsi, come quando si rimane bloccati in un terreno paludoso che ci blocca le gambe e ci toglie le forze.
Lo sforzo immenso e l’eterna insoddisfazione per non aver concluso nulla evocano il famoso mito di Sisifo, costretto, per una punizione divina, a spingere un masso pesantissimo per portarlo sulla cima di un monte, ma il masso rotola giù tutte le volte e Sisifo è costretto a risalire il monte col suo masso all’infinito. La filosofia spesso è un masso di cui non puoi sbarazzarti, quasi per colpa di una punizione divina. E’ un continuo farsi del male, un continuo e doloroso sforzo, un continuo rotolare giù con nelle mani un nulla di fatto.
Sisifo, Eros e il filosofo vogliono raggiungere una vetta inaccessibile; i tre la raggiungono per un istante, ma subito ripiombano nell’indigenza; per i tre, il percorso per il raggiungimento della vetta è faticoso e non dà tregua; i tre si spostano su due livelli: da un piano più basso ad uno più alto e più divino; si spostano in verticale tra questi due piani, ora per salire, ora per cadere; e sembra proprio che i tre lo facciano per una sorta di costrizione, chi per una punizione divina, chi per la propria natura, dovuta alla particolare discendenza, chi per una sorta di dovere morale, per una sorta di voce interiore, per una sorta di vocazione alla quale non si può comandare.
Le tre figure fanno da ponte tra due mondi, uno felicissimo e divino [45] ed uno mortale e disgraziatamente infelice, e, anche se il percorso, lo stare nel mezzo senza un proprio luogo – ancora una volta e sotto un’altra luce, il filosofo si rivela ά-τοπος, apolide solitario ed errante – è doloroso e sofferto, questo stesso percorso, questo stesso viaggiare tra due mondi senza appartenere a nessuno dei due, si rivela un’immensa fortuna, un grande privilegio, ed è forse questo che spinge il filosofo a trovare la forza di rialzarsi continuamente, senza perdere le speranze, e di tornare a ricercare, a domandare, con rinnovata energia.
Il filosofo, allora, è “mancanza”, ma la sua non è una mancanza assoluta, in quanto è anche e soprattutto “espediente” per raggiungere ciò di cui manca: la saggezza, ovvero ciò che gli serve per essere effettivamente un dio. La saggezza, il sapere, però, sfuggono costantemente, vengono continuamente persi, forse perché averne pieno possesso travalica il potere dell’uomo.
Il filosofo ha coscienza di essere privo di saggezza e di giacere nell’ignoranza: egli “sa di non sapere” ma cerca di sollevarsi da questo umile giaciglio e di allontanarsi quanto più può dall’ignoranza, per raggiungere, invece, la conoscenza e il possesso di cose belle e buone, ovvero la piena saggezza. Il suo è un continuo e faticoso scalare ed un continuo e doloroso ricadere a terra, per poi ritentare, rialzarsi e cercare di raggiungere la vetta, per poi cadere ancora – e questo lo vediamo molto bene nel Teeteto, dove la questione su “cosa sia mai Scienza” viene riproposta di continuo appena si raggiunge una qualche definizione, appena si trova una risposta. E’ un eterno ed incessante domandare, senza tregua, un continuo ed incessante tentare di rialzarsi, come quando si rimane bloccati in un terreno paludoso che ci blocca le gambe e ci toglie le forze.
Lo sforzo immenso e l’eterna insoddisfazione per non aver concluso nulla evocano il famoso mito di Sisifo, costretto, per una punizione divina, a spingere un masso pesantissimo per portarlo sulla cima di un monte, ma il masso rotola giù tutte le volte e Sisifo è costretto a risalire il monte col suo masso all’infinito. La filosofia spesso è un masso di cui non puoi sbarazzarti, quasi per colpa di una punizione divina. E’ un continuo farsi del male, un continuo e doloroso sforzo, un continuo rotolare giù con nelle mani un nulla di fatto.
Sisifo, Eros e il filosofo vogliono raggiungere una vetta inaccessibile; i tre la raggiungono per un istante, ma subito ripiombano nell’indigenza; per i tre, il percorso per il raggiungimento della vetta è faticoso e non dà tregua; i tre si spostano su due livelli: da un piano più basso ad uno più alto e più divino; si spostano in verticale tra questi due piani, ora per salire, ora per cadere; e sembra proprio che i tre lo facciano per una sorta di costrizione, chi per una punizione divina, chi per la propria natura, dovuta alla particolare discendenza, chi per una sorta di dovere morale, per una sorta di voce interiore, per una sorta di vocazione alla quale non si può comandare.
Le tre figure fanno da ponte tra due mondi, uno felicissimo e divino [45] ed uno mortale e disgraziatamente infelice, e, anche se il percorso, lo stare nel mezzo senza un proprio luogo – ancora una volta e sotto un’altra luce, il filosofo si rivela ά-τοπος, apolide solitario ed errante – è doloroso e sofferto, questo stesso percorso, questo stesso viaggiare tra due mondi senza appartenere a nessuno dei due, si rivela un’immensa fortuna, un grande privilegio, ed è forse questo che spinge il filosofo a trovare la forza di rialzarsi continuamente, senza perdere le speranze, e di tornare a ricercare, a domandare, con rinnovata energia.
Egli ha avuto di tanto in tanto la
fortuna e l’onore di gettare uno sguardo, di toccare per un istante
l’altro mondo al di là del ponte, sulla vetta, il mondo felicissimo e divino;
egli ha goduto, anche se per poco, di una luce pura e divina e ne è
rimasto accecato, come quando si guarda il sole per un attimo e,
nonostante il dolore agli occhi, si vorrebbe continuare a guardare
all’infinito quella luce [46] fortissima e bellissima.
Il filosofo, allora, è l’uomo più felice ed infelice allo stesso tempo: è massimamente felice, perché ha visto cosa c’è al di là del ponte che porta al piano più alto, quello divino, ed è, allo stesso tempo, estremamente infelice e inconsolabile, perché sa che è destinato a perdere e a non poter possedere per sempre quello di cui ha goduto per pochi attimi. Ed è quello, tra gli uomini, con la responsabilità più grande, il fardello più pesante: attraversando il ponte, egli stesso è diventato il ponte.
Egli stesso ora è ponte necessario tra due mondi assolutamente distanti, assolutamente diversi, che altrimenti non potrebbero comunicare affatto: il filosofo ha il dovere e la voglia di mettere in comunicazione i due mondi il più possibile; vorrebbe che tutti guardassero la luce meravigliosa che lui ha visto e deve fare in modo che ciò accada. Proprio questo è il suo compito più grande: portare la folla al di là del ponte, non come un mero traghettatore di anime che non sanno dove andare, ma deve fare in modo che queste scalino a loro volta il monte, che passino da soli al di là del ponte, che divengano a loro volta Eros, Sisifo, che divengano a loro volta filosofi, autentici scalatori instancabili, bramosi di luce, saggezza e Verità.
Il filosofo, allora, è l’uomo più felice ed infelice allo stesso tempo: è massimamente felice, perché ha visto cosa c’è al di là del ponte che porta al piano più alto, quello divino, ed è, allo stesso tempo, estremamente infelice e inconsolabile, perché sa che è destinato a perdere e a non poter possedere per sempre quello di cui ha goduto per pochi attimi. Ed è quello, tra gli uomini, con la responsabilità più grande, il fardello più pesante: attraversando il ponte, egli stesso è diventato il ponte.
Egli stesso ora è ponte necessario tra due mondi assolutamente distanti, assolutamente diversi, che altrimenti non potrebbero comunicare affatto: il filosofo ha il dovere e la voglia di mettere in comunicazione i due mondi il più possibile; vorrebbe che tutti guardassero la luce meravigliosa che lui ha visto e deve fare in modo che ciò accada. Proprio questo è il suo compito più grande: portare la folla al di là del ponte, non come un mero traghettatore di anime che non sanno dove andare, ma deve fare in modo che queste scalino a loro volta il monte, che passino da soli al di là del ponte, che divengano a loro volta Eros, Sisifo, che divengano a loro volta filosofi, autentici scalatori instancabili, bramosi di luce, saggezza e Verità.
Il filosofo, che ha avuto il privilegio
di vedere la luce, deve fare in modo che anche gli altri vogliano
vederla e non si accontentino più delle ombre che hanno sempre guardato,
non conoscendo neanche la possibilità di un passaggio, di un ponte, di
una scalata, per un mondo migliore, più luminoso e più vero. Vediamo
come Platone descrive la loro condizione, la condizione di coloro che
non filosofano, che non vedono mai la luce, che vivono imprigionati
nell’ombra, giù in una buia caverna: «immagina di vedere degli uomini
rinchiusi in una abitazione sotterranea a forma di caverna che abbia
l’ingresso aperto verso la luce, estendendosi in tutta la sua ampiezza
per tutta quanta la caverna; inoltre, che si trovino fin qui da
fanciulli con le gambe e con il collo in catene in maniera da dover
stare fermi e guardare solamente davanti a sé, incapaci di volgere
intorno la testa a causa delle catene e che, dietro di loro è più
lontano arda una luce di fuoco. Infine, immagina che fra il fuoco e i
prigionieri ci sia, in alto, una strada lungo la quale sia costruito un
muricciolo, come quella cortina che i giocatori pongono fra sé e gli
spettatori, sopra la quale fanno vedere i loro spettacoli di burattini.
[…] Immagina, allora, lungo questo muricciolo degli uomini portanti
attrezzi di ogni genere, che sporgono al di sopra del muro, e statue e
altre figure di viventi fabbricate in legno e pietra e in tutti i modi; e
inoltre, come è naturale, che alcuni del portatori parlino e che altri
stiano in silenzio […] [Questi prigionieri] sono simili a noi. Infatti,
credi, innanzitutto che vedano di sé e degli altri qualcos’altro, oltre
alle ombre proiettate dal fuoco sulla parte della caverna che sta di
fronte a loro? […] In ogni caso, riterrebbero che il vero non possa
essere alto se non le ombre di quelle cose artificiali» [47].
E leggiamo adesso la descrizione del
filosofo, ossia del prigioniero a cui sono state sciolte le catene e a
cui è stata data l’opportunità – opportunità che, nelle parole di
Platone, è in realtà una costrizione, una “vocazione” – di voltarsi e
guardare finalmente la luce: «Poniamo che uno fosse sciolto e subito
costretto a rialzarsi, a girare il collo, a camminare e a levare lo
sguardo in su verso la luce e, facendo tutto questo, provasse dolore, e
per il bagliore fosse incapace di riconoscere quelle cose delle quali
prima vedeva le ombre. […] Dovrebbe, io credo, farvi abitudine, per
riuscire a vedere le cose che sono al di sopra. E dapprima, potrà vedere
più facilmente le ombre e, dopo queste, le immagini degli uomini e
delle altre cose riflesse nelle acque e, da ultimo, le cose stesse. Dopo
di ciò potrà vedere più facilmente quelle realtà che sono nel cielo e
il cielo stesso di notte, guardando la luce degli astri e della luna
[…]. Per ultimo, credo, potrebbe vedere il sole e non le sue immagini
nelle acque o in un luogo esterno ad esso, ma esso stesso di per sé
nella sede che gli è propria, e considerarlo così come esso è» [48].
A questo punto, però, la missione del filosofo non si è affatto conclusa, anzi: una volta liberato, una volta voltatosi, una volta abituatosi alla luce del sole e alla visione del sole stesso, il filosofo deve tornare indietro nella caverna per aiutare gli altri a liberarsi a loro volta. E ciò è doloroso e, forse, più faticoso della salita stessa, perché “starsene lassù” [49] a contemplare la luce è bellissimo, è divino, è la condizione più felice che un uomo possa provare: allora, perché mai tornare indietro? Ha errato tanto per trovare il suo posto, il luogo dove si sente finalmente felice e a casa, e adesso deve abbandonarlo e tornare indietro, in un mondo inospitale.
Il suo posto non è lassù nella luce né tra le ombre della caverna: il suo posto è la strada tra l’uno e l’altro; il suo compito non è raggiungere la vetta, né rimanere giù: il suo compito è aiutare gli altri a liberarsi delle catene, aiutarli a fare il suo stesso percorso. C’è qualcosa che lo spinge a farlo, qualcosa che quasi lo costringe a tornare indietro, come la forza di gravità che fa rotolare giù il masso che Sisifo è costretto a portare, e contro questa forza né Sisifo né il filosofo possono combattere, se non misconoscendo la propria “vocazione”, se non essendo filosofi a metà.
A questo punto, però, la missione del filosofo non si è affatto conclusa, anzi: una volta liberato, una volta voltatosi, una volta abituatosi alla luce del sole e alla visione del sole stesso, il filosofo deve tornare indietro nella caverna per aiutare gli altri a liberarsi a loro volta. E ciò è doloroso e, forse, più faticoso della salita stessa, perché “starsene lassù” [49] a contemplare la luce è bellissimo, è divino, è la condizione più felice che un uomo possa provare: allora, perché mai tornare indietro? Ha errato tanto per trovare il suo posto, il luogo dove si sente finalmente felice e a casa, e adesso deve abbandonarlo e tornare indietro, in un mondo inospitale.
Il suo posto non è lassù nella luce né tra le ombre della caverna: il suo posto è la strada tra l’uno e l’altro; il suo compito non è raggiungere la vetta, né rimanere giù: il suo compito è aiutare gli altri a liberarsi delle catene, aiutarli a fare il suo stesso percorso. C’è qualcosa che lo spinge a farlo, qualcosa che quasi lo costringe a tornare indietro, come la forza di gravità che fa rotolare giù il masso che Sisifo è costretto a portare, e contro questa forza né Sisifo né il filosofo possono combattere, se non misconoscendo la propria “vocazione”, se non essendo filosofi a metà.
Rimanere seduti dietro le nostre belle
scrivanie in legno pregiato, protetti dalle nostre piccole ed
impolverate biblioteche domestiche, non è realizzare appieno il nostro
compito, anche se leggere, scrivere, pensare è del tutto soddisfacente e
ci rende in ogni modo felici, imperturbabili, divini. Stare seduti,
come degli dei sulle vette del monte Olimpo, nei nostri piccoli paradisi
dalle finestre sbarrate e coi “non disturbare” dietro le porte chiuse,
non è il nostro compito, anche se è ciò che desideriamo più di ogni
altra cosa, anche se trastullarci con le nostre teorie è ciò che
massimamente ci gratifica. Né, però, possiamo tornare a vivere senza
filosofia, dopo che abbiamo goduto di tale felicità: tornare indietro
non è possibile ed il potere della luce che abbiamo sentito sulla pelle
ormai ci appartiene. Il nostro posto è nel mezzo. E questo è doloroso
forse più della nostra scalata e della nostra caduta: è massimamente
doloroso e tragico perché ci si schianta contro l’incomunicabilità,
contro l’indifferenza, contro le risa delle servette, della folla,
contro l’arroganza sprezzante di chi ritiene la sua una condizione
perfetta e odia sentirsi dire che quelle che sta guardando sono solo
delle ombre, contro l’odio di chi non sopporta sentirsi dire che non sa
assolutamente nulla, visto che non sa neanche di non saperlo! E, dinanzi
a tanta arrogante presunzione, è proprio il filosofo che rischia di
apparire ridicolo, come Socrate in tribunale, costretto a lottare per la
propria vita nei pochi minuti messi a disposizione dallo scorrere della
clessidra, costretto a lottare per far sì che gli altri riconoscessero
la verità, la luce, mentre i loro occhi erano offuscati dall’ombra e
dalla menzogna.
«E poi ti sembrerebbe strano se qualcuno che discende dalla contemplazione delle realtà divine ai fatti umani rischia di fare una brutta figura, di apparire del tutto ridicolo, quando, muovendosi a tentoni, prima ancora di essere riuscito ad abituarsi alla presente oscurità è costretto nei tribunali o in altro luogo a scendere in lizza solo per un’ombra di giustizia o per quel simulacro che proietta quell’ombra e a stare a discutere sul modo in cui queste apparenze debbano essere interpretate da chi non ha mai visto la Giustizia in sé?» [50]. E ancora: «non farebbe forse ridere e non si direbbe di lui che, per essere salito sopra, ne è disceso con gli occhi guasti, e che, dunque, non mette conto di cercare di salire su? E chi tentasse di scioglierli e di portarli su, se mai potessero afferrarlo nelle loro mani, non lo ucciderebbero?» [51].
«E poi ti sembrerebbe strano se qualcuno che discende dalla contemplazione delle realtà divine ai fatti umani rischia di fare una brutta figura, di apparire del tutto ridicolo, quando, muovendosi a tentoni, prima ancora di essere riuscito ad abituarsi alla presente oscurità è costretto nei tribunali o in altro luogo a scendere in lizza solo per un’ombra di giustizia o per quel simulacro che proietta quell’ombra e a stare a discutere sul modo in cui queste apparenze debbano essere interpretate da chi non ha mai visto la Giustizia in sé?» [50]. E ancora: «non farebbe forse ridere e non si direbbe di lui che, per essere salito sopra, ne è disceso con gli occhi guasti, e che, dunque, non mette conto di cercare di salire su? E chi tentasse di scioglierli e di portarli su, se mai potessero afferrarlo nelle loro mani, non lo ucciderebbero?» [51].
Come in un assurdo cerchio, siamo giunti
al punto di partenza: i tribunali. A Platone non interessa dichiarare
sterilmente la superiorità del filosofo rispetto agli altri, così, come
fosse una bella teoria da presentare ad un congresso di pomposi
specialisti, come se volesse soltanto guadagnare applausi e consensi.
Questi sono concetti che nascono dalla vita e, anche se per altre ed
alte vie, servono a rendere ragione della vita stessa. Il processo
contro Socrate, la sua condanna e, infine, la sua morte, esigevano una
spiegazione, una qualche giustificazione razionale. Questo, credo, fosse
il suo obiettivo, un obiettivo del tutto pratico, nato da un’esperienza
assolutamente concreta: la morte e, quindi, il misconoscimento
dell’uomo più giusto, più saggio, e, con lui, la morte e il
misconoscimento della vera filosofia, della ricerca della Verità,
dell’esercizio lucido della ragione, il misconoscimento della parte più
umana che abbiamo, che è anche l’unica scintilla di divino che è in noi.
Senza luce, Verità, saggezza, senza λόγος il mondo in cui siamo
costretti a sopravvivere non è affatto umano, né ancor meno divino: è un
mondo assurdo e inospitale, dove si commettono le azioni più ingiuste
senza alcun motivo apparente, un mondo s-ragionato che s-ragiona e dove
la Filosofia è destinata a morire.
NOTE:
[1] Teeteto (tr. it. di C. Mazzarelli) in Platone, Tutti gli scritti (a cura di G. Reale), Bompiani, Milano, 2008.
[2] «Un uomo di grande valore, Terpsione:
anche ora sentivo gente che esprimeva grandi lodi per il suo
comportamento in battaglia. […] Tornando indietro mi ricordai, e ne
rimasi meravigliato, di quanto Socrate fosse stato un buon profeta, come
altre volte, anche nel caso di quest’uomo. Mi pare, infatti, che poco
prima di morire egli abbia incontrato Teeteto, che era ancora
adolescente, e che, intrattenendosi a dialogare con lui, abbia ammirato
molto la sua natura». Teeteto, 142B-C, op. cit.
[3] Ibidem, 142D.
[4] «La mia arte di ostetrico possiede
tutte le altre caratteristiche che competono alle levatrici, ma ne
differisce per il fatto che fa da levatrice agli uomini e non alle
donne, e che si applica alle loro anime partorienti, e non ai corpi. E
questo c’è di assolutamente grande nella mia arte: l’essere capace di
mettere alla prova in ogni modo se il pensiero del giovane partorisce un
fantasma ed una falsità, oppure un che di vitale e di vero». Ibidem, 150 B-C.
[5] Ibidem, 172C-177C.
[6] Ibidem, 172B.
[7] Aristofane, Le nuvole in Aristofane, Gli Acarnesi – Le Nuvole – Le Vespe – Gli Uccelli (tr. it. di G. Paduano), Garzanti, Milano, 2008, p. 65.
[8] Platone, Apologia di Socrate (tr. it. di G. Reale) in Platone, Tutti gli scritti, op. cit..
[9] L’Apologia è ambientata
nella primavera del 399 a.C., data in cui avviene il processo contro
Socrate; l’episodio dell’incontro tra Socrate e Teeteto in un ginnasio
di Atene, narrato, appunto, nel Teeteto, è posto poco prima della morte di Socrate, sempre nel 399 a.C.
[10] «Il tragico qui non è né personale
né soggettivo, non sta nel distacco del discepolo dal maestro, del
figlio dal padre. Socrate, comunque, aveva ormai pochi giorni da vivere.
Il tragico sta nel fatto che il migliore ambiente sociale di tutta
l’umanità del tempo – Atene – non aveva potuto sopportare il principio
nudo e semplice della giustizia; che la vita sociale si era rivelata
incompatibile con la coscienza personale; che si era spalancato l’abisso
del male puro e assoluto e aveva inghiottito il giusto; che la morte
era risultata essere l’unico destino possibile per la giustizia e che la
vita e la realtà erano ormai cadute in preda al male e alla menzogna.
Come vivere in questo regno del male, vivere là dove il giusto deve
morire?» Vladimir Solov’ëv, Il dramma della vita di Platone (a cura di Glauco Tiengo e Pier Davide Accendere) Bompiani, Milano, 2010, p. 201.
[11] Teeteto, 172C- 179D.
[12] Ivi, 172C.
[13] Ivi.
[14] Άτοπος-ον [τόπος]: fuori luogo,
strano, insolito, inopportuno, straordinario, assurdo stravagante,
sconveniente, insensato, non naturale, disgustoso, mostruoso, cattivo,
malvagio, riprovevole. Vocabolario della lingua greca (GI) a cura di Franco Montanari, Loescher Editore, Milano, 2003.
[15] cfr. supra, nota 6.
[16] Teeteto, 172D.
[17] «Gli uomini liberi, di sicuro, come
tu dicevi, hanno sempre tempo a disposizione, e svolgono i loro discorsi
in pace, con comodo». Ivi.
[18] «Come noi in questo momento stiamo
passando da un argomento all’altro, che è già il terzo, così fanno [gli
uomini liberi], quando l’argomento che si fa avanti piace, come a noi,
di più di quello che stanno affrontando». Ivi.
[19] Ibidem, 172E.
[20] «Il dio di Delfi mi diede un tempo
questo responso; che sarei morto di colpo il giorno che un imputato
fosse assolto». Sono le parole di Filocleone in Aristofane, Le Vespe in Aristofane, Gli Acarnesi – Le Nuvole – Le Vespe – Gli Uccelli, op. cit., p. 140.
[21] Teeteto, 172E.
[22] Sul rovesciamento della giuria nei tribunali da padrona a serva, cfr. le parole di Filocleone e Bdelicleone ne Le Vespe di Aristofane, op. cit., p.155 e seguenti.
[23] Possiamo notare che anche nel suo discorso di autodifesa, ne l’Apologia,
Socrate dichiara la sua estraneità dal modo di esprimersi in tribunale:
non è pratico di discorsi ornati e finalizzati alla persuasione. Si
scusa e chiede comprensione, ma soprattutto pazienza, per il fatto che è
costretto ad esprimersi non nel suo modo abituale. Questo stesso, però,
è un espediente retorico e il discorso di Socrate sembra molto ben
costruito, forse meglio delle arringhe di certi sofisti…L’unica
differenza, allora, sta forse nelle supposte buone intenzioni
dell’imputato: far conoscere la vera Verità ai giudici, fare la cosa
giusta, “fare il Bene”?
[24] Teeteto, 173D.
[25] Ivi.
[26] «Tutti coloro che, tra i greci e tra
i barbari, si esercitano nella saggezza [ἀσκηταì σοφίας εισίν],
conducendo una vita immune da biasimo e rimprovero, astenendosi
volontariamente dal commettere l’ingiustizia o dal restituirla ad altri,
evitano le relazioni con la gente intrigante e condannano i luoghi che
frequentano questi individui, tribunali, consigli, pubbliche piazze,
assemblee, tutte le riunioni e i gruppi di gente sconsiderata. Aspirando
ad una vita di pace e di serenità, contemplano la natura e tutto ciò
che si trova in essa, esplorano attentamente la terra, il mare, l’aria,
il cielo e tutte le nature che vi si trovano, accompagnano col pensiero
la luna, il sole, le evoluzioni degli astri erranti o fissi e, se i loro
corpi restano sulla terra, danno ali alle loro anime affinché,
elevandosi nell’etere, osservino le potenze che vi si trovino, come si
addice a coloro che, divenuti realmente cittadini del mondo, considerano
il mondo come la loro città ai cui cittadini è familiare la saggezza,
che hanno ricevuto i loro diritti civili dalla Virtù, la quale è
incaricata di presiedere al governo dell’Universo» citazione di un testo
di Filone di Alessandria in La filosofia come maniera di vivere in P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi. 2005, Torino, p. 155.
[27] Teeteto, 174A.
[28] Ivi.
[29] La filosofia è un lusso? In P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, op. cit., pp. 193-194.
[30] P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, op. cit., pp. 193-194.
[31] «[i filosofi] Sono, certamente, un
piccolo numero, tizzone di saggezza mantenuto nelle città affinché la
virtù non si estingua del tutto e non sia strappata alla nostra specie.
Ma se ovunque gli uomini avessero gli stessi strumenti di questo piccolo
numero, se diventassero veramente tali quali la natura vuole che siano,
immuni da biasimo e rimprovero, innamorati della saggezza, lieti del
bene perché è il bene e convinti che il bene morale sia l’unico
bene…allora le città sarebbero colme di felicità, liberate da ogni causa
di afflizione e di timore, colme di tutto ciò che costituisce la gioia e
il piacere spirituale, di modo che nessun momento sarebbe privo di vita
lieta e che tutto il ciclo dell’anno sarebbe una festa» citazione di un
testo di Filone di Alessandria in La filosofia come maniera di vivere in P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, op. cit., p. 155.
[32] Teeteto, 176A.
[33] H. Blumenberg, Da cosa si riconosce l’importante in Il riso della donna di Tracia. Una preistoria della teoria, Il Mulino, Bologna, 1988, p. 160.
[34] «Le servette – il plurale è di
Heidegger – ridono del filosofo; esse non capiscono perché non si fermi
alle cose più vicine, sicché queste gli diventano fatali, poiché gli
sono così remote». H. Blumenberg, Da cosa si riconosce l’importante in Il riso della donna di Tracia. Una preistoria della teoria, op. cit., p. 166.
[35] Ibidem, p. 169.
[36] M. Heidegger, La questione della cosa. La dottrina kantiana dei principi trascendentali (a cura di V. Vitiello), Guida, Napoli.
[37] «A favore del filosofo vale di
diritto la singolare presunzione della potenza di ciò che lo fa pensare
contro il modo di pensare abituale – e non solo lontano da esso – ,
quando sul pensatore si abbattono le risate della quotidianità assorbita
dalle proprie cure». H. Blumenberg, Da cosa si riconosce l’importante in Il riso della donna di Tracia. Una preistoria della teoria, op. cit., p. 166.
[38] Teeteto, 176B.
[39] Ibidem, 176C-D e 177A.
[40] Platone, Simposio (tr. It. di G. Reale) in Platone, Tutti gli scritti,
op. cit. La data in cui avviene il simposio è quella della vittoria di
Agatone con la sua tragedia, ossia nel 416 a.C., mentre la data in cui
Apollodoro narra ciò che aveva udito da Aristodemo, verosimilmente, si
colloca poco prima del 399 a.C., ossia sicuramente prima della morte di
Socrate. La data di composizione del Simposio non è facilmente
determinabile. Certamente è una delle opere della maturità. Forse è da
collocarsi fra gli anni Ottanta e gli anni Settanta del VI secolo a.C.
[41] «La conoscenza di questo principio,
infatti, è vera sapienza e virtù, l’ignoranza di esso, invece, è
stoltezza e malvagità evidente». Teeteto, 176C.
[42] Ibidem, 176E.
[43] Simposio, 204A.
[44] Ibidem, 203B-C-D-E.
[45] Teeteto, 176E.
[46] «Quanto alla parola philosophίa (“filosofia”), che però compare nella lingua greca insieme a ciò di cui è il nome, essa significa, appunto, alla lettera (philo-sophίa) “aver cura del sapere”. Se si accetta l’ipotesi che in sophόs, “sapiente” (su cui si costruisce il termine astratto sophίa), risuona, come nell’aggettivo saphés (“chiaro”, ”manifesto”, “evidente”, “vero”), il senso di phάos,
la “luce”, allora “filosofia” significa aver cura per ciò che, stando
nella “luce” (al di fuori cioè dell’oscurità in cui stanno invece le
cose nascoste – e alétheia, “verità”, significa appunto, alla
lettera, “il non essere nascosto”) non può essere in alcun modo negato.
“Filosofia” significa “l’aver cura della verità”, dunque – dando anche a
quest’ultimo termine il significato inaudito dell’”assolutamente
innegabile”» in La filosofia nasce grande, in E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medioevale, BUR, Milano, 2006, p. 22.
[47] Platone, Repubblica (tr. it. di R. Radice) in Platone, Tutti gli scritti, op. cit., libro VII, 514A-B-C, 515A-B-C.
[48] Ibidem, 515C-D-E, 516A-B.
[49] Ibidem, 519D.
[50] Ibidem, 517D-E.
[51] Ibidem, 517A.
* Marilisa Lasorsa (1987)
vive in provincia di Bari. Ha studiato filosofia all’Università degli
Studi di Bari “A. Moro” dove ha conseguito la Laurea triennale nel 2009
con una tesi dal titolo “Psichiatria e fenomenologia in L. Binswanger” e
quella Magistrale nel 2012 con una tesi dal titolo “E. Morin: Educare
alla complessità”. Scrive racconti e poesie e dipinge, prevalentemente a
olio su tela. Gestisce la pagina facebook “Aisthesis“.
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