3 Giugno 2013 di lunanuvola
Il
lessico del nulla è fatto di tutte le parole possibili – ortografia e
grammatica e sintassi sono opzionali – che ruotano attorno a pochissimi
concetti: “posizione personale”, “opinione”, “confronto”, “io c’ero e
non è andata così”, “conosco una persona che” e “…..” (sostituite ai
puntini gli insulti più vomitevoli e sessisti e idioti e razzisti che
avete sicuramente letto/sentito a iosa).
Immaginate
un insegnante di storia. Il programma prevede che parli ai suoi
studenti della II guerra mondiale. E lo fa in questo modo: “Qui sul
libro si parla di campi di sterminio, ma non sono mai esistiti, è un
complotto del sionismo internazionale e degli alleati per screditare il
nazionalsocialismo e tutte le cose buone che ha fatto.” Qualcuno
mugugna, alza la mano o cita Auschwitz. “Guardate che ci sono un sacco
di studi e ricerche che provano quel che dico. E inoltre, questa è
la mia opinione. E se può interessarvi, ci sono un mucchio di altre
persone che la pensano come me. E se non bastasse, un amico di un
collega di un mio cugino ad Auschwitz c’è stato e ha visto chiaramente
alla base di un cancello il marchio made in Israel.”
Ah,
beh, se è così. Chiunque può avere un’opinione, ci mancherebbe, se poi è
un’opinione condivisa da altri allora dev’essere per forza valida.
Ditemi: in quanti commenti, dibattiti, discorsi, dialoghi, articoli,
messaggi avete letto ragionamenti articolati (in modo circolare) come
quello suddetto? Molti, scommetto. Fanno parte dell’incapacità di
comunicare generatasi nell’era delle comunicazioni. Sembra un paradosso,
eppure è vero. La santificazione della parola “opinione” nasce in
questo scenario di vuoto comunicativo.
“L’omosessualità
è una malattia”, dice un paio di giorni fa una catechista in quel di
Milano (Segrate). I cresimandi si ribellano, la rete commenta – manda
messaggi – scrive articoli e spuntano dotte asserzioni del tipo: “In fin
dei conti ha espresso una posizione personale”, “Quella è la sua
opinione.” Già. Ma proprio come quella del docente del mio esempio è
un’opinione falsa. Solo perché un’opinione sbagliata e offensiva ce
l’hanno in altri 300, altri 3.000, altri 3 milioni, non diventa ne’ meno
sbagliata, ne’ meno offensiva: diventa, al massimo, più comune. Se la
ripetono in 30 milioni ed è falsa, resta falsa (con buona pace di
Goebbels). Nessuno studio “prova” che i campi di sterminio siano
un’invenzione. Nessuno scienziato degno di tale nome definisce
l’omosessualità una “malattia”.
La
catechista ha definito “irremovibile” la “propria posizione”. Cioè,
vuole continuare a pensare che l’omosessualità sia una malattia. Prego.
Ma le sue “posizioni” non sono verità ne’ scienza, e per quanto ne so
neppure misteri della fede. Se le vuole insegnare come dottrina
cattolica e il magistero avvalla, l’intera congrega ci deve spiegare scientificamente
di che malattia si tratta, quali sono gli organi colpiti, come la si
contrae, come la si cura, se è infettiva o no, se viene da un virus o da
un batterio. O magari, potrebbero dirci quel che pensano sul serio, e
cioè: non siamo in grado di spiegarvi perché
in maniera razionale, e niente nella realtà dei fatti ci dà un ritorno
per le nostre convinzioni, ma riteniamo moralmente reprensibile
qualsiasi interazione sessuale che non avvenga fra uomo e donna, nella
posizione del missionario e finalizzata alla procreazione. Certo, fatta
salva la necessità di “contestualizzare” qualche cosuccia diversa per
gli uomini di governo o per i possessori di reti televisive (Bagnasco
docet).
Qualche
giorno fa ho scritto di “Beatriz” e del suo penoso travaglio per
ottenere un aborto terapeutico in Salvador, una misura necessaria a
salvarle la vita. Ho anche citato il solo quotidiano italiano su cui ho
visto riportare la notizia (dopo di me, e con molte meno informazioni di
quante ne ho io). I dati di base, quelli che ho riassunto nelle righe
precedenti, comunque c’erano; quel che era allucinante era la qualità
dei commenti, del tipo: “Io conosco una donna malata di lupus e quando
ha smesso di dar retta ai medici è stata benone, per cui secondo me le
cose non stanno come le raccontano.” Ecco il lessico del nulla
all’opera. In un paese dove donne stanno scontando 40 anni di prigione
per aver abortito, e i medici vanno parimenti in galera se praticano
interruzioni di gravidanza, sono gli stessi medici a chiedere si salvi
la vita di una giovane che ha già un bimbo, e il cui feto – anancefalico
– non sopravviverà comunque al parto: ma il primo che passa sa come le cose stiano altrimenti. C’è
di sicuro qualcosa sotto, si sa come sono fatte le donne. Questa non
vuole un altro figlio per egoismo, altro che lupus e insufficienza
renale, e pericolo di morte. Magari è rimasta incinta con l’amante e
vuol farla franca di fronte al marito. Tutte puttane, l’ho sempre detto.
Ma non posso scriverlo ad un giornale così, magari mi cancellano il
commento o le terribili femministe mi aggrediscono, allora “conosco
qualcuno che”. Loro non possono smentirlo, giusto? Come fanno a dire che
mi sto inventando tutto di sana pianta, non possono provarlo. E nella
prossima situazione che mi disturba perché odio le persone in essa
coinvolte o dette persone non fanno/pensano quel che voglio io, dirò che
“io c’ero e non è andata così”.
Gli
“antagonisti” di qualsiasi colore politico sono famosi, in Italia, per
la tiritera di loro sì che c’erano e hanno visto, e qualsiasi altro
resoconto è spudorata menzogna. Ricordo il penoso caso di una fanciulla,
anni or sono, che dimentica di aver già discusso con me un episodio – a
cui lei era del tutto estranea – saltò fuori un paio di mesi dopo a
giurarmi “che lei c’era” e non era andata come dicevano Tizio e Caia.
Con il piccolo problema che io, oltre ad aver conservato la
comunicazione in cui lei stessa si dichiarava inconsapevole dei fatti,
ero una testimone oculare e di lei, durante l’episodio, non avevo
rilevato traccia.
Il lessico del nulla è una palude etica dove tutto si equivale su un piano orizzontale, per supposta par condicio. E tutto si stempera e perde significato. Nessuno è responsabile di quel che dice. Sono sempre, solo, opinioni galleggianti nell’ambito del doveroso confronto,
che vengano da chi può spararle su mezza dozzina di giornali e tv o da
chi ha disposizione solo una casella di posta elettronica, che le
esprima Barbablù o l’ultima sua moglie ancora viva, come se lo sbilanciamento di potere fra soggetti non esistesse.
Come se i propugnatori e i sostenitori della cultura dominante non
avessero spazio e ascolto sproporzionati con cui strafogarsi sui media,
nella pubblicità e nelle istituzioni, o non avessero potere e denaro per
influenzare e determinare scelte politiche che varranno poi per tutti,
anche per quelli con “posizioni personali” diverse. E quando si arriva
ai “…..” (svariati insulti, come già detto), che costituiscono
l’ossatura di questo linguaggio vuoto, chi li proferisce crede non solo
di conferire una straordinaria forza alle proprie opinioni tramite essi,
ma di star enunciando a chi deve riceverli qualcosa di assolutamente
nuovo: adesso li mettono a posto loro, questi x e questi y, dicendogli
chi sono e cosa si meritano. Ma, mi dispiace deluderli, sono mere voci
che si aggiungono alla cacofonia del dominio e in essa si perdono. Le
donne sono circondate da messaggi denigratori tutto il santo giorno.
Chiunque devi dai modelli imposti per aspetto, appartenenze, identità,
riceve lo stesso scampanellio d’odio e rigetto nelle orecchie da quando
si alza a quando va a dormire. Ci parlate di niente, signori, ed è pure un niente obsoleto e stantio.
Maria G. Di Rienzo
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