di Giovanni Agnoloni
Ecco la versione italiana del mio intervento al congresso tolkieniano tenutosi nell’agosto 2005 a Birmingham (Inghilterra) per il cinquantenario del Signore degli anelli di J.R.R. Tolkien.
La versione originale in inglese, pubblicata nella raccolta degli atti del congresso (The Ring Goes Ever On: Proceedings of the Tolkien 2005 Conference, edited by Sarah Wells, The Tolkien Society, 2008), è disponibile su questo sito, insieme ad alcune clip delle conferenze (v. qui) che nell’aprile di quest’anno ho tenuto in tre università americane, ispirate sia a questo articolo, sia al mio saggio Letteratura del fantastico – I giardini di Lorien (Spazio Tre, 2004).
Tema di fondo: la possibilità, partendo dal mondo di emozioni suscitate dalle opere tolkieniane, e soprattutto dal Signore degli anelli, di effettuare una fruttuosa opera di comparazione con i classici greci, latini e italiani (su tutti: Omero e Dante), ma con una potenziale apertura a tutta la letteratura mondiale, anche contemporanea.
Ringrazio (e compaiono anche nei filmati.) il Prof. Steven White (v. qui) e sua moglie Alica White, che mi hanno invitato a parlare presso la Mount St. Mary’s University e la Penn State University (Campus di Mont Alto), e il Prof. Massimo Maggiari (v. qui), che mi ha proposto un incontro al College of Charleston.
L’autrice dei filmati è Agnieszka Moroz, che mi ha accompagnato in questo viaggio e divide con me il viaggio della vita.
TOLKIEN NELLA LETTERATURA COMPARATA
di Giovanni Agnoloni
“Ma dalla cima di quella torre l’uomo era stato in grado di affacciarsi e di guardare fino al mare.”
(J.R.R. Tolkien: da “Beowulf: i mostri e la critica”, 1936)
Poche opere, nella letteratura universale, hanno dato adito a così tante interpretazioni come Il signore degli anelli,
e più in generale tutti i libri di Tolkien. Allo stesso modo,
pochissime sono diventate un punto di riferimento culturale e spirituale
per intere generazioni di lettori di tutte le età. Quando scoprii
Tolkien per la prima volta, non potei fare a meno di avvertire tutto
questo retroterra di emozioni e sensazioni, nascosto appena dietro il
velo delle parole scritte dall’autore. L’immediatezza di sentimenti che
si possono trovare nelle righe di Tolkien è qualcosa che ci giunge
appunto come una cortina invisibile, che può essere non già rimossa o
perforata, ma semplicemente attraversata e sentita in profondità, così
da raggiungere, quasi involontariamente, una dimensione di pura energia,
che è strettamene collegata alla parte più intima dell’animo umano. In
effetti, è stato fin dall’inizio un mio fermo convincimento chequesto fosse il segreto della letteratura tolkieniana, ed in particolare del capolavoro del Professore di Oxford, Il signore degli anelli.
Non a caso, avevo appena letto trecento pagine del romanzo, quando
cominciai a notare certe assonanze, o comunque somiglianze, tra passaggi
ed atmosfere presenti in esso e numerosi punti di opere letterarie di
altre epoche, culture e generi. Compresi che non poteva essere solo una
coincidenza, e decisi che, da quel momento in poi, avrei sempre letto i
suoi libri con un occhio a questa sorta di musica nascosta, intessuta
nel testo. E la mia esperienza di scrittore, ed anche di “tolkieniano”,
iniziò così.
Le prime particolarità che notai, effettivamente, furono quelle che poi sviluppai nel mio primo saggio, Letteratura del fantastico – I giardini di Lorien,
che riguardava principalmente autori delle letterature classiche (greca
e latina), a parte molti scrittori e poeti italiani, oltre a qualche
altro autore straniero del Novecento. Il senso di questo tipo di
approccio all’inizio non era chiarissimo neanche a me, poiché ero
consapevole che individuare passi di autori molto diversi, con incerti
rapporti di derivazione, o comunque di reciproca lettura, potesse non
aver alcun significato. Ma ero profondamente convinto che non fosse
così, perché l’affinità che potevo sentire in così tanti casi era
qualcosa di più sottile e al tempo stesso più forte di qualsiasi
possibile influenza culturale di un autore sull’altro. Prendendo così in
considerazione passi di Omero, Virgilio, Dante, Ariosto, e così via, e
confrontandoli con situazioni presentate da Tolkien nel Signore degli anelli,
avvertii che stavo come descrivendo una circolarità di percezioni e di
idee che si era manifestata nel corso dei secoli, e che poteva essere
solo parzialmente spiegata facendo riferimento alle basi culturali
classiche di Tolkien, poiché non consisteva soltanto di semplici
riproduzioni di momenti di letteratura del passato – o addirittura di
mere “citazioni dotte” –, bensì di una creazione completamente nuova
(sebbene imbevuta di sostanze provenienti dal passato), come Il signore degli anelli.
In altre parole, mi sembrava che Tolkien avesse distillato le pure
essenze degli scenari naturali e dell’anima umana – dalla sua esperienza
personale di essere umano, ed anche da quasi 3000 anni di produzione
letteraria, che aveva avuto modo di studiare e ponderare – e le avesse
quindi usate per creare qualcosa di assolutamente nuovo, benché
fortemente affine a quanto lo aveva preceduto. Perciò, non era solo una questione di somiglianza, ma al limite, di parentela.
Il capolavoro di Tolkien poteva apparire come un termine di riferimento
per un’analisi comparativa, poiché possedeva ed esprimeva l’energia
segreta dei più alti capolavori della letteratura universale.
In
altre parole, questo fu il mio canale d’accesso alla letteratura
comparata, trattata in modo “eretico”, poiché non aveva necessariamente a
che fare con la filologia o con affinità (e differenze) “tecniche” tra
passi di autori che appartenevano a diverse tradizioni culturali, ma
prevalentemente con le essenze naturali ed i sentimenti umani. Il
principio che potevo leggere dietro a tutto questo era: l’uomo,
nonostante le sue trasformazioni durante secoli di storia, è sempre
rimasto lo stesso, nelle sue emozioni di base. Dunque, è un’operazione
legittima prendere ogni possibile moto dell’animo come tema sul quale
iniziare una ricerca, tra vari autori, finalizzata a trovare tutti
quelli che lo hanno rappresentato nella stessa maniera, o comunque in
modi consonanti. Tolkien, più di altri, funge perfettamente da punto di
riferimento per questo tipo di analisi, poiché è stato in grado di
fotografare lo sfaccettato animo umano in tutte – o almeno in un gran
numero – delle sue espressioni nude. Dico nude, per il semplice fatto che le sue storie si svolgono in una dimensione parallela, in un mondo che non
esiste, ma che è anche estremamente simile al nostro, dal punto di
vista emotivo. Infatti, è proprio questo l’aspetto del fantastico
tolkieniano che rende possibile usare le sue pagine come termine di
riferimento per un itinerario letterario comparativo che proceda lungo
secoli di storia e migliaia di miglia del nostro mondo. Sto parlando della valenza subcreativa della sua narrativa. Tolkien, nel suo saggio Sulla fiaba, illustra chiaramente il meccanismo delle autentiche creazioni feeriche. Esse ci fanno evadere in
una dimensione che non è reale, ma è intimamente coerente, a tal punto
che non possiamo fare a meno di dimenticare momentaneamente la nostra
per immergerci in quella e sentircene parte. Quindi, si verifica ilRistoro,
perché la stretta affinità di sensazioni ed atmosfere tra quel mondo e
quello da cui proveniamo ci fa sentire intimamente confortati:
riconosciamo, infatti, che ci stiamo muovendo in una dimensione che non
nega, ma anziriconferma la nostra. In altre parole, abbiamo
lasciato il nostro mondo per riscoprirlo in un luogo che esiste solo
nell’immaginazione di Tolkien – e adesso anche nella nostra -. A questo
punto, un’intensa sensazione di gioia esplode dentro di noi, ed è la Consolazione. Il
risultato di tutto questo è che possiamo nuovamente apprezzare
l’intensa bellezza dei colori, delle percezioni e di tutte le cose che
vivono nel mondo reale, poiché
Abbiamo
bisogno (…) di pulire le nostre finestre; di modo che le cose, viste
con chiarezza, possano esser liberate dal tetro grigiore della banalità o
dell’abitudine.
(Tolkien, Albero e foglia; trad. Giovanni Agnoloni – (1)-)
Le
opere di Tolkien, in breve, possono essere prese come una sintesi di
migliaia di anni di storia e di letteratura dell’uomo, ed anche come un
possibile strumento per riscoprire la bellezza della vita reale. In
altre parole, sono l’espressione più pura – o meglio, il vero archetipo – della letteratura fantasy
come potente mezzo per studiare ed analizzare la letteratura
realistica. In effetti, questo è il prodotto del mio modo di guardare
alla letteratura comparata prendendo Tolkien come termine di
riferimento: considerare il fantasy non tanto come un genere letterario, ma come un approccio alla vita, nel senso specifico che ho appena indicato. La vera differenza, in questo senso, non è tra opere fantasy e non-fantasy,
ma solo tra buona letteratura e letteratura di più basso livello, il
criterio per distinguerle essendo la ricchezza dell’animo umano che
riescono ad esprimere tramite mezzi artistici (cioè la bellezza e
l’armonia). Opere – di qualsiasi genere – che rispondano a questi
requisiti possono essere considerate buona letteratura, mentre le altre
possono al più valutarsi come libri commerciali, ma non certo come opere
d’arte. Questo è il motivo per cui, a mio parere, ci sono molti più
punti in comune tra Tolkien ed “autori del mondo reale” che tra lui e
scrittori fantasyche hanno preso gran parte della loro
ispirazione da lui per scrivere storie magari interessanti e
coinvolgenti, ma non certo tali da qualificarsi come espressioni artistiche.
Adesso
vorrei citare alcuni passi, tratti da Tolkien e da altri autori, al
fine di dimostrare ciò che sono venuto dicendo finora. Naturalmente, nel
mio saggio I giardini di Lorien le riflessioni sono molto più
approfondite e circostanziate, mentre qui mi limiterò a dei veloci
cenni, date le più che ovvie esigenze di snellezza espositiva. Non
seguirò un rigido ordine cronologico, in questa selezione di brani,
poiché preferisco scegliere quelli che saranno via via più consonanti
con l’oggetto trattato. Per esempio, i seguenti versi, tratti dall’Orlando furioso
di Ludovico Ariosto, sottolineano un’importante differenza tra il
tipico gusto per la peregrinazione mentale dell’autore rinascimentale
italiano ed il tema del viaggio fantastico, che è coessenziale al Signore degli anelli.
Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne,
c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,
con case de le quai mai le più magne
non vide il paladin prima né poi:
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.
(Ludovico Ariosto, Orlando Furioso – canto 34 – ottava 72)
C’è
un senso di respiro globale in questi versi, che descrivono il Mondo
della Luna, dove Astolfo si è recato a recuperare il perduto senno di
Orlando. Si può percepire un’intera varietà di possibilità, e l’intimo
desiderio di scegliere queste, invece del mondo reale (“altri…, altri…, altre…, che non son qui tra noi”). Questo è il desiderio umano di evasione
in una dimensione parallela, che Tolkien esprime così bene nelle sue
opere. In esse, c’è una tale ricchezza di particolari naturali e di vita
emotiva da renderli una vera tavolozza di possibilità all’interno di un mondopossibile. E il suo grado di credibilità dipende non solo dal suo essere così ricca, ma anche dalla sua intensità. Come dicevo in precedenza, la persuasività delle creazioni di Tolkien deriva dal fatto che in esse non c’è solo l’Evasione, ma anche il Ristoro e la Consolazione. E questo è qualcosa che ai aggiunge al materiale creativo dell’Orlando furioso,
poema nel quale troviamo il Mondo della Luna come anche pezzi di terra
vera, e che perciò oscilla costantemente tra le due dimensioni (reale e
fantastica), quasi mescolandole in una meravigliosa sarabanda,
ma senza la possibilità, per il lettore, di vivere un’autentica
esperienza subcreativa. Quest’ultima richiede infatti la completaalterità
della dimensione fantastica, ovvero l’assenza di punti di contatto tra
essa ed il mondo reale: solo a questa condizione una vera Evasione può
aver luogo, ed il Ristoro e la Consolazione possono seguire, mentre
nell’Orlando furioso seguiamo un interessante viaggio
attraverso i reami della fantasia e della realtà, ma al massimo un
tentativo di Evasione, a causa dell’assenza del Ristoro e della
Consolazione. Questi ultimi, nei libri di Tolkien, vengono precisamente
dalla profonda consonanza tra le atmosfere naturali e gli stati emotivi
dipinti nella dimensione inesistente e quelli che viviamo nel mondo
reale, nella nostra vita. Ed è questa la ragione per cui ci sentiamo
tantoprotagonisti delle avventure narrate.
Pensiamo,
adesso, al senso di meraviglia dell’uomo davanti alla bellezza della
natura, ed alla quieta compenetrazione tra le sue vibrazioni energetiche
e quelle di una persona che ne sia avvolta. Il poeta latino Virgilio
sottolinea molto bene quest’aspetto nella prima delle sue Ecloghe:
Tuttavia avresti potuto riposare qui con me stanotte,
sopra verdi fronde: abbiamo frutti maturi,
castagne saporite ed un sacco di formaggio fresco,
e i comignoli delle ville già fumano, laggiù nella campagna,
e le ombre della sera scendono più lunghe dalle vette dei monti.
(Bucoliche, I, 79-83; trad. Giovanni Agnoloni )
La
quieta sensazione di contemplazione della natura, il sentimento di un
giorno che finisce in un alone luminoso di tranquillità e la promessa
implicita di riposo e di recupero delle energie, che sono tutte
caratteristiche di questi versi, ricompaiono pressoché inalterati nel
passo del Signore degli anelli che descrive la cena di Frodo e dei suoi compagni nella casa di Maggot.
Frodo
accettò l’invito, con gran sollievo. Il sole era sceso dietro le
colline occidentali, e l’oscurità avanzava rapidamente. Le tre figlie di
Maggot e due dei suoi figli entrarono portando un abbondante pasto ed
apparecchiarono la grande tavola. Accesero delle candele per far luce in
cucina e misero dell’altra legna sul fuoco. La signora Maggot andava
avanti e indietro indaffaratissima. Arrivarono un paio di altri Hobbit
appartenenti alla grande famiglia della fattoria e poco dopo erano tutti
seduti a tavola. C’era birra in abbondanza e un copioso piatto di
funghi e pancetta, oltre a tanti altri cibi campagnoli, sani e
nutrienti. I cani, sdraiati accanto al fuoco, rosicchiavano ossa e
croste di formaggio.
(J.R.R. Tolkien, “Il Signore degli Anelli” (d’ora in poi, S.D.A), ed. Rusconi, 30a, 1997, pagg. 136-137)
Molti
leggeranno in questo brano una mera assonanza con i versi virgiliani,
ma io ritengo che, se si tratta di una mera somiglianza esteriore di
situazioni, prima di tutto non sia tale per caso – sono sicuro che
Tolkien avesse letto leEcloghe –, ma soprattutto significhi
qualcosa che va al di là (e attraverso) i diversi generi letterari, le
diverse epoche, lingue e culture, perché è strettamente legato alla
misura classica dell’arte. Il senso delle proporzioni, il ritmo
delle parole, l’attenta selezione dei verbi e degli aggettivi, sono
caratteristiche che emergono sia da Viriglio, sia da Tolkien. Questo non
equivale a dire che Tolkien abbia “copiato” da Virgilio, naturalmente,
ma significa che ne ha appreso il senso delle proporzioni, la maniera
delicata di avvicinarsi alla natura e di riprodurne l’armonia nell’armonia
della creazione artistica. E c’è anche il senso di un modo tranquillo
di vivere la vita, che descrive una sorta di ponte invisibile tra il
bucolico quadro di vita nella campagna italiana del I secolo a.C. e la
scena della cena degli Hobbit nella casa di Maggot, negli immaginari
spazio e tempo della Contea. In altre parole, due grandi scrittori (e
poeti) sono entrambi stati capaci – tramite approcci diversi – di
descrivere una situazione che è profondamente imbevuta di vita in due contesti molto diversi, sebbene consonanti. Entrambi, inoltre, hanno saputo far sentire noi lettori partecipi
di quelle situazioni, desiderando noi stessi di vivere quelle
sensazioni di riposo e tranquillità, fin quasi a voler assaggiare anche
noi quel cibo così saporito. Questo significa che entrambe le loro
creazioni esercitano un’azione subcreativaverso i lettori,
nonostante siano una (quella di Virgilio) riferita al mondo reale, e
l’altra (quella di Tolkien) ad uno immaginario. La semplice circostanza
che siano così diverse, insomma, non cambia il fatto che siamo come spintidentro
le righe degli autori, come se le loro immagini diventassero
improvvisamente tridimensionali, e noi potessimo sentirne l’intima
verità. Che cosa dovremmo dedurre, allora? Che anche le Ecloghe virgiliane sono “letteraturafantasy”? No di certo, almeno finché continuiamo a collegare il termine fantasy – o, se vogliamo connotarlo in senso più lato, fantastico – ad un genere letterario. La verità è che, a mio modo di vedere, la parola fantasia, quando si riferisce ad opere d’immaginazione letteraria, ha tre possibili valenze:
l’abilità dell’autore di riprendere la vita,
in un modo che non corrisponde esattamente alla realtà (nel senso che
non la riproduce “fotograficamente”), ma che comunque la ricostruisce in
modo da seguirne le linee, rendendola verosimile al punto da far sentire lì
il lettore. Ciò può dirsi sia di scrittori che parlano del mondo reale,
sia di autori che descrivono mondi immaginari: questa è quella che, in
senso generale, si può chiamare letteratura di fantasia.
la specifica abilità dello “scrittore fantasy” (nel senso di “scrittore feerico”), di cui Tolkien è l’archetipo moderno, di innescare l’effetto subcreativo di Evasione, Ristoro e Consolazione, con racconti ambientati in una dimensione parallela intimamente coerente e pienamente credibile.
Più
sottilmente, l’approccio alla vita di ogni scrittore (realista o
fantastico) che sia capace di cogliere l’energia segreta della natura,
quella che si può notare nelle più pure creazioni artistiche, quando si
riesce a considerarle non solo – e non principalmente – come una
sommatoria di tecniche, stili e derivazioni filologiche (aspetti pur
importanti della “struttura” del “prodotto letterario”), ma soprattutto
come contributi all’arricchimento dell’animo umano. L’arte, infatti, è
soprattutto emozione costruita in bellezza. Quest’ultima è la parola chiave. Non a caso, Tolkien stesso, nella sua lezione Beowulf: i mostri e la critica,
usò la bellissima metafora della torre (oggi letta in apertura di
questo intervento) dalla cui cima l’uomo era stato capace di “guardare
fino al mare”, al fine di spiegare come un approccio troppo analitico ad
un’opera letteraria implicasse il rischio di perdere il senso della sua
bellezza. Questo, infatti, è il vero nucleo dell’armonia e della
musicalità che si possono trovare in tutta la buona letteratura, sia
realistica che fantastica. Perciò, il confine tra questi due “regni” si
dimostra inutile (o comunque molto relativo), nella misura in cui
l’energia che viene dalla natura, e che si esprime nella letteratura
realistica, è esattamente la stessa che parla attraverso la
letteratura fantastica. Ecco perché – come illustrerò meglio in
conclusione di questo intervento –, in numerosi “scrittori del mondo
reale”, specialmente della contemporaneità, è possibile individuare dei
momenti fortemente affini alle atmosfere tolkieniane, talché non è
sufficiente, a mio parere, parlare di semplice letteratura di fantasia, ma di un’autentica “nuova letteratura fantasy” (o neo-fantasy), anche se non per le ambientazioni (che sono del nostro mondo), ma per l’effetto subcreativo che sanno innescare.
Credo che questi tre valori del fantasy siano tutti presenti nelle opere di Tolkien, e soprattutto nel Signore degli anelli,
come anche nei più alti momenti della letteratura universale. In
questi, possiamo vedere la pura e netta espressione dell’incanto
naturale, che nel caso che andiamo a valutare si dimostra il contorno
ideale per un sentimento d’amore disperato e impotente. In una lirica della poetessa greca Saffo leggiamo infatti:
Ella, da Sardi,
spesso si trovava a volger qui il suo pensiero,
ti pensava come una creatura divina
e si rallegrava sommamente del tuo canto.
E adesso è un fiore tra le donne lidie,
così come, a volte, al tramonto del sole,
la luna dalle dita di rosa,
al di sopra di tutte le stelle, spalma
la sua luce in pari misura sul salato mare
e sulle pianure dai molti fiori;
e la dolce rugiada si distende, sbocciano
le rose, i cerfogli morbidi e
il verdeggiante trifoglio;
e vagando lungamente nel ricordo della
cara Attis , è divorata dal desiderio
di ritornare, nel suo animo sensibile;
e, come intuendo i suoi pensieri, la notte che
tutto avverte ci trasmette, attraverso il mare,
il suo desiderio che tu la raggiunga;
non è facile, per noi, trovare una
sua pari, per la grazia delle forme,
tra le divinità.
(Saffo, fr. 98D; trad. G. A.)
Non
posso, a questo punto, non pensare alle parole nostalgiche intessute
nei versi che Legolas canta in ricordo di Nimrodel – di cui qui cito
solo la prima parte –, quando i superstiti della Compagnia dell’Anello,
da poco usciti da Moria, raggiungono il fiume che porta il suo stesso
nome:
Elfica fanciulla d’un tempo passato,
Stella che brilla al vento,
Bianco il suo mantello e d’oro bordato
E le scarpe grigio argento.
Una stella sulla sua fronte,
Una luce nei suoi capelli,
Il sole brilla tra le fronde
A Lòrien dei giorni belli.
Lunghi i capelli, bianca la pelle, chiara la voce
Della libera fanciulla volante
Nell’aria e nel vento come luce veloce,
Come sul tiglio foglia vibrante.
Nel Nimrodel fra le cascate
Dalle acque chiare e spumeggianti
La sua voce come gocce argentate
Squillava tra i flutti scintillanti.
Nessuno sa per quali alti valichi
Se all’ombra o al sole ella errando vada,
Perché Nimrodel smarrita in tempi antichi
E persa fu nei monti e nella rugiada.
Nei rifugi oscuri la elfica nave,
Sotto il riparo del monte,
Da giorni e giorni l’aspettava
Nelle ruggenti acque profonde.
(S.D.A., pag. 422, ed. cit.)
Qui
ci troviamo di fronte ad un sentimento di disperata nostalgia per una
luminosa figura del passato, che è ormai perduta. Non è amore, ma uno
stato mentale più completo, che comprende affetto, bellezza ed un senso
d’impossibilità di recuperare una dimensione di armonia e perfezione che
il flusso del tempo ha fatto passare irrimediabilmente. Allora, quale,
se mai esiste, è il trait d’union tra la lirica di Saffo e
questo triste canto elfico? Quale, in altre parole, è il nesso tra il
momento di solipsistica contemplazione del fantasma di un amore
irraggiungibile, espresso dalla poetessa greca – che visse tra il VII ed
il VI secolo a.C. sull’isola di Lesbo –, e il ricordo di un passato
appartenente ad una sfera lontana della memoria, com’è nel caso di
Legolas, e dunque di Tolkien, scrittore del XX secolo d.C.? Forse il
fatto che Tolkien ha molto probabilmente letto i versi di Saffo, così da
farci pensare a lei, quando raffigura Nimrodel come una splendida
creatura, che risplende nel sole, meravigliosa nella sua figura e nelle
sue vesti, quasi fosse una figura divina – simile a come Attis appare
alla sua amata, nei versi della poetessa –? No, il punto su cui io baso
il mio approccio alla letteratura comparata è l’intima affinità di
sentimenti ed atmosfere che si può riscontrare nelle due creazioni
poetiche. Infatti, entrambe le poesie mostrano un senso del ritmo –
indipendente da qualsiasi osservazione metrica – e di reciproca
integrazione tra il punto di vista (o dovrei forse dire: di percezione) della voce recitante e la natura circostante, che è frutto di un approccio alla vita meditato. Uso qui la parola meditazione
in un senso trans-culturale, che non ha strettamente a che fare con le
filosofie orientali, o altrimenti con la tradizione monastica
occidentale, ma semplicemente come un pregnante sinonimo di consapevolezza.
Sia Saffo che Tolkien sono stati, nei diversissimi contesti storici,
geografici e culturali in cui hanno creato i loro versi, profondamente consapevoli
della stretta interconnessione tra i sentimenti di cui la loro poesia
era imbevuta e l’intuizione cosmica della natura che li circondava. Non
possiamo pensare alla disperata passione cantata da Saffo senza
considerare la “notte”, che – “come intuendo i suoi pensieri” – “ci
trasmette, attraverso il mare, / il suo desiderio che tu la raggiunga”.
Lo scuro golfo della notte, che si espande come un abbraccio cosmico sul
Mar Mediterraneo, diventa così una sorta di corriere energetico
di messaggi che solo orecchi ed anime sensibili possono percepire. E,
similmente, in Tolkien avvertiamo tale senso di distanza, una sorta
d’invisibile ma impotente forza d’attrazione, nel senso d’inutile attesa
che è evidente nell’immagine della nave elfica “nei rifugi oscuri (…), /
nelle ruggenti acque profonde” del mare, presenza che richiama
l’attenzione degli Elfi, poiché il loro destino non è nella Terra di
Mezzo, ma all’Ovest.
È
anche possibile trovare altri temi legati alla vita emotiva dell’uomo,
che sono stati dipinti in maniera significativamente consonante da
Tolkien e da altri grandi maestri della letteratura universale. Penso ad
esempio a Dante Alighieri, nel cui Inferno possiamo trovare un’eccezionale potenza di sintesi nell’offrire visioni istantanee diterrore ed angoscia, persino attraverso la sequenza ed il ritmo delle parole. Ricordiamo il minaccioso annuncio sulla porta dell’Inferno:
Per me si va nella città dolente,
per me si va nell’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
(Dante Alighieri, Inferno, III, 1-3)
Posso sentire una profonda consonanza tra la musica ossessiva di questi versi e quella delle parole incise sull’Anello:
Un Anello per domarli, Un Anello per trovarli,
Un Anello per ghermirli e nel buio incatenarli,
nella Terra di Mordor dove l’Ombra cupa scende.
(S.D.A., incipit a pag. 23 dell’ed.cit.)
Il
senso di destino irreparabile che è impresso in questa frase è dello
stesso tipo di quello che era espresso dall’avvertimento della porta
infernale. Si potrebbe argomentare circa la differenza tra la visione
cristiana di Dante, di cui la sua creazione è impregnata, e quella che
traspare – pur non “imponendosi” – dal Signore degli anelli.
Sicuramente, i due contesti creativi di riferimento sono molto diversi,
ma il fatto che le due minacce del male siano così simili l’una
all’altra (nonostante l’una, quella dell’Inferno, sia pur
sempre espressione della giustizia divina, mentre l’altra sia il frutto
della ribellione all’armonia cosmica voluta da Eru e creata dagli Ainur)
è dovuto alla circostanza che entrambi gli autori avevano molto chiara
in mente la fondamentale contrapposizione tra Bene e Male, intesi, prima
che come principi etici, come forze vitali contrapposte – Positivo e
Negativo, direi –. Dante, nella sua peregrinazione nei regni
dell’aldilà, ha espresso in forma poetica il fondamentale contrasto tra
Luce ed Ombra: inquesto contesto, quindi, ha dipinto la paura come
un componente centrale dell’approccio dell’uomo alla scoperta della
parte più buia della sua anima, inevitabile passo per iniziare un
cammino di redenzione. Tolkien, per parte sua, ha rappresentato l’eterna
lotta tra Luce ed Ombra nel contesto di un viaggio il cui obiettivo è
quello di distruggere la fonte del potere – potenzialmente devastante –
del signore del Male sopra le regioni libere della Terra di Mezzo. In
questa esperienza, la paura gioca un ruolo molto importante. Ma
paura di che cosa? Non solo di morire, perché questo è un rischio che
tutti i personaggi accettano deliberatamente, e del quale il coraggio li
rende consapevoli; più precisamente, si tratta della paura radicale
della fine della libertà, della completa oppressione da parte di un
signore il cui solo scopo è distruggere e sottomettere, senza alcuna
eccezione. E, in altra forma, anche il poeta Dante, pellegrino dei mondi
dell’aldilà, nell’Inferno ha paura del terribile potere dei demoni, che
può essere a buon diritto avvicinato (benché sia di natura diversa) a
quello di Sauron. Dante, in altre parole, sta cercando di liberare la
sua anima dalla minaccia del male e dalla tentazione del peccato, per
mezzo di un cammino di pentimento e redenzione che lo renderà
consapevole delle conseguenze del male stesso, e combatte la paura che
tutto ciò implica con la certezza della fede. Nel Signore degli anelli,
vediamo Frodo e gli altri personaggi mentre tentano di salvare la loro
terra dalla minaccia dell’Oscuro Signore, così trovandosi ad affrontare
molteplici paure con ripetuti atti di coraggio, ispirati dalla
consapevolezza di non avere alternative. In breve, dunque, questa è la
sequenza emotiva “in parallelo”, nei due diversi contesti: Dante non può
fare a meno di entrare per quella porta, la paura lo accompagna e la
fede lo sostiene. Frodo non può evitare di andare a Mordor, la paura è
sempre su di lui, ma la necessità lo sospinge. E lo stesso di può dire
di Sam, che vive un momento di terribile indecisione quando, dopo aver
sconfitto Shelob, comprende di essere solo, perché pensa che Frodo sia
morto, ma comunque sa di dover andare avanti:
Quando
le tenebre della sua mente infine si diradarono, Sam levò il capo e
vide intorno a sé un mondo d’ombra; ma quanti minuti o quante affannose
ore fossero trascorse, non avrebbe saputo dirlo. Era ancora lì nel
mededimo posto, ed accanto a lui il suo padrone morto giaceva ancora. I
monti non erano divenuti polvere, ed il mondo non era sprofondato.
“Che posso fare, che devo fare?”, si disse. “Sono dunque giunto sin qui con lui inutilmente?”.
In quell’attimo gli parve di udire la propria voce pronunziare parole
che allora, al principio del viaggio, non aveva comprese. Ho qualcosa da
compiere prima della fine. Devo andare avanti fino in fondo, non so se
mi spiego, signore.
(S.D.A., ed.cit., pagg. 880-881)
Qui
il meccanismo della paura come innesco per il coraggio è molto chiaro.
La paura deriva dall’idea che tutto sia finito e non esista rimedio
alcuno (le “tenebre” e l’“ombra” con cui il brano si apre). Lo stesso
senso del tempo è sospeso, poiché il devastante sentimento di perdita e
solitudine ha cancellato qualunque altra cosa. È la radicale
disperazione oltre la quale non si riesce a vedere nulla. Eppure, alla
domanda che esce spontaneamente da questa situazione (“Che posso fare?
Che devo fare?”) si accoda l’eco di una voce interiore proveniente dal
passato, di una decisione presa molto tempo prima, da Frodo e anche da
lui, suo fedele servitore: andare avanti fino in fondo, perforare quella
cortina di terrore per raggiungere l’obiettivo accettato fin
dall’inizio. Questo è un comportamento che ha rilevanti assonanze con
quello dell’eroe epico, che risponde a principi etici che implicano il
rischio costante di morire in battaglia per poter raggiungere la doxa (considerazione nell’opinione degli altri), l’èpainos (l’elogio della comunità) e la mneme (l’eterno
ricordo della sua gente, dopo la sua morte gloriosa), e così segue un
percorso che è stato tracciato da qualcun altro, ma che ha anche
intimamente accettato, e per questo riesce a superare persino i momenti
più duri di afflizione e paura. L’esempio più famoso di eroe, nell’Iliade
omerica, l’acheo Achille, non mostra questo risvolto umano, se non
quando si dispera per la morte dell’amico Patroclo; è soprattutto il
campione troiano Ettore, invece, a rivelare la sua umana fragilità,
quando si avvicina il momento dello scontro decisivo con Achille:
E se invece deponessi lo scudo umbilicato
e l’elmo pesante, e, appoggiata al muro la lancia,
io stesso andassi incontro ad Achille, eroe perfetto,
e gli promettessi di restituire agli Atridi, perché la portino via,
Elena e con lei tutti i tesori, quanti Alessandro ne portò a Troia
sulle concave navi, e ciò fu l’origine della contesa,
e nello stesso tempo promettessi di dividere
con gli Achei altri beni, quanti questa città ne contiene;
e se inoltre strappassi agli anziani di Troia il giuramento
di non nascondere niente, ma di dividere tutto in due parti,
quanta ricchezza la bella città racchiude dentro di sé;
ma perché mai il mio animo mi suggerisce tutto questo?
(Iliade, XXII, 111-122; trad. Ida Biondi – (2)-)
È
evidente come Ettore formuli tutte queste domande interiori senza
volerle realmente esprimere. È la paura a dettare le parole che prendono
forma nella sua mente, e la sola soluzione che riesce a prendere in
considerazione, in questo momento, è una possibile via d’uscita dal
terribile angolo oscuro in cui si vede confinato dal suo ruolo e dal suo
dovere come più forte dei Troiani. I suoi vani tentativi di trovare una
via di fuga sembrano riecheggiare il tono delle disperate parole di
Sam, quando si chiedeva: “Che posso fare? Che devo fare?”, ma poi, e con
la stessa prontezza, emerge una soluzione positiva, sebbene disperata e
possibilmente foriera di morte: andare avanti, nonostante
tutto. Ettore, infatti, giunge ad un punto in cui la sua razionalità
prevale sulla sua parte irrazionale, e così dice: “ma perché mai il mio
animo mi suggerisce tutto questo?” Si tratta esattamente del momento in
cui la consapevolezza della sua condizione di eroe ritorna viva, per cui
non può fare a meno di riprendere la sua strada, risolvendo così il
dubbio angoscioso che aveva minacciato di schiacciarlo. Si potrebbe
affermare che né lui, né Sam, nei loro rispettivi drammi, sono veramente
liberi, perché nessuno di loro vuole ciò che è chiamato a
fare, ma non è questo il punto. Il libero arbitrio c’entra tanto quanto
la situazione lo permette, perché le forze contrapposte sono molto più
grandi dei desideri personali di un singolo individuo. La libertà di
scelta, nel contesto di una guerra, o comunque di una missione
disperata, è quella sottile bava di ragno che rende possibile, per il
personaggio coinvolto, accettare la sua strada personale nonostante l’assurdità della minaccia che rappresenta.
Ho
qui cercato di dare alcuni rapidi esempi del mio personale approccio
alla letteratura comparata (molto più sviluppato, peraltro, nel mio
primo saggio e nelle nuove cose che ho scritto). A molti sembrerà
empirico, perché non basato su un modo di ragionare filologico o sulla
considerazione dell’influsso che un autore può aver avuto su un altro:
in verità, io parto da un presupposto diverso: quello di considerare le
creazioni letterarie di epoche e culture differenti non solo come
espressioni del loro mondo di provenienza, ma anche (se non
principalmente) come pietre di un invisibile ma anche innegabile
percorso: quello dell’uomo attraverso la storia. L’uomo,
infatti, è cambiato e si è evoluto così tanto, nel corso dei secoli, ma
non possiamo negare che spesso restiamo sorpresi al vedere quanti punti
in comune abbiamo ancora con i comportamenti di coloro che vissero quasi
tremila anni fa. Io credo che questo non sia solo un fenomeno di natura
strettamente antropologica – in altre parole, il segno che deriviamo
da quegli uomini e quelle donne, visto che apparteniamo alla cultura
occidentale –. Si tratta di qualcosa di più sottile, che ha più
strettamente a che fare con il lato energetico della natura
umana. Sentimenti, emozioni e comportamenti, sia positivi che negativi,
possono infatti essere divisi in varie categorie e come stesi in un
ventaglio di tipi, che non possono annullare il fattore
d’imprevedibilità della natura umana e l’originalità di ogni individuo,
ma sono comunque riscontrabili in tutti gli uomini, oggi come nel
passato. Questa è la lezione del medico inglese Edward Bach (1886-1936),
che sviluppò, per mezzo di ricerche naturalistiche e della sua
sensitività personale, quella che oggi è una branca fondamentale della
medicina olistica: la floriterapia (3). Ciascuno dei rimedi da lui
scoperti (in tutto, 38 essenze floreali, più un rimedio d’emergenza)
corrispondeva ad uno specifico aspetto della natura umana, e ciascuno di
essi poteva curare una specifica disarmonia della sfera energetica – e
dunque mentale, emotiva e caratteriale – di una persona. L’uomo,
infatti, non è solo “carne e sangue”, né il resto della natura è solo
materia, ma anche energia: del resto, è da Albert Einstein che
ci viene il fondamentale insegnamento che massa ed energia si
trasformano continuamente l’una nell’altra. L’energia entra nella (ed
esce dalla) nostra vita attraverso il cibo che mangiamo, l’acqua che
beviamo, l’aria che respiriamo, la luce e tutto ciò che facciamo o ci
viene fatto, e non solo in forme sperimentalmente rilevabili, ma anche a
livello di energie sottili, cioè di apporti o interazioni che
attengono alla nostra sfera mentale ed emotiva (si direbbe, in termini
di medicina olistica, alla nostra aura). In sintesi, l’energia è
il nostro modo di interagire col mondo in cui viviamo, e perciò con la
natura. Ebbene, la mia idea è che l’arte in genere, e più specificamente
la letteratura, sia una delle manifestazioni più speciali dell’energia:
più precisamente, è la bellezza che l’arte esprime, che può stimolare
certi aspetti dell’animo umano, addolcendone i dolori ed offrendo un
punto d’appoggio ad ogni anima che soffre. In questo senso, si può dire
che la letteratura può svolgere un’azione – almeno potenzialmente –
terapeutica . Perciò, la letteratura comparata, affrontata in chiave
estetico-emotiva, può dare un contributo molto importante. Infatti,
confrontare passi di autori di diverse epoche e culture, sottolineandone
gli aspetti di affinità (oltre che di diversità), può portarci a
scoprire diversi sapori dello stesso comportamento umano, diversesfumature di significato,
e così a creare una sorta di “mappa dell’animo umano” in cui le varie
terre sono i vari sentimenti e gli oceani rappresentano l’eterno flusso
della storia. Confrontare tra loro autori che hanno espresso stati
emotivi simili in contesti anche completamente differenti vuol dire
scendere più in profondità nella natura umana, trovandone gli
“archetipi” e forse suggerendo un modo per dare conforto a chiunque
provi un sentimento affine a quello dei passi citati, o altrimenti desideri provarlo.
Tolkien,
come dicevo prima, offre un importante termine di confronto in questo
tipo di operazione, poiché la sua creazione, presa nel suo insieme,
sembra svilupparsi da un oscuro – solo nel senso di: potenzialmente
luminoso – punto della sua anima (la “caverna” della sua “luce
interiore”, direi) per espandersi poi in un intero universo di terre,
personaggi e sentimenti. Questi appaiono come il naturale germoglio di
tale luce interiore, o come la proiezione della sua mente in un viaggio
di cui, il giorno che scrisse la frase “in a hole in the round there lived a hobbit”,
ancora non aveva un’idea precisa. Il risultato finale di questa
meravigliosa esperienza creativa fu un mondo perfettamente coerente, con
la sua geografia e la sua storia cosmica, ma soprattutto con la
capacità di catturare l’attenzione dei lettori a tal punto da attirarli
dentro quella dimensione parallela, facendoli sentire parte di essa e
quindi lasciandoli tornare nel mondo reale, rinnovati spiritualmente e
pronti a riscoprire la realtà. La vera ragione di tutto questo è precisamente il fatto che ogni parte della Terra di Mezzo è, oserei dire, la solidificazione di uno stato mentale umano. Questo non significa che si tratti di un’allegoria, perché Tolkien era nemico dell’allegoria, ma forse si tratta di un’allegoria naturale,
cioè di un modo di evidenziare come ogni parte della natura possa
trasmettere sentimenti ed emozioni che penetrano in profondità
nell’animo umano, dove possono toccare e far ritornare in vita aspetti
trascurati, risorse di energia, paesaggi a lungo dimenticati, il cui
contributo alla nostra felicità può essere molto importante. Sono simboli,
in questo senso, ma simboli che agiscono principalmente sul terreno
delle percezioni naturali, e solo secondariamente al livello di una
riflessione intellettuale. Sì, perché uno dei fondamentali messaggi che
escono spontaneamente dalla lettura dell’opera di Tolkien è che l’uomo
non si esaurisce nella sua dimensione intellettuale, ma è un intero
consistente in mente, corpo ed energia. La miglior dimostrazione di
questo è la Terra di Mezzo, considerata per un momento come un alone creativo,
una complessa creazione con una sua coerenza interna, in cui tutte le
parti costitutive svolgono un ruolo che si dimostra importante, se non
fondamentale, per il risultato finale. Altrimenti, perché la Guerra
dell’Anello sarebbe stata vinta, infine, grazie ad una creatura piccola
ed apparentemente inoffensiva come un Hobbit?
La Terra di Mezzo, così, si rivela come una sorta di dimensione nascosta del nostro mondo,
con il quale ha dei sottili ma fortissimi legami, consistenti in fili
di energia, ciascuno dei quali è collegato ad uno specifico aspetto
della natura umana. Vorrei concludere la mia riflessione citando un paio
di passi di scrittori contemporanei, che sono stati in grado di
produrre nei lettori effetti estetico-percettivi che sono in verità
simili a quelli derivanti dalla lettura di Tolkien. Penso ad esempio
all’autore tedesco Hermann Hesse, o al colombiano – anche lui Premio
Nobel – Gabriel García Márquez. Hesse, nel suo noto romanzo Narciso e Boccadoro, scrive qualcosa di profondamente consonante con lo scopo della “letteratura feerica”, secondo Tolkien. Dice infatti:
In
questo mondo di sogni Boccadoro viveva più che nella realtà. Il mondo
reale (…) non era che una superficie, una sottile membrana tremante
sopra il mondo trascendente delle immagini e dei sogni. Un nulla bastava
a forare questa membrana sottile: qualcosa di misterioso nel suono di
una parola greca in mezzo ad un’arida lezione, un’ondata di profumo
dalla bisaccia in cui padre Anselmo raccoglieva erbe per i suoi studi
botanici, la vista d’un tralcio di pietra che spuntava dal capitello
della colonna d’un arco di finestra… bastavano questi piccoli stimoli
per forare la membrana della realtà e per scatenare, dietro la placida
aridità di questa, il tumulto d’abissi, di fiumane e di vie lattee, che
s’agitava in quel mondo immaginario dell’anima.
(Hermann Hesse, Narciso e Boccadoro, ed. Oscar Mondadori, 1989, pag.56)
Qui
vediamo molto bene come ogni parte del mondo reale possa innescare
l’intuizione dei segreti naturali che sono nascosti appena dietro la
cortina dell’apparenza: proprio quella che la buona letteratura fantasy – e la buona letteratura in genere – aiuta a penetrare con l’acutezza dello sguardo e la finezza delle percezioni. L’oltre che si trova immediatamente dopo quel velo è in qualche modo reso presente, qui ed ora,
dal potere evocativo delle parole dell’autore. Così, non possiamo più
dire se ci troviamo nella dimensione della realtà o in una immaginaria,
perché la sola cosa che conta è l’estremo grado di credibilità – o,
dovrei dire, di verità – delle nostre percezioni. Questa è, né più né meno, creazione secondaria (o subcreazione),
indipendentemente dal fatto che avvenga nel mondo reale o in uno
immaginario, ma profondamente realistico, come la Terra di Mezzo. Hesse,
nel passo appena letto, sembra aver scattato una foto di un frammento
di “Terra di Mezzo del nostro mondo”, così idealmente rispondendo ad uno
dei più importanti insegnamenti di Tolkien, che, nel saggio Sulla fiaba, scrisse:
Dovremmo
guardare di nuovo il verde, e rimanere nuovamente stupiti (ma non
accecati) dal blu e dal giallo e dal rosso. Dovremmo incontrare il
centauro e il drago, e poi forse, improvvisamente, metterci ad
osservare, come gli antichi pastori, pecore, cani e lupi. (trad. G.A.)
Lo scopo della letteratura fantasy (o meglio, del buon fantasy, cioè della fiaba
nel senso più nobile del termine), è proprio questo. In effetti, oggi
sembra essere condiviso anche da quella parte della letteratura
realistica in cui si può sentire con maggior evidenza in senso di
un’immersione nella dimensione naturale dell’energia come strumento che
permetta di cogliere le essenze vitali più delicate e rasserenanti per
l’animo umano, come si è visto dal passo di Hesse. Dopo tutto, anche
secondo Tolkien lo scopo finale dell’esperienza subcreativa doveva
essere quello di ritornare al mondo reale, rinfrancati e
rinnovati, e con la ritrovata capacità di cogliere la bellezza delle
cose che ci circondano. C’è sempre spazio per un miracolo naturale,
finché i nostri occhi non sono offuscati dalla noia o dalla fiacchezza
spirituale.
Questo
è anche il senso dell’apparentemente assurda scoperta di un galeone
spagnolo nel cuore della giungla equatoriale, nel capolavoro di Gabriel
García Márquez, Cent’anni di solitudine.
La
terra diventò molle e umida, come cenere vulcanica, e la vegetazione fu
sempre più insidiosa e si fecero sempre più lontani i trilli degli
uccelli e lo schiamazzo delle scimmie, e il mondo diventò triste per
sempre. Gli uomini della spedizione si sentirono oppressi dal silenzio,
anteriore al peccato originale, dove gli stivali affondavano in pozze di
oli fumanti e i machetes facevano a pezzi gigli sanguinosi e salamandre
dorate. Per una settimana, quasi senza parlare, avanzarono come
sonnambuli in un universo di afflizione, appena illuminati dal tenue
riverbero di insetti luminosi e coi polmoni oppressi da un soffocante
odore di sangue. Non potevano ritornare, perché il sentiero che andavano
aprendo al loro passaggio tornava a chiudersi in poco tempo, con una
vegetazione nuova che vedevano crescere quasi sotto i loro occhi. «Non
importa» diceva José Arcadio Buendía. «L’essenziale è non perdere
l’orientamento». Affidandosi sempre alla bussola, continuò a guidare i
suoi uomini verso il nord invisibile, finché pervennero a uscire dalla
regione incantata. Era una notte fonda, senza stelle, ma l’oscurità era
impregnata di un’aria nuova e pulita. Sfiniti per la lunga traversata,
appesero le amache e dormirono profondamente per la prima volta dopo due
settimane. Quando si svegliarono, già col sole alto, rimasero
stupefatti. Davanti a loro, circondato da felci e palme, bianco e
polveroso nella silenziosa luce del mattino, c’era un enorme galeone
spagnolo. Leggermente piegato a tribordo, dalla sua alberatura intatta
pendevano i brandelli squallidi della velatura, tra sartie adorne di
orchidee. Lo scafo, coperto da una nitida corazza di remora
pietrificata, e di musco tenero, era fermamente inchiavardato in un
pavimento di pietre. Tutta la struttura sembrava occupare un ambito
proprio, uno spazio di solitudine e di dimenticanza, vietato ai vizi del
tempo e alle abitudini degli uccelli. Nell’interno, che la spedizione
esplorò con un prudente fervore, non c’era altro che un fitto bosco di
fiori.
(Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine, ed. Mondadori, 1982, pagg.12-13)
Questo
è il senso ultimo di una tanto lunga peregrinazione lungo i più fitti
meandri della natura: trovare qualcosa di completamente inatteso, e che
in apparenza ha così poco senso, come un galeone nel cuore della
terraferma, pieno di fiori, ma soprattutto che occupa “un ambito
proprio, uno spazio di solitudine e di dimenticanza”. È una sorta di
parentesi naturale, che non può essere toccata dal tempo o dagli agenti
esterni, dall’uomo o dalla natura, perché ha la sua consistenza e la sua
dignità, e insieme una profonda coerenza nonostante la sua diversità
dal contesto di cui è parte. Ma non si può dire la stessa cosa anche
del segreto naturale che è incastonato nella Terra di Mezzo inventata da
Tolkien? Non è forse la sua creazione come un galeone spagnolo nella
giungla della modernità, un punto di riferimento almeno potenziale per
tutte le anime sensibili che sono quotidianamente ferite dalla violenza,
dalla volgarità e dalla sovversione dei valori che il mondo
contemporaneo sembra quasi volerci imporre? E non è anche una pietra
miliare per coloro che non accettano l’omologazione mentale in cui il
mercato di massa e il lato negativo della globalizzazione troppo spesso
si traducono? Perciò, leggere i suoi libri, e confrontarli a quelle voci consonantiche
sono protagoniste della letteratura contemporanea – oltre che con
quelle del passato – può diventare un modo per riscoprire le essenze
naturali che sono alle radici dei valori che abbiamo bisogno di
riscoprire. Infatti, non ci può essere alcun recupero della parte più
profonda del mondo in cui viviamo, e della nostra capacità di essere
mentalmente indipendenti, se prima non riscopriamo la bellezza del
contatto superficiale con la natura. Questo è il senso di un intenso
personaggio di Tolkien, Barbalbero, che sa meditare sui misteri della
vita e del tempo, ma anche godere del potere rigenerante della superficie della vita, come nel punto in cui leggiamo
Sembrava
vi fosse dietro le pupille un enorme pozzo, pieno di secoli di ricordi e
di lunghe, lente e costanti meditazioni, ma in superficie sfavillava il
presente, come sole scintillante sulle foglie esterne di un immenso
albero, o sulle creste delle onde di un immenso lago.
(J.R.R. Tolkien, Il signore degli anelli, op. cit., pag. 567)
Ciò
che è stato appena detto è anche vero dei passi citati di Hermann Hesse
e Gabriel García Márquez, perché essi hanno proposto itinerari
immaginativi lungo i sentieri del mondo reale, finalizzati a riscoprire
semplici ma profondi segreti, che si trovano appena al di là del velo –
molte volte così spesso – dell’apparenza. E questo è, in ultima analisi,
il senso di tutta la produzione letteraria di Tolkien, che un approccio
comparativo alla letteratura fondato su basi nuove può aiutarci a
cogliere come parte del più ampio orizzonte della “buona letteratura”,
ma soprattutto della nostra vita.
BIBLIOGRAFIA:
- J.R.R. Tolkien: Il signore degli anelli, ed. Rusconi
- J.R.R. Tolkien: Lo Hobbit, ed. Adelphi
- J.R.R. Tolkien, The Silmarillion, HarperCollins
- J.R.R. Tolkien: Albero e Foglia, Rusconi
- J.R.R. Tolkien: La realtà in trasparenza. Lettere,
- J.R.R. Tolkien: The Monsters and the Critics and Other Essays, Paperback ed.
- Omero: Iliade
- Virgilio: Bucoliche
- Joseph O’Connor, La fine della strada, ed. Guanda
- G. G. Márquez: Cent’anni di solitudine, ed. Mondadori (One Hundred Years of Solitude)
- I. Biondi: Grasce et Latine, ed. Spazio Tre
- G. Agnoloni: Letteratura del fantastico, ed. Spazio Tre
- G. Colli: La nascita della filosofia, Adelphi.
- D. Del Corno: Antologia della Letteratura Greca, Principato.
- D. Del Corno: Letteratura Greca, Principato.
- G. Rosati: Scrittori di Grecia (antologia commentata), Sansoni per la Scuola.
- G.B.Conte, E.Pianezzola: Storia e testi della letteratura latina (antologia commentata), Le Monnier.
- M. Pazzaglia: Letteratura Italiana, Zanichelli.
- M. Scheffer: Il grande libro dei fiori di Bach, ed, Corbaccio.
- R. Orozco, Fiori di Bach – Analisi comparata delle essenze – Ed. Centro di Benessere Psicofisico
NOTE:
(1) D’ora in poi, G.A.
(2) D’ora in poi I.B. La citazione e la traduzione sono tratte da: Ida Biondi, Graece et Latine, op.cit., pag.209.
(3)
Tra l’altro, è curiosa la coincidenza che Edward Bach sia nato in uno
dei luoghi dell’infanzia di Tolkien, Moseley (presso Birmignham). Viene
da pensare che l’ambiente quieto e sereno della campagna inglese abbia
innescato in entrambi un percorso intimo che avrebbe portato l’uno (il
medico) a sviluppare, anni dopo, un percorso terapeutico basato sul
rapporto con la natura, e l’altro (lo scrittore) a creare un mondo
immaginario di cui l’energia naturale è un elemento essenziale.
Sto qui riferendomi a qualcosa di diverso da quello che normalmente si intende soprattutto per arteterapia,
ovvero la cura di malesseri psicologici, e soprattutto relazionali,
attraverso la creatività artistica. Io, infatti, mi riferisco
principalmente al versante recettivo della fruizione artistica, che può peraltro diventare a suo volta premessa di un’esperienza creativa.
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