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Mentre la mania epica, l’idea che per avere dei meriti in poesia la prolissità è indispensabile, negli ultimi anni è andata gradualmente declinando nella mente del pubblico, grazie alla sua stessa assurdità, la troviamo rimpiazzata da un’eresia troppo palpabilmente falsa per essere tollerata a lungo, ma che, nel breve periodo che è durata, si può dire che sia riuscita a corrompere la nostra letteratura poetica più di tutti gli altri suoi nemici messi insieme. Alludo all’eresia del didascalico. Si è supposto, in modo tacito e dichiarato, diretto e indiretto, che l’ultimo obiettivo di tutta la poesia è la verità. Ogni poesia, si dice, dovrebbe inculcare una morale e da questa morale si deve giudicare il merito poetico dell’opera. Noi americani, particolarmente, abbiamo patrocinato questa felice idea, e noi bostoniani, ancor più in particolare, l’abbiamo sviluppata in pieno. Ci siamo messi in testa che scrivere una poesia semplicemente per la poesia stessa, e riconoscere che tale è il nostro disegno, sarebbe confessare a noi stessi radicalmente che siamo privi di vera dignità e forza poetica: – ma il fatto nudo e crudo è che se solo ci concedessimo di guardare dentro i nostri animi scopriremmo immediatamente non c’è niente sotto il sole, né può esserci alcuna opera del tutto degna, più supremamente nobile, proprio della poesia, della poesia in sé e per sé, della poesia che sia poesia e niente più, della poesia scritta solamente per la poesia.
Con il più profondo
rispetto per il «vero» che abbia mai ispirato il cuore dell’uomo, vorrei
tuttavia limitarne in qualche misura le modalità d’indottrinamento. Li
limiterei per rafforzarli. Non vorrei indebolirli per dissiparli. Le
rivendicazioni della Verità sono severe. La Verità non ha simpatia per
il mirto. Tutto ciò che è così indispensabile al canto è precisamente ciò con cui essa non
ha nulla a che fare. Incoronarla con gemme e fiori significa solo farne
un paradosso pomposo. Per rafforzare una verità occorre rigore più che
il linguaggio infiorettato. Occorre essere semplici, precisi, tersi.
Occorre essere freddi, calmi, distaccati. In una parola, occorre essere
in quello stato d’animo che, per quanto possibile, è l’esatto opposto di
quello poetico. Dev’essere proprio cieco chi non percepisce la
differenza radicale e abissale tra le modalità d’indottrinamento della
verità e quelle della poesia. Dev’essere un dottrinario pazzo senza
speranza chi, a dispetto di queste differenze, continuerà a insistere
nel tentare di riconciliare gli irriducibili olio e acqua della Poesia e
della Verità.
Dividendo il mondo della
mente nelle sue tre più immediate e ovvie distinzioni, avremo il Puro
Intelletto, il Gusto e il Senso Morale. Colloco il Gusto in mezzo,
perché è proprio questa la posizione che occupa nella mente. È in
stretti rapporti con entrambi gli estremi, ma è separato dal Senso
Morale da una così impercettibile differenza che Aristotele non ha
esitato a collocare alcune delle sue operazioni tra le stesse virtù.
Tuttavia, rintracciamo le funzioni del trio indicato con
sufficiente distinzione. Proprio come l’Intelletto ha a che fare con la
Verità, così il Gusto ci informa del Bello, mentre il Senso Morale è
attento al dovere. Di quest’ultimo, mentre la Coscienza ce ne insegna
l’obbligo, e la Ragione l’opportunità, il Gusto si accontenta di
rivelarne il fascino: col muovere guerra al Vizio soltanto a causa della
sua deformità, della sua sproporzione, della sua ostilità a ciò che è
appropriato, armonioso – in una parola, al Bello.
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