Io è un altro - parte I
di Daniele Baron1. Arthur Rimbaud – il contesto storico-letterario de ”La lettera del Veggente”
Io è un altro. Je est un autre.
Questa formula ricorre in due lettere della Corrispondenza di Arthur Rimbaud: nella lettera del maggio 1871 a Georges Izambard – professore di Rimbaud al collegio, ma anche amico e confidente che lo iniziò alla letteratura; ed in quella immediatamente successiva a Paul Demeny amico di Izambard, a sua volta poeta, risalente al 15 maggio 1871. In esse, inoltre, viene delineata quasi con le stesse parole la poetica che ha guidato (in alcune poesie già composte) e poi guiderà (in Une saison en enfer e ancor di più nelle Illuminations) la fulminea carriera come poeta di Rimbaud: una poetica che ha segnato in maniera decisiva lo sviluppo successivo della letteratura francese e non solo. Soprattutto la lettera a Demeny (passata alla storia come “La lettera del Veggente”), più lunga e più dettagliata, sembra configurarsi come un vero e proprio manifesto del suo fare poetico e come un elemento essenziale per la comprensione della sua creazione. Queste due lettere, dunque, spiccano per il fatto di esprimere in poche righe, con stile magnifico, il distillato del pensiero di Rimbaud.
Nel tempo si sono succedute innumerevoli letture e le ermeneutiche più eterogenee delle due lettere di Rimbaud, molti ed eccellenti ingegni si sono esercitati su questi testi e su questa formula in particolare.
Per esempio, una delle più famose e rilevanti riprese della formula “Io è un altro” è quella di Jacques Lacan: lo psicanalista francese l’ha valorizzata nella sua personale rielaborazione dell’inconscio.
Lo scopo che mi sono posto in questa disamina è di comprendere, per quanto possibile fedelmente, in che senso Rimbaud scrive che l’Io è un altro e parallelamente di spiegare questo concetto, muovendo dai suoi scritti e guidato da una precedente autorevole ripresa (da parte di Jean-Paul Sartre ne La Transcendence de l’Ego).
Il mio intento è riuscire a chiarificare in che modo si possa predicare dell’Io l’altro; dimostrerò che l’essere della formula “Io è un altro” è comprensibile solo se tradotto in termini di divenire. Il mio discorso verterà su questioni ontologiche e fenomenologiche.
Questa formula ricorre in due lettere della Corrispondenza di Arthur Rimbaud: nella lettera del maggio 1871 a Georges Izambard – professore di Rimbaud al collegio, ma anche amico e confidente che lo iniziò alla letteratura; ed in quella immediatamente successiva a Paul Demeny amico di Izambard, a sua volta poeta, risalente al 15 maggio 1871. In esse, inoltre, viene delineata quasi con le stesse parole la poetica che ha guidato (in alcune poesie già composte) e poi guiderà (in Une saison en enfer e ancor di più nelle Illuminations) la fulminea carriera come poeta di Rimbaud: una poetica che ha segnato in maniera decisiva lo sviluppo successivo della letteratura francese e non solo. Soprattutto la lettera a Demeny (passata alla storia come “La lettera del Veggente”), più lunga e più dettagliata, sembra configurarsi come un vero e proprio manifesto del suo fare poetico e come un elemento essenziale per la comprensione della sua creazione. Queste due lettere, dunque, spiccano per il fatto di esprimere in poche righe, con stile magnifico, il distillato del pensiero di Rimbaud.
Nel tempo si sono succedute innumerevoli letture e le ermeneutiche più eterogenee delle due lettere di Rimbaud, molti ed eccellenti ingegni si sono esercitati su questi testi e su questa formula in particolare.
Per esempio, una delle più famose e rilevanti riprese della formula “Io è un altro” è quella di Jacques Lacan: lo psicanalista francese l’ha valorizzata nella sua personale rielaborazione dell’inconscio.
Lo scopo che mi sono posto in questa disamina è di comprendere, per quanto possibile fedelmente, in che senso Rimbaud scrive che l’Io è un altro e parallelamente di spiegare questo concetto, muovendo dai suoi scritti e guidato da una precedente autorevole ripresa (da parte di Jean-Paul Sartre ne La Transcendence de l’Ego).
Il mio intento è riuscire a chiarificare in che modo si possa predicare dell’Io l’altro; dimostrerò che l’essere della formula “Io è un altro” è comprensibile solo se tradotto in termini di divenire. Il mio discorso verterà su questioni ontologiche e fenomenologiche.
Per penetrare appieno nella formula Je est un autre
occorre risalire al contesto in cui viene espressa da Rimbaud. Il
Nostro si pone in contrapposizione alla concezione artistica corrente
nell’ambiente letterario della sua epoca: le sue parole hanno il tono
della sfida e del desiderio di cambiamento. Qual è l’avversario a cui
Rimbaud getta il guanto? Ce lo dice lui esplicitamente: «la poesia
soggettiva» ricercata da Izambard (A. Rimbaud, Opere, Arnoldo
Mondadori Editore, Milano 1975, ristampa 2006, p. 449), la poesia dei
Parnassiani e del secondo romanticismo, per la quale il poeta di
Charleville passa da una iniziale ammirazione al distacco pressoché
completo, che alla fine lo conduce fino alla satira ed al disprezzo (con
importanti eccezioni, tra le altre, ad esempio, Verlaine).
Significativa a questo proposito è la vicenda dei suoi rapporti con il letterato e poeta Théodore de Banville, uno degli esponenti del movimento dei Parnassiani. Come attestato dalla lettera ossequiosa che nel maggio 1870 Rimbaud scrive a Banville, inizialmente egli mira addirittura con i suoi componimenti ad entrare «nell’ultima serie del Parnasse: un po’ il Credo dei poeti!» (Ibidem, p. 440) ed in fondo s’ispira a loro per i primi versi. Tuttavia, già nell’anno successivo, il 1871, sviluppa una poetica opposta, considera la poesia soggettiva «tremendamente insulsa» (Ibidem, p. 449) e giunge nel poema Ce Qu’on Dit Au Poète A Propos De Fleurs alla parodia sarcastica ed irriverente di Banville.
Emerge da questo esempio con tutta evidenza che il nemico a cui Rimbaud si rivolge nelle lettere sopraccitate è la poetica parnassiana, tutta incentrata sul soggetto e sull’esaltazione del rigore formale del verso; poetica che si fonda sulla celebre teoria de “l’arte per l’arte” per cui l’artista nella creazione deve avere come unico scopo la bellezza e rifuggire l’impegno sociale e politico.
Nella lettere a Izambard e a Demeny è evidente l’insofferenza di Rimbaud per questa teoria, tanto che la poetica lì tratteggiata sembra stagliarsi come l’opposto di quella parnassiana, come una risposta che, punto su punto, rovescia quella concezione.
Bisogna affiancare a queste considerazioni il fatto che nei giorni in cui Rimbaud scrive queste lettere si sta svolgendo l’esperienza rivoluzionaria de “La Comune di Parigi” (dal 18 marzo al 28 maggio 1871) che lo vede partecipe, se non con l’azione diretta (cosa che non è certa, poiché non documentata), quanto meno idealmente, con le parole: Rimbaud è un fervido sostenitore delle rivendicazioni sociali e democratiche espresse ed attuate dal rivolgimento popolare e dal governo della primavera del 1871. Allegata alla lettera a Demeny figura, ad esempio, la poesia Chant De Guerre Parisien, dedicata proprio a quell’evento.
In quel contesto variegato, in quei giorni convulsi, Rimbaud sente il bisogno di una poesia nuova o «poesia oggettiva» (Ibidem, p. 449), adeguata ai tempi che verranno – «questo avvenire (…) sarà materialista» (Ibidem, p. 456) – che si richiami alla poesia greca che ritmava l’azione o che sia addirittura “in avanti” (en avant) rispetto all’azione. A questo scopo il poeta si farà Veggente «mediante un lungo, immenso e ragionato sregolarsi di tutti i sensi» (Ibidem, p. 454) attraversando ogni forma di sofferenza, di amore e follia per raggiungere l’ignoto. Per dare voce alle visioni raggiunte con questo balzo, il poeta dovrà trovare una lingua nuova che «sarà anima per l’anima, riassumendo tutto, profumi, suoni, colori, pensiero che aggancia il pensiero e tira. Sarebbe compito del poeta definire la quantità d’ignoto che si ridesta nell’anima universale del suo tempo» (Ivi).
Nell’ottica di questo intento viene acclarandosi la nozione che è al centro del nostro interesse: “Io è un altro”; Rimbaud la usa allo scopo preciso di uscire dal soggettivismo, dall’idealismo, dal formalismo, nello sforzo, attraverso lo sregolarsi dei sensi, attraverso il confondersi delle normali distinzioni di senso tra parole, colori e suoni, di parlare una lingua nuova che sia adeguata ai tempi mutati.
E’ significativo che Rimbaud dica Je est e non Je suis, cioè “Io è” in terza persona e non “Io sono”: l’Io qui diventa un corpo estraneo alla coscienza, non sembra più essere a fondamento del pensiero, né poter avere uno statuto privilegiato. L’Io non pensa, è pensato, assiste allo schiudersi del pensiero come uno spettatore esterno, come un altro. E’ importante anche da un punto di vista filosofico questa svalutazione dell’Io come soggetto del pensiero, soprattutto in un territorio come quello francese con alle spalle la tradizione cartesiana.
Ascoltiamo direttamente le parole di Rimbaud.
Nella lettera a Georges Izambard:
Significativa a questo proposito è la vicenda dei suoi rapporti con il letterato e poeta Théodore de Banville, uno degli esponenti del movimento dei Parnassiani. Come attestato dalla lettera ossequiosa che nel maggio 1870 Rimbaud scrive a Banville, inizialmente egli mira addirittura con i suoi componimenti ad entrare «nell’ultima serie del Parnasse: un po’ il Credo dei poeti!» (Ibidem, p. 440) ed in fondo s’ispira a loro per i primi versi. Tuttavia, già nell’anno successivo, il 1871, sviluppa una poetica opposta, considera la poesia soggettiva «tremendamente insulsa» (Ibidem, p. 449) e giunge nel poema Ce Qu’on Dit Au Poète A Propos De Fleurs alla parodia sarcastica ed irriverente di Banville.
Emerge da questo esempio con tutta evidenza che il nemico a cui Rimbaud si rivolge nelle lettere sopraccitate è la poetica parnassiana, tutta incentrata sul soggetto e sull’esaltazione del rigore formale del verso; poetica che si fonda sulla celebre teoria de “l’arte per l’arte” per cui l’artista nella creazione deve avere come unico scopo la bellezza e rifuggire l’impegno sociale e politico.
Nella lettere a Izambard e a Demeny è evidente l’insofferenza di Rimbaud per questa teoria, tanto che la poetica lì tratteggiata sembra stagliarsi come l’opposto di quella parnassiana, come una risposta che, punto su punto, rovescia quella concezione.
Bisogna affiancare a queste considerazioni il fatto che nei giorni in cui Rimbaud scrive queste lettere si sta svolgendo l’esperienza rivoluzionaria de “La Comune di Parigi” (dal 18 marzo al 28 maggio 1871) che lo vede partecipe, se non con l’azione diretta (cosa che non è certa, poiché non documentata), quanto meno idealmente, con le parole: Rimbaud è un fervido sostenitore delle rivendicazioni sociali e democratiche espresse ed attuate dal rivolgimento popolare e dal governo della primavera del 1871. Allegata alla lettera a Demeny figura, ad esempio, la poesia Chant De Guerre Parisien, dedicata proprio a quell’evento.
In quel contesto variegato, in quei giorni convulsi, Rimbaud sente il bisogno di una poesia nuova o «poesia oggettiva» (Ibidem, p. 449), adeguata ai tempi che verranno – «questo avvenire (…) sarà materialista» (Ibidem, p. 456) – che si richiami alla poesia greca che ritmava l’azione o che sia addirittura “in avanti” (en avant) rispetto all’azione. A questo scopo il poeta si farà Veggente «mediante un lungo, immenso e ragionato sregolarsi di tutti i sensi» (Ibidem, p. 454) attraversando ogni forma di sofferenza, di amore e follia per raggiungere l’ignoto. Per dare voce alle visioni raggiunte con questo balzo, il poeta dovrà trovare una lingua nuova che «sarà anima per l’anima, riassumendo tutto, profumi, suoni, colori, pensiero che aggancia il pensiero e tira. Sarebbe compito del poeta definire la quantità d’ignoto che si ridesta nell’anima universale del suo tempo» (Ivi).
Nell’ottica di questo intento viene acclarandosi la nozione che è al centro del nostro interesse: “Io è un altro”; Rimbaud la usa allo scopo preciso di uscire dal soggettivismo, dall’idealismo, dal formalismo, nello sforzo, attraverso lo sregolarsi dei sensi, attraverso il confondersi delle normali distinzioni di senso tra parole, colori e suoni, di parlare una lingua nuova che sia adeguata ai tempi mutati.
E’ significativo che Rimbaud dica Je est e non Je suis, cioè “Io è” in terza persona e non “Io sono”: l’Io qui diventa un corpo estraneo alla coscienza, non sembra più essere a fondamento del pensiero, né poter avere uno statuto privilegiato. L’Io non pensa, è pensato, assiste allo schiudersi del pensiero come uno spettatore esterno, come un altro. E’ importante anche da un punto di vista filosofico questa svalutazione dell’Io come soggetto del pensiero, soprattutto in un territorio come quello francese con alle spalle la tradizione cartesiana.
Ascoltiamo direttamente le parole di Rimbaud.
Nella lettera a Georges Izambard:
«E’ falso dire: Io penso: si dovrebbe
dire io sono pensato. – Scusi il gioco di parole. IO è un altro. Tanto
peggio per il pezzo di legno che si ritrova violino, e Sprezzo agli
incoscienti, che cavillano su ciò che ignorano completamente!» (Ibidem, p. 450).
Ancora più chiaramente in quella a Paul Demeny:
«Io è un altro. Se l’ottone si sveglia
tromba, non è affatto colpa sua. Per me è evidente: assisto allo
schiudersi del mio pensiero: lo osservo, lo ascolto: lancio una nota
sull’archetto: la sinfonia fa il suo sommovimento in profondità, oppure
d’un balzo è sulla scena.
Se i vecchi imbecilli non avessero trovato, del “me stesso”, soltanto il significato falso, non avremmo da spazzar via i milioni di scheletri che, da tempo infinito, hanno accumulato i prodotti della loro orba intelligenza, e se ne proclamano gli autori!» (Ibidem, p. 452).
Se i vecchi imbecilli non avessero trovato, del “me stesso”, soltanto il significato falso, non avremmo da spazzar via i milioni di scheletri che, da tempo infinito, hanno accumulato i prodotti della loro orba intelligenza, e se ne proclamano gli autori!» (Ibidem, p. 452).
Si percepisce bene in queste parole come
l’Io sia del tutto impotente di fronte al pensiero, che è un flusso che
esce spontaneo dalle profondità: i pensieri stessi sono improvvise
emergenze di un fiume carsico che scorre senza essere visto.
Qui occorre abbandonare ogni stratificazione di significato che ci porterebbe a parlare di Io e di Altro in termini di persona, non perché ciò non sia possibile e lecito, ma perché l’interpretazione sarebbe secondaria e derivata; bisogna infatti intendere queste due espressioni come concetti collegati alla medesima coscienza che nel pensare è sia in-sé, cioè identica a sé stessa, sia altro da sé, cioè identica all’altro.
Ciò che rileviamo dall’analisi dei passi sopra riportati sono fondamentalmente tre cose: 1) l’Io non è soggetto, ma una specie di oggetto rispetto ai pensieri, una forma vuota a cui vengono associati i pensieri, che nascono indipendentemente da lui; 2) se l’Io non è consapevole di ciò, se l’Io pensa di essere Soggetto dei pensieri, scivola nell’incoscienza, insomma è altro da sé pensando di essere in-sé (Rimbaud usa l’immagine del pezzo di legno che si ritrova violino o dell’ottone che si risveglia tromba); 3) c’è un livello di consapevolezza, quello che ci fa dire: l’Io è un altro, che permette di smascherare l’alienazione dell’Io, permette di indicare gli incoscienti, i “dormienti” (potremmo anche dire) che «cavillano su ciò che ignorano», quelli che pensano che l’Io sia a fondamento del sapere.
Qui occorre abbandonare ogni stratificazione di significato che ci porterebbe a parlare di Io e di Altro in termini di persona, non perché ciò non sia possibile e lecito, ma perché l’interpretazione sarebbe secondaria e derivata; bisogna infatti intendere queste due espressioni come concetti collegati alla medesima coscienza che nel pensare è sia in-sé, cioè identica a sé stessa, sia altro da sé, cioè identica all’altro.
Ciò che rileviamo dall’analisi dei passi sopra riportati sono fondamentalmente tre cose: 1) l’Io non è soggetto, ma una specie di oggetto rispetto ai pensieri, una forma vuota a cui vengono associati i pensieri, che nascono indipendentemente da lui; 2) se l’Io non è consapevole di ciò, se l’Io pensa di essere Soggetto dei pensieri, scivola nell’incoscienza, insomma è altro da sé pensando di essere in-sé (Rimbaud usa l’immagine del pezzo di legno che si ritrova violino o dell’ottone che si risveglia tromba); 3) c’è un livello di consapevolezza, quello che ci fa dire: l’Io è un altro, che permette di smascherare l’alienazione dell’Io, permette di indicare gli incoscienti, i “dormienti” (potremmo anche dire) che «cavillano su ciò che ignorano», quelli che pensano che l’Io sia a fondamento del sapere.
Io è un altro - parte II
di Daniele Baron2. Jean-Paul Sartre – L’Io trascendente la coscienza
Jean-Paul Sartre riprende la formula di Rimbaud “Je est un autre” ne La Transcendence de l’Ego.
Pur tenendo conto della diversità di linguaggio e di ambito, si può
affermare che Sartre qui elabora una concezione particolare della
coscienza e del campo trascendentale che sembra collimare con
l’intuizione di Rimbaud.
Premetto, in ogni caso, che la riproposizione della formula avviene solo in un punto della “Conclusione” di questo libro e, se consideriamo l’opera nel suo complesso, il riferimento è marginale. L’opera di Sartre, pubblicata nel 1936 nella rivista “Recherches philosophiques”, oltre che segnare il suo esordio filosofico ufficiale, rientra nell’ambito dei suoi studi sulla coscienza trascendentale a partire dalla fenomenologia di Husserl. A La Transcendence de l’Ego deve essere affiancato un altro saggio molto breve, scritto parallelamente, ma pubblicato solo in seguito (nel 1939), vale a dire Une idée fondamentale de la phénoménologie de Husserl: l’intentionnalité.
Entrambi sono il frutto della sua elaborazione personale delle dottrine di Husserl e sono stati scritti durante un viaggio-studio a Berlino nel 1933-34. Il suo intento è di radicalizzare alcune nozioni della filosofia del pensatore tedesco sulla coscienza trascendentale. Il lavoro sulla fenomenologia proseguirà poi con i suoi studi sull’immaginazione e sull’immaginario.
Differenti sono gli interessi di Sartre, più prettamente filosofici ed il riferimento a Rimbaud si contretizza nel finale dell’opera, solo en passant.
Tuttavia, solo a prima vista. Io credo, infatti, che un legame di analogia ben più profondo possa essere stabilito a partire dalla formula “Io è un altro” tra le posizioni di Sartre e di Rimbaud.
Premetto, in ogni caso, che la riproposizione della formula avviene solo in un punto della “Conclusione” di questo libro e, se consideriamo l’opera nel suo complesso, il riferimento è marginale. L’opera di Sartre, pubblicata nel 1936 nella rivista “Recherches philosophiques”, oltre che segnare il suo esordio filosofico ufficiale, rientra nell’ambito dei suoi studi sulla coscienza trascendentale a partire dalla fenomenologia di Husserl. A La Transcendence de l’Ego deve essere affiancato un altro saggio molto breve, scritto parallelamente, ma pubblicato solo in seguito (nel 1939), vale a dire Une idée fondamentale de la phénoménologie de Husserl: l’intentionnalité.
Entrambi sono il frutto della sua elaborazione personale delle dottrine di Husserl e sono stati scritti durante un viaggio-studio a Berlino nel 1933-34. Il suo intento è di radicalizzare alcune nozioni della filosofia del pensatore tedesco sulla coscienza trascendentale. Il lavoro sulla fenomenologia proseguirà poi con i suoi studi sull’immaginazione e sull’immaginario.
Differenti sono gli interessi di Sartre, più prettamente filosofici ed il riferimento a Rimbaud si contretizza nel finale dell’opera, solo en passant.
Tuttavia, solo a prima vista. Io credo, infatti, che un legame di analogia ben più profondo possa essere stabilito a partire dalla formula “Io è un altro” tra le posizioni di Sartre e di Rimbaud.
Il punto di partenza di questi due scritti di Sartre è il cogito preriflessivo, un assoluto non sostanziale, che è cogito,
coscienza, ma non è riflessivo, è pre-riflessivo: precede letteralmente
la riflessione, vale a dire non pone teticamente sé stesso. Come
scriverà poi Sartre con una invenzione grafica efficace ne L’être et le néant questo tipo di cogito
è coscienza di qualche cosa, un oggetto nel mondo, ad esempio la penna,
il tavolo, e coscienza (di) sé. Il tra parentesi nel “(di) sé” sta a
significare che il cogito non pone ancora sé stesso come
oggetto, ma che è consapevole di sé nel momento in cui è cosciente di
qualche cosa (un oggetto nel mondo) senza porsi teticamente.
Questo tipo di coscienza è senza Io: non ne ha alcun bisogno infatti per porsi in quanto tale, vale a dire come coscienza del mondo e come come coscienza (di) sé. L’Io si costituisce solo in seconda istanza.
Sartre ne La Transcendence de l’Ego, come dice il titolo stesso dell’opera, vuole dimostrare «l’Ego non è né formalmente, né materialmente nella coscienza: è fuori, nel mondo; è un essere del mondo come l’Ego dell’altro» (J.-P. Sartre, La Trascendenza dell’Ego, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2011, p. 26).
L’Ego pertanto è trascendente la coscienza e per questo motivo si può attuare l’epoché, la sospensione del giudizio, nei suoi confronti, così come Husserl la attua per gli altri oggetti del mondo. L’Ego, infatti, pur essendo reale e non ipotetico, come ogni cosa che trascenda la coscienza è incerto e può essere revocato in dubbio. Come abbiamo già accennato, in seguito alla messa tra parentesi del mondo e dell’Ego, pertanto, rimane come assolutamente primo ed indubitabile il cogito preriflessivo o irriflesso, che è coscienza posizionale dell’oggetto e coscienza non posizionale (non tetica) di sé. Sartre fa una importante precisazione: la coscienza preriflessiva ed assoluta, essendo senza Io, è una coscienza impersonale.
«Possiamo dunque formulare la nostra tesi: la coscienza trascendentale è una spontaneità impersonale. Essa si determina all’esistenza di ogni istante, senza che si possa concepire niente prima di essa. Ogni istante della nostra vita cosciente ci rivela quindi una creazione ex nihilo» (Ibidem, p. 90).
L’Ego (in questa nozione rientrano, nonostante le debite distinzioni, anche il Cogito di Cartesio, l’Io penso di Kant ed il Me degli psicologi) compare solo al livello della riflessione impura (che Sartre distingue da quella pura), come qualcosa di costituito, come la totalità concreta degli stati psichici e delle azioni di cui è supporto; compare come il risultato di una operazione riflessiva, dunque come una coscienza di secondo grado, essendo la coscienza impersonale una coscienza di primo grado. In tal modo, l’Ego è un esistente trascendente la coscienza e viene colto con una intuizione inadeguata. Ecco perché può essere revocato in dubbio e sottoposto ad epoché.
La riflessione impura si compone di due elementi: la coscienza riflettente e quella riflessa e si concretizza nel dirigersi da parte della coscienza riflettente su quella riflessa. La coscienza riflettente è a sua volta irriflessa, senza Io. L’Ego compare pertanto solo dietro la coscienza riflessa attraverso un atto irriflesso di riflessione senza Io (di una coscienza riflettente) che si dirige su di essa. È, dunque, la coscienza irriflessa impersonale che nella sua unità immediata rende possibile l’Ego e non viceversa. Da qui risulta con tutta evidenza che l’Ego e l’Io penso riguardano solo uno dei modi, quello riflessivo-conoscitivo, di questa coscienza trascendentale.
Espellendo l’Ego dalla coscienza, Sartre compie una purificazione del campo trascendentale, poiché nulla è più in esso, ma nondimeno esso rende possibile tutto, tutto si dà ad esso.
Per questo, secondo Sartre, la posizione di Husserl, nel passaggio dalle Logische Untersuchungen a Ideen, I e Cartesianische Meditationen, è scivolata verso l’idealismo ed il solipsismo, perché ha introdotto un Io trascendentale nella coscienza con la funzione di dare unità ai vissuti della coscienza. Per Sartre questa introduzione dell’Io nella coscienza come suo elemento costitutivo è non solo inutile, ma anche nociva, perché infiltra nella trasparenza o traslucidità della coscienza un nucleo d’opacità inintellegibile. Con questa operazione, inoltre, Husserl non sarebbe coerente con l’intuizione fondamentale dell’intenzionalità della coscienza; la coscienza intenzionale non ha affatto bisogno per Sartre d’un Io trascendentale, perché è già di per sé un’unità immediata.
Veniamo dunque al punto in cui Sartre richiama direttamente a Rimbaud:
«L’atteggiamento riflessivo è espresso correttamente da questa famosa frase di Rimbaud (nella Lettera di un veggente): “Io è un altro”. Il contesto prova che egli ha voluto dire che la spontaneità delle coscienze non potrebbe emanare da un Io, essa va verso l’Io, lo raggiunge, lo lascia intravedere sotto il suo limpido spessore, ma si dà in primo luogo come spontaneità individuata e impersonale. La tesi comunemente accettata, secondo la quale i nostri pensieri scaturirebbero da un inconscio impersonale e si “personalizzarebbero” divenendo coscienti, ci sembra una interpretazione grossolana e materialista di una intuizione giusta. Essa è stata sostenuta da alcuni psicologi che avevano compreso molto bene che la coscienza non “usciva” dall’Io, ma che non potevano accettare l’idea di una spontaneità autoproducentesi» (Ibidem, pp. 89-90).
Analogamente a quanto espresso dalla poetica di Rimbaud, qui la coscienza assume le caratteristiche di un flusso impersonale che pone capo all’Io. Ma l’Io non appare più certo dell’Io di un altro, forse solo più intimo: ecco perché può essere considerato “un altro”.
Al di là delle importanti implicazioni teoretiche e della vicinanza da questo punto di vista dei due autori non è da trascurare un’altra analogia fondamentale: La Transcendence de l’Ego di Sartre non è soltanto una fine disquisizione teoretica in ambito fenomenologico, ma è anche un’opera che nasce da esigenze più profonde di tipo morale e politico. Non dimentichiamo che è stata scritta in un periodo tragico con l’Europa scossa dalle tensioni create dall’ascesa al potere del fascismo e del nazismo e che è animata dalla volontà da parte di Sartre di trovare una via d’uscita per il pensiero dalle secche dell’idealismo solipsistico e del materialismo metafisico. Per Sartre la fenomenologia è più che una semplice dottrina filosofica, è la soluzione per un realismo non più dogmatico, è il punto di partenza per una filosofia morale e per una praxis. Ecco perché egli intende difendere la fenomenologia dalle accuse, soprattutto dei teorici di estrema sinistra, di essere un idealismo; per Sartre invece «erano secoli che non si era sentita nella filosofia una corrente così realista» (Ibidem, p. 97).
Le parole conclusive dell’opera confermano l’esigenza di fondo che muove tutto il discorso: «Questa coscienza assoluta, quando è purificata dall’Io, non ha più niente di un soggetto, non è nemmeno una collezione di rappresentazioni: è semplicemente una condizione prima ed una sorgente assoluta di esistenza. (…) Non occorre altro per fondare una morale e una politica assolutamente positive» (Ibidem, p. 98).
Che questa sia una delle preoccupazioni più urgenti per Sartre risulta anche evidente nell’altro scritto al centro dei nostri interessi: Une idée fondamentale de la phénoménologie de Husserl: l’intentionnalité. Si tratta di un saggio molto breve, di poche pagine, ma assai importante a livello teorico. Come suggerisce il titolo dell’opera Sartre analizza il concetto di intenzionalità, un’idea essenziale della fenomenologia di Husserl. Anche qui è lampante come il filosofo francese prenda a prestito una nozione del suo maestro per poi radicalizzarla ed interpretarla in modo nuovo.
Per la nozione di intenzionalità ogni coscienza è sempre “coscienza di” qualche cosa e, pertanto, mondo e coscienza sono dati nello stesso momento. La coscienza, inoltre, non è più nulla in sé; l’oggetto non è più contenuto nella coscienza in alcun modo (neanche a titolo di rappresentazione), le cose sono fuori dalla coscienza ed essa diventa un assoluto non sostanziale.
E’ interessante l’immagine che Sartre usa per meglio simbolizzare la coscienza: l’esplosione; la coscienza è “esplodere verso” (s’éclater vers), una trascendenza che ci getta «sulla strada maestra, in mezzo alle minacce, sotto una luce accecante. Esistere, dice Heidegger, è essere-nel-mondo. Questo “essere-nel-mondo” va inteso in senso dinamico. Essere è esplodere nel mondo, è partire da un nulla di mondo e di coscienza per esplodere-come-coscienza-nel-mondo d’improvviso (…). Husserl chiama “intenzionalità” questa necessità della coscienza di esistere come coscienza d’altro da sé» (J.-P. Sartre, Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità, in Idem, Materialismo e rivoluzione, Il Saggiatore, Milano 1977, p. 141).
Anche la dottrina dell’intenzionalità era stata per Sartre una scoperta fondamentale, poiché gli aveva permesso di superare contemporaneamente realismo ed idealismo (quelle che chiama filosofie “alimentari”, in cui conoscere è mangiare: o il soggetto assorbe l’oggetto o l’oggetto il soggetto).
Dalla lettura di queste pagine si evince che Sartre è spinto soprattutto da una necessità profonda: il superamento delle dottrine filosofiche idealiste in voga nell’insegnamento del tempo (sono citati in particolare Brunschvig, Lalande e Meyerson). In esse ogni cosa veniva diluita nel soggetto, nello spirito, tutto diventava contenuto di coscienza: «I possenti spigoli del mondo venivano corrosi da queste diligenti diastasi: assimilazione, unificazione, identificazione. Invano i più rudi tra noi, i più semplici, cercavano qualcosa di solido, qualcosa che non fosse lo spirito; dappertutto non incontravano che una nebbia soffice e raffinata: se stessi» (Ibidem, p. 139).
L’intenzionalità è ciò che permette di ridare al mondo il suo peso e la sua concretezza.
Leggiamo, a questo proposito, con quale entusiasmo e con quale radicalità Sartre conclude il saggio:
«Eccoci liberati da Proust. Liberati, nello stesso tempo, dalla “vita interiore”: invano cercheremmo, come Amiel, come un bambino che s’abbracci le spalle, i crogiolamenti, le lusinghe della nostra intimità, perché finalmente tutto è fuori, tutto! persino noi stessi: fuori, nel mondo, tra gli altri. Non in un ipotetico rifugio scopriremo noi stessi: ma per la strada, per la città, in mezzo alla folla, cosa tra le cose, uomo tra gli uomini» (Ibidem, pp. 140-141).
In queste affermazioni ci sembra di sentire, anche nello stile sferzante, un’eco del disprezzo di Rimbaud per ogni ripiegarsi su di sé, per ogni soggettivismo, solipsismo e spiritualismo.
Nel concetto di intenzionalità, dunque, definita come trascendenza ed interpretata come un “esplodere verso”, si conferma quanto già detto: la coscienza non è nulla in-sé, ma flusso, un movimento, una spontaneità individuata ed impersonale, che non esce da un Io, in quanto tutto è fuori nel mondo, tra gli altri.
Crediamo di aver dimostrato come ci sia un profondo legame tra le due posizioni, che la ripresa della formula di Rimbaud “Io è un altro” da parte di Sartre, al di là di tutte le differenze terminologiche, avvenga su un substrato di profonda analogia.
Questo tipo di coscienza è senza Io: non ne ha alcun bisogno infatti per porsi in quanto tale, vale a dire come coscienza del mondo e come come coscienza (di) sé. L’Io si costituisce solo in seconda istanza.
Sartre ne La Transcendence de l’Ego, come dice il titolo stesso dell’opera, vuole dimostrare «l’Ego non è né formalmente, né materialmente nella coscienza: è fuori, nel mondo; è un essere del mondo come l’Ego dell’altro» (J.-P. Sartre, La Trascendenza dell’Ego, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2011, p. 26).
L’Ego pertanto è trascendente la coscienza e per questo motivo si può attuare l’epoché, la sospensione del giudizio, nei suoi confronti, così come Husserl la attua per gli altri oggetti del mondo. L’Ego, infatti, pur essendo reale e non ipotetico, come ogni cosa che trascenda la coscienza è incerto e può essere revocato in dubbio. Come abbiamo già accennato, in seguito alla messa tra parentesi del mondo e dell’Ego, pertanto, rimane come assolutamente primo ed indubitabile il cogito preriflessivo o irriflesso, che è coscienza posizionale dell’oggetto e coscienza non posizionale (non tetica) di sé. Sartre fa una importante precisazione: la coscienza preriflessiva ed assoluta, essendo senza Io, è una coscienza impersonale.
«Possiamo dunque formulare la nostra tesi: la coscienza trascendentale è una spontaneità impersonale. Essa si determina all’esistenza di ogni istante, senza che si possa concepire niente prima di essa. Ogni istante della nostra vita cosciente ci rivela quindi una creazione ex nihilo» (Ibidem, p. 90).
L’Ego (in questa nozione rientrano, nonostante le debite distinzioni, anche il Cogito di Cartesio, l’Io penso di Kant ed il Me degli psicologi) compare solo al livello della riflessione impura (che Sartre distingue da quella pura), come qualcosa di costituito, come la totalità concreta degli stati psichici e delle azioni di cui è supporto; compare come il risultato di una operazione riflessiva, dunque come una coscienza di secondo grado, essendo la coscienza impersonale una coscienza di primo grado. In tal modo, l’Ego è un esistente trascendente la coscienza e viene colto con una intuizione inadeguata. Ecco perché può essere revocato in dubbio e sottoposto ad epoché.
La riflessione impura si compone di due elementi: la coscienza riflettente e quella riflessa e si concretizza nel dirigersi da parte della coscienza riflettente su quella riflessa. La coscienza riflettente è a sua volta irriflessa, senza Io. L’Ego compare pertanto solo dietro la coscienza riflessa attraverso un atto irriflesso di riflessione senza Io (di una coscienza riflettente) che si dirige su di essa. È, dunque, la coscienza irriflessa impersonale che nella sua unità immediata rende possibile l’Ego e non viceversa. Da qui risulta con tutta evidenza che l’Ego e l’Io penso riguardano solo uno dei modi, quello riflessivo-conoscitivo, di questa coscienza trascendentale.
Espellendo l’Ego dalla coscienza, Sartre compie una purificazione del campo trascendentale, poiché nulla è più in esso, ma nondimeno esso rende possibile tutto, tutto si dà ad esso.
Per questo, secondo Sartre, la posizione di Husserl, nel passaggio dalle Logische Untersuchungen a Ideen, I e Cartesianische Meditationen, è scivolata verso l’idealismo ed il solipsismo, perché ha introdotto un Io trascendentale nella coscienza con la funzione di dare unità ai vissuti della coscienza. Per Sartre questa introduzione dell’Io nella coscienza come suo elemento costitutivo è non solo inutile, ma anche nociva, perché infiltra nella trasparenza o traslucidità della coscienza un nucleo d’opacità inintellegibile. Con questa operazione, inoltre, Husserl non sarebbe coerente con l’intuizione fondamentale dell’intenzionalità della coscienza; la coscienza intenzionale non ha affatto bisogno per Sartre d’un Io trascendentale, perché è già di per sé un’unità immediata.
Veniamo dunque al punto in cui Sartre richiama direttamente a Rimbaud:
«L’atteggiamento riflessivo è espresso correttamente da questa famosa frase di Rimbaud (nella Lettera di un veggente): “Io è un altro”. Il contesto prova che egli ha voluto dire che la spontaneità delle coscienze non potrebbe emanare da un Io, essa va verso l’Io, lo raggiunge, lo lascia intravedere sotto il suo limpido spessore, ma si dà in primo luogo come spontaneità individuata e impersonale. La tesi comunemente accettata, secondo la quale i nostri pensieri scaturirebbero da un inconscio impersonale e si “personalizzarebbero” divenendo coscienti, ci sembra una interpretazione grossolana e materialista di una intuizione giusta. Essa è stata sostenuta da alcuni psicologi che avevano compreso molto bene che la coscienza non “usciva” dall’Io, ma che non potevano accettare l’idea di una spontaneità autoproducentesi» (Ibidem, pp. 89-90).
Analogamente a quanto espresso dalla poetica di Rimbaud, qui la coscienza assume le caratteristiche di un flusso impersonale che pone capo all’Io. Ma l’Io non appare più certo dell’Io di un altro, forse solo più intimo: ecco perché può essere considerato “un altro”.
Al di là delle importanti implicazioni teoretiche e della vicinanza da questo punto di vista dei due autori non è da trascurare un’altra analogia fondamentale: La Transcendence de l’Ego di Sartre non è soltanto una fine disquisizione teoretica in ambito fenomenologico, ma è anche un’opera che nasce da esigenze più profonde di tipo morale e politico. Non dimentichiamo che è stata scritta in un periodo tragico con l’Europa scossa dalle tensioni create dall’ascesa al potere del fascismo e del nazismo e che è animata dalla volontà da parte di Sartre di trovare una via d’uscita per il pensiero dalle secche dell’idealismo solipsistico e del materialismo metafisico. Per Sartre la fenomenologia è più che una semplice dottrina filosofica, è la soluzione per un realismo non più dogmatico, è il punto di partenza per una filosofia morale e per una praxis. Ecco perché egli intende difendere la fenomenologia dalle accuse, soprattutto dei teorici di estrema sinistra, di essere un idealismo; per Sartre invece «erano secoli che non si era sentita nella filosofia una corrente così realista» (Ibidem, p. 97).
Le parole conclusive dell’opera confermano l’esigenza di fondo che muove tutto il discorso: «Questa coscienza assoluta, quando è purificata dall’Io, non ha più niente di un soggetto, non è nemmeno una collezione di rappresentazioni: è semplicemente una condizione prima ed una sorgente assoluta di esistenza. (…) Non occorre altro per fondare una morale e una politica assolutamente positive» (Ibidem, p. 98).
Che questa sia una delle preoccupazioni più urgenti per Sartre risulta anche evidente nell’altro scritto al centro dei nostri interessi: Une idée fondamentale de la phénoménologie de Husserl: l’intentionnalité. Si tratta di un saggio molto breve, di poche pagine, ma assai importante a livello teorico. Come suggerisce il titolo dell’opera Sartre analizza il concetto di intenzionalità, un’idea essenziale della fenomenologia di Husserl. Anche qui è lampante come il filosofo francese prenda a prestito una nozione del suo maestro per poi radicalizzarla ed interpretarla in modo nuovo.
Per la nozione di intenzionalità ogni coscienza è sempre “coscienza di” qualche cosa e, pertanto, mondo e coscienza sono dati nello stesso momento. La coscienza, inoltre, non è più nulla in sé; l’oggetto non è più contenuto nella coscienza in alcun modo (neanche a titolo di rappresentazione), le cose sono fuori dalla coscienza ed essa diventa un assoluto non sostanziale.
E’ interessante l’immagine che Sartre usa per meglio simbolizzare la coscienza: l’esplosione; la coscienza è “esplodere verso” (s’éclater vers), una trascendenza che ci getta «sulla strada maestra, in mezzo alle minacce, sotto una luce accecante. Esistere, dice Heidegger, è essere-nel-mondo. Questo “essere-nel-mondo” va inteso in senso dinamico. Essere è esplodere nel mondo, è partire da un nulla di mondo e di coscienza per esplodere-come-coscienza-nel-mondo d’improvviso (…). Husserl chiama “intenzionalità” questa necessità della coscienza di esistere come coscienza d’altro da sé» (J.-P. Sartre, Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità, in Idem, Materialismo e rivoluzione, Il Saggiatore, Milano 1977, p. 141).
Anche la dottrina dell’intenzionalità era stata per Sartre una scoperta fondamentale, poiché gli aveva permesso di superare contemporaneamente realismo ed idealismo (quelle che chiama filosofie “alimentari”, in cui conoscere è mangiare: o il soggetto assorbe l’oggetto o l’oggetto il soggetto).
Dalla lettura di queste pagine si evince che Sartre è spinto soprattutto da una necessità profonda: il superamento delle dottrine filosofiche idealiste in voga nell’insegnamento del tempo (sono citati in particolare Brunschvig, Lalande e Meyerson). In esse ogni cosa veniva diluita nel soggetto, nello spirito, tutto diventava contenuto di coscienza: «I possenti spigoli del mondo venivano corrosi da queste diligenti diastasi: assimilazione, unificazione, identificazione. Invano i più rudi tra noi, i più semplici, cercavano qualcosa di solido, qualcosa che non fosse lo spirito; dappertutto non incontravano che una nebbia soffice e raffinata: se stessi» (Ibidem, p. 139).
L’intenzionalità è ciò che permette di ridare al mondo il suo peso e la sua concretezza.
Leggiamo, a questo proposito, con quale entusiasmo e con quale radicalità Sartre conclude il saggio:
«Eccoci liberati da Proust. Liberati, nello stesso tempo, dalla “vita interiore”: invano cercheremmo, come Amiel, come un bambino che s’abbracci le spalle, i crogiolamenti, le lusinghe della nostra intimità, perché finalmente tutto è fuori, tutto! persino noi stessi: fuori, nel mondo, tra gli altri. Non in un ipotetico rifugio scopriremo noi stessi: ma per la strada, per la città, in mezzo alla folla, cosa tra le cose, uomo tra gli uomini» (Ibidem, pp. 140-141).
In queste affermazioni ci sembra di sentire, anche nello stile sferzante, un’eco del disprezzo di Rimbaud per ogni ripiegarsi su di sé, per ogni soggettivismo, solipsismo e spiritualismo.
Nel concetto di intenzionalità, dunque, definita come trascendenza ed interpretata come un “esplodere verso”, si conferma quanto già detto: la coscienza non è nulla in-sé, ma flusso, un movimento, una spontaneità individuata ed impersonale, che non esce da un Io, in quanto tutto è fuori nel mondo, tra gli altri.
Crediamo di aver dimostrato come ci sia un profondo legame tra le due posizioni, che la ripresa della formula di Rimbaud “Io è un altro” da parte di Sartre, al di là di tutte le differenze terminologiche, avvenga su un substrato di profonda analogia.
Possiamo sintetizzare la consonanza, la prossimità, dei pensieri nei seguenti punti:
1. Esigenza pratica e realismo.
Il pensiero filosofico del primo Sartre e la poetica di Rimbaud hanno alla base un’esigenza essenzialmente morale che nasce come reazione alla contingenza degli avvenimenti storici e politici riguardanti la loro epoca. La preoccupazione di Sartre è di «fondare una politica e morale assolutamente positive»; Rimbaud avverte l’urgenza dell’impegno concreto e parla della poesia in rapporto all’azione.
Il pensiero filosofico del primo Sartre e la poetica di Rimbaud hanno alla base un’esigenza essenzialmente morale che nasce come reazione alla contingenza degli avvenimenti storici e politici riguardanti la loro epoca. La preoccupazione di Sartre è di «fondare una politica e morale assolutamente positive»; Rimbaud avverte l’urgenza dell’impegno concreto e parla della poesia in rapporto all’azione.
2. Critica dell’idealismo e di ogni sapere riconducibile all’Io come fondamento.
In entrambi avvertiamo la stessa insofferenza verso ogni forma di ripiegamento su di sé, di ogni assolutizzazione della vita interiore (o vita intima), lo stesso auspicio per un pensiero che esca da sé per essere-nel-mondo, che non sia mero rispecchiamento (rappresentazione) del mondo, o contemplazione che riduce lo spessore del mondo alla conoscenza che il soggetto ne ha, che riduce tutto a contenuto di coscienza, ma che sia prima di tutto azione e che “sia già mondo”, vale a dire che sia già presso le cose e le persone nel mondo, prima di essere in sé. Ciò è una diretta conseguenza dell’esigenza acclarata al punto precedente.
In entrambi avvertiamo la stessa insofferenza verso ogni forma di ripiegamento su di sé, di ogni assolutizzazione della vita interiore (o vita intima), lo stesso auspicio per un pensiero che esca da sé per essere-nel-mondo, che non sia mero rispecchiamento (rappresentazione) del mondo, o contemplazione che riduce lo spessore del mondo alla conoscenza che il soggetto ne ha, che riduce tutto a contenuto di coscienza, ma che sia prima di tutto azione e che “sia già mondo”, vale a dire che sia già presso le cose e le persone nel mondo, prima di essere in sé. Ciò è una diretta conseguenza dell’esigenza acclarata al punto precedente.
3. Riduzione dell’Io ad oggetto.
La spinta ideale che li muove, infine, ha come esito comune la ricerca di un fondamento posto prima o su un altro piano rispetto all’Io. Ecco che a questo punto, sia in Rimbaud che in Sartre l’Io diventa un oggetto, non è più un soggetto, è come uno straniero rispetto ai territori in cui abitano i pensieri. Al soggetto viene sostituito un che di impersonale, un flusso, una creazione dal nulla. La formula “Io è un altro” è prima di tutto la spiegazione di questo fatto: il soggetto è altro da sé ed è alienato quando cerca di porsi come in-sé e il fondamento va cercato in qualcosa di posto prima, non in senso temporale, ma logico.
La spinta ideale che li muove, infine, ha come esito comune la ricerca di un fondamento posto prima o su un altro piano rispetto all’Io. Ecco che a questo punto, sia in Rimbaud che in Sartre l’Io diventa un oggetto, non è più un soggetto, è come uno straniero rispetto ai territori in cui abitano i pensieri. Al soggetto viene sostituito un che di impersonale, un flusso, una creazione dal nulla. La formula “Io è un altro” è prima di tutto la spiegazione di questo fatto: il soggetto è altro da sé ed è alienato quando cerca di porsi come in-sé e il fondamento va cercato in qualcosa di posto prima, non in senso temporale, ma logico.
Se l’Io è trascendente, se l’Io è un oggetto opaco, chi o cosa è originario?
Su questo punto l’analisi precedente rende palpabile una differenza, apparentemente incolmabile, tra i due autori: in Sartre originario è il cogito pre-riflessivo, in Rimbaud l’ignoto. Da un lato, come abbiamo visto, la coscienza perfettamente trasparente, traslucida, in cui essere e apparire fanno tutt’uno, dall’altro lato, l’ignoto che sembra in un certo senso caratterizzarsi come ineffabile, inaccessibile ai normali mezzi di conoscenza; da una parte, in Sartre, l’esperienza comune dell’essere coscienti di sé essendo coscienti del mondo, certo non raggiungibile nella sua certezza se non attraverso l’epoché, ma comunque – potenzialmente – alla portata di tutti; dall’altra parte, in Rimbaud, una regione “a venire” che sembra richiedere particolari requisiti, non accessibile a tutti: per poterne accogliere le “illuminazioni” il poeta deve farsi Veggente, attraverso lo sregolarsi di tutti i sensi.
Tale importante discrasia a proposito dell’originario potrebbe suonare come un’obiezione a quanto detto fino a qui. Non volendo minimamente sminuire o cancellare questa difficoltà, credo che solo in apparenza il punto a cui approdano Sartre e Rimbaud sia antitetico e perciò che il contrasto tra le loro concezioni, pur presente e non eliminabile, possa essere sfumato.
Per prima cosa rimarco come questa differenza sia anche conseguenza di uno iato tra sensibilità differenti e diverse tonalità di stile: la concezione di Sartre appare sicuramente più razionalista, quella di Rimbaud più mistica. In fondo, la distanza tra i due autori in termini di linguaggio e di modalità creative, può indurci a scambiare espressioni formali differenti per diversità sostanziali, quando, per lo più, la loro proposta teorica è univoca pur se pronunciata con termini dissimili.
Aggiungo il fatto che quando Rimbaud utilizza la formula “Io è un altro” per esprimere l’alienazione dell’Io deve, per forza di cose, posizionarsi in un punto di vista che definirei di consapevolezza: solo chi è consapevole di sé, cosciente pertanto, può smascherare l’incoscienza dell’Io che crede di essere in-sé mentre è altro da sé. Che questa coscienza sia poi il viatico per illuminazioni provenienti dall’ignoto evocate da parte del poeta con i poteri acquisiti dallo sregolamento dei sensi, che poi l’ignoto si ponga, pertanto, come qualcosa di trascendente rispetto alla consapevolezza raggiunta, di trascendente la coscienza (essendo l’ignoto propriamente l’al-di-là di ciò che è noto e cosciente), è un passo successivo rispetto a ciò che possiamo considerare il dato primo ed indubitabile: la coscienza. Passo essenziale in Rimbaud, ma, ripeto, successivo.
L’originario in Rimbaud è consapevole apertura all’ignoto; vi è, in questa consapevolezza, un elemento essenziale: il passaggio dall’individuo, inteso come soggetto chiuso narcisisticamente in sé (l’Io), all’impersonale flusso caotico dei pensieri del veggente-poeta. Ciò ha come conseguenza benefica di portare alla luce zone d’ignoto. Questa azione di svelamento dell’ignoto, dunque, non può che avvenire sulla base di una coscienza di sé (affatto differente dall’Io).
D’altro canto, domando: la coscienza sartriana è davvero totalmente trasparente a sé stessa, è davvero traslucida? O rimane sottaciuto un nucleo opaco, non riducibile all’identità tra essere ed apparire propria della coscienza irriflessa (identità affermata in modo perentorio in questi scritti dal filosofo francese)?
Nella prefazione all’edizione italiana a cui qui si è fatto riferimento de La Transcendence de l’Ego, il curatore Rocco Ronchi fa un’acuta osservazione a proposito della coscienza pre-riflessiva: mostra come Sartre per descrivere questa forma paradossale di coscienza che è mediazione immediata ricorra a parafrasi e a procedimento apofatici (Cfr. J.-P. Sartre, La Trascendenza dell’Ego, cit. p. 17). La coscienza, infatti, a tratti sembra serbare in sé, contenere, qualche cosa di ineffabile, inaccessibile, che si sottrae alla trasparenza e pertanto ignoto: Sartre per dirci ciò che essa è, utilizza spesso parafrasi, immagini, trovate grafiche e linguistiche, ad esempio “coscienza (di) sé”, espressioni contraddittorie quali: “atto irriflesso di riflessione”, o la descrive in modo negativo, dicendoci cosa essa non è.
Ronchi aggiunge significativamente che «tali espressioni descrivono nei termini del costituito il costituente. Il costituito è la correlazione Io-mondo, il nesso soggetto-oggetto. Il costituente è l’evento di quella correlazione, ma che non può essere detto come correlazione (di qui appunto l’apofatismo). Facile di fronte a queste costruzioni linguistiche è vestire i panni del critico severo e smontare il giocattolo sartriano mostrandone tutta la contradditorietà. Più difficile è accettare la sua sfida e procedere nella direzione di un Assoluto indecostruibile come solo fondamento di un materialismo altrettanto assoluto» (Ivi).
Contrariamente a quanto affermato in più passi dallo stesso Sartre, in fin dei conti, la spontaneità impersonale autoproducentesi, la coscienza sartriana, già nella sua stessa descrizione e definizione non sembra essere affatto trasparente a sé, o meglio pur ponendosi come trasparente sembra contenere in sé qualche cosa di opaco che sfugge all’identità di essere ed apparire. Nell’essere cosciente (di) sé la coscienza non posizionale sembra scaturire da un al-di-là del rapporto soggetto-oggetto, un assoluto indecostruibile appunto, un evento, che tuttavia non è dicibile e pensabile chiaramente.
Ciò che abbiamo notato, pertanto, è che ci troviamo di fronte ad un problema di espressione a proposito dell’originario: il linguaggio impedisce di dire e rappresentare in modo univoco e preciso il “luogo” che precede la correlazione soggetto-oggetto e che viene individuato dopo la riduzione dell’Io all’altro.
Esso è dicibile, rappresentabile, pensabile o ineffabile, indicibile? E’ parola o silenzio? E’ trasparente a sé o opaco? Coscienza assoluta o ignoto che viene alla luce? Oppure entrambe le cose insieme? E ancora: è davvero qualcosa, un oggetto?
Per il momento sospendo le domande e affermo che non occorrono altre precisazioni per comprendere come il “luogo” indicato da Sartre e da Rimbaud sia il medesimo. Tuttavia, è nella natura stessa dell’originario di essere ambiguo ed aperto a differenti espressioni.
Misticismo e razionalismo sono sfumature che nascono da modi differenti di abitare l’apertura dell’originario.
Su questo punto l’analisi precedente rende palpabile una differenza, apparentemente incolmabile, tra i due autori: in Sartre originario è il cogito pre-riflessivo, in Rimbaud l’ignoto. Da un lato, come abbiamo visto, la coscienza perfettamente trasparente, traslucida, in cui essere e apparire fanno tutt’uno, dall’altro lato, l’ignoto che sembra in un certo senso caratterizzarsi come ineffabile, inaccessibile ai normali mezzi di conoscenza; da una parte, in Sartre, l’esperienza comune dell’essere coscienti di sé essendo coscienti del mondo, certo non raggiungibile nella sua certezza se non attraverso l’epoché, ma comunque – potenzialmente – alla portata di tutti; dall’altra parte, in Rimbaud, una regione “a venire” che sembra richiedere particolari requisiti, non accessibile a tutti: per poterne accogliere le “illuminazioni” il poeta deve farsi Veggente, attraverso lo sregolarsi di tutti i sensi.
Tale importante discrasia a proposito dell’originario potrebbe suonare come un’obiezione a quanto detto fino a qui. Non volendo minimamente sminuire o cancellare questa difficoltà, credo che solo in apparenza il punto a cui approdano Sartre e Rimbaud sia antitetico e perciò che il contrasto tra le loro concezioni, pur presente e non eliminabile, possa essere sfumato.
Per prima cosa rimarco come questa differenza sia anche conseguenza di uno iato tra sensibilità differenti e diverse tonalità di stile: la concezione di Sartre appare sicuramente più razionalista, quella di Rimbaud più mistica. In fondo, la distanza tra i due autori in termini di linguaggio e di modalità creative, può indurci a scambiare espressioni formali differenti per diversità sostanziali, quando, per lo più, la loro proposta teorica è univoca pur se pronunciata con termini dissimili.
Aggiungo il fatto che quando Rimbaud utilizza la formula “Io è un altro” per esprimere l’alienazione dell’Io deve, per forza di cose, posizionarsi in un punto di vista che definirei di consapevolezza: solo chi è consapevole di sé, cosciente pertanto, può smascherare l’incoscienza dell’Io che crede di essere in-sé mentre è altro da sé. Che questa coscienza sia poi il viatico per illuminazioni provenienti dall’ignoto evocate da parte del poeta con i poteri acquisiti dallo sregolamento dei sensi, che poi l’ignoto si ponga, pertanto, come qualcosa di trascendente rispetto alla consapevolezza raggiunta, di trascendente la coscienza (essendo l’ignoto propriamente l’al-di-là di ciò che è noto e cosciente), è un passo successivo rispetto a ciò che possiamo considerare il dato primo ed indubitabile: la coscienza. Passo essenziale in Rimbaud, ma, ripeto, successivo.
L’originario in Rimbaud è consapevole apertura all’ignoto; vi è, in questa consapevolezza, un elemento essenziale: il passaggio dall’individuo, inteso come soggetto chiuso narcisisticamente in sé (l’Io), all’impersonale flusso caotico dei pensieri del veggente-poeta. Ciò ha come conseguenza benefica di portare alla luce zone d’ignoto. Questa azione di svelamento dell’ignoto, dunque, non può che avvenire sulla base di una coscienza di sé (affatto differente dall’Io).
D’altro canto, domando: la coscienza sartriana è davvero totalmente trasparente a sé stessa, è davvero traslucida? O rimane sottaciuto un nucleo opaco, non riducibile all’identità tra essere ed apparire propria della coscienza irriflessa (identità affermata in modo perentorio in questi scritti dal filosofo francese)?
Nella prefazione all’edizione italiana a cui qui si è fatto riferimento de La Transcendence de l’Ego, il curatore Rocco Ronchi fa un’acuta osservazione a proposito della coscienza pre-riflessiva: mostra come Sartre per descrivere questa forma paradossale di coscienza che è mediazione immediata ricorra a parafrasi e a procedimento apofatici (Cfr. J.-P. Sartre, La Trascendenza dell’Ego, cit. p. 17). La coscienza, infatti, a tratti sembra serbare in sé, contenere, qualche cosa di ineffabile, inaccessibile, che si sottrae alla trasparenza e pertanto ignoto: Sartre per dirci ciò che essa è, utilizza spesso parafrasi, immagini, trovate grafiche e linguistiche, ad esempio “coscienza (di) sé”, espressioni contraddittorie quali: “atto irriflesso di riflessione”, o la descrive in modo negativo, dicendoci cosa essa non è.
Ronchi aggiunge significativamente che «tali espressioni descrivono nei termini del costituito il costituente. Il costituito è la correlazione Io-mondo, il nesso soggetto-oggetto. Il costituente è l’evento di quella correlazione, ma che non può essere detto come correlazione (di qui appunto l’apofatismo). Facile di fronte a queste costruzioni linguistiche è vestire i panni del critico severo e smontare il giocattolo sartriano mostrandone tutta la contradditorietà. Più difficile è accettare la sua sfida e procedere nella direzione di un Assoluto indecostruibile come solo fondamento di un materialismo altrettanto assoluto» (Ivi).
Contrariamente a quanto affermato in più passi dallo stesso Sartre, in fin dei conti, la spontaneità impersonale autoproducentesi, la coscienza sartriana, già nella sua stessa descrizione e definizione non sembra essere affatto trasparente a sé, o meglio pur ponendosi come trasparente sembra contenere in sé qualche cosa di opaco che sfugge all’identità di essere ed apparire. Nell’essere cosciente (di) sé la coscienza non posizionale sembra scaturire da un al-di-là del rapporto soggetto-oggetto, un assoluto indecostruibile appunto, un evento, che tuttavia non è dicibile e pensabile chiaramente.
Ciò che abbiamo notato, pertanto, è che ci troviamo di fronte ad un problema di espressione a proposito dell’originario: il linguaggio impedisce di dire e rappresentare in modo univoco e preciso il “luogo” che precede la correlazione soggetto-oggetto e che viene individuato dopo la riduzione dell’Io all’altro.
Esso è dicibile, rappresentabile, pensabile o ineffabile, indicibile? E’ parola o silenzio? E’ trasparente a sé o opaco? Coscienza assoluta o ignoto che viene alla luce? Oppure entrambe le cose insieme? E ancora: è davvero qualcosa, un oggetto?
Per il momento sospendo le domande e affermo che non occorrono altre precisazioni per comprendere come il “luogo” indicato da Sartre e da Rimbaud sia il medesimo. Tuttavia, è nella natura stessa dell’originario di essere ambiguo ed aperto a differenti espressioni.
Misticismo e razionalismo sono sfumature che nascono da modi differenti di abitare l’apertura dell’originario.
Io è un altro - parte III
di Daniele Baron
3. Immanenza-trascendenza: Divenire
La ricerca precedente ci ha condotto ad
un punto che abbiamo definito provvisoriamente “originario”. Abbiamo
visto che se identica è la sua apertura, la sua intuizione attraverso la
consapevolezza derivante dalla formula “Io è un altro”, differenti sono
i modi di abitarvi.
Di esso, però, abbiamo potuto dire poco, sembrando essere pensiero ed insieme qualcosa che al pensiero sfugge, coscienza ed insieme inconscio, un “luogo” che precede il rapporto soggetto-oggetto, che viene “prima” di ogni distinzione tra enti sul piano oggettivo. Come si vede, quando il linguaggio tenta di riferirsi a quella regione – scoperta intuitivamente da Rimbaud e ricompresa nel cogito da Sartre – è costretto all’imprecisione, attingendo ancora a termini di spazio (“luogo”) e tempo (“prima”), condizioni dell’esperienza sensibile oggettiva. Tuttavia, l’originario non può essere né nello spazio né nel tempo come accade agli oggetti. Per designare “qualcosa” che sfugge allo spazio ed al tempo il linguaggio è costretto, in modo paradossale, a ricorrere proprio a elementi afferenti allo spazio ed al tempo. Si può dire, dunque, che esso può affermare poco, ma quel poco risulta ancora troppo. E’ d’obbligo, infatti, la seguente precauzione: occorre specificare che il luogo non è un “dove” preciso, esula da ogni localizzazione (è pertanto in ultima analisi un “luogo non-luogo”) e precisare anche che il “prima” non va inteso in senso temporale ma semplicemente logico, un prima dunque che è sempre “prima di tutto”, e che a tratti può apparire (in Rimbaud ad esempio) come un “orizzonte”, una regione “a venire”, qualche cosa che sempre si allontana nel futuro a mano a mano che ci avviciniamo e che perciò diventa l’opposto: un “dopo” che è sempre un “oltre”. L’originario appare pertanto atopico ed acronico. E per complicare ancora di più il quadro già intricato, o forse per chiarire da dove nascano tali difficoltà, affermiamo in modo perentorio ancora due cose: in primo luogo, che esso non è affatto qualcosa, una cosa, un che di identico e di unitario, dato come oggetto, ma è ciò che sempre differisce da sé; secondariamente, che già il termine “originario” è fuorviante nella misura in cui fa pensare (per associazione di idee dovute ad una specifica tradizione interpretativa) a qualche cosa come ad un fondamento, una origine o un principio.
Di esso, però, abbiamo potuto dire poco, sembrando essere pensiero ed insieme qualcosa che al pensiero sfugge, coscienza ed insieme inconscio, un “luogo” che precede il rapporto soggetto-oggetto, che viene “prima” di ogni distinzione tra enti sul piano oggettivo. Come si vede, quando il linguaggio tenta di riferirsi a quella regione – scoperta intuitivamente da Rimbaud e ricompresa nel cogito da Sartre – è costretto all’imprecisione, attingendo ancora a termini di spazio (“luogo”) e tempo (“prima”), condizioni dell’esperienza sensibile oggettiva. Tuttavia, l’originario non può essere né nello spazio né nel tempo come accade agli oggetti. Per designare “qualcosa” che sfugge allo spazio ed al tempo il linguaggio è costretto, in modo paradossale, a ricorrere proprio a elementi afferenti allo spazio ed al tempo. Si può dire, dunque, che esso può affermare poco, ma quel poco risulta ancora troppo. E’ d’obbligo, infatti, la seguente precauzione: occorre specificare che il luogo non è un “dove” preciso, esula da ogni localizzazione (è pertanto in ultima analisi un “luogo non-luogo”) e precisare anche che il “prima” non va inteso in senso temporale ma semplicemente logico, un prima dunque che è sempre “prima di tutto”, e che a tratti può apparire (in Rimbaud ad esempio) come un “orizzonte”, una regione “a venire”, qualche cosa che sempre si allontana nel futuro a mano a mano che ci avviciniamo e che perciò diventa l’opposto: un “dopo” che è sempre un “oltre”. L’originario appare pertanto atopico ed acronico. E per complicare ancora di più il quadro già intricato, o forse per chiarire da dove nascano tali difficoltà, affermiamo in modo perentorio ancora due cose: in primo luogo, che esso non è affatto qualcosa, una cosa, un che di identico e di unitario, dato come oggetto, ma è ciò che sempre differisce da sé; secondariamente, che già il termine “originario” è fuorviante nella misura in cui fa pensare (per associazione di idee dovute ad una specifica tradizione interpretativa) a qualche cosa come ad un fondamento, una origine o un principio.
In merito a questa difficoltà propria del
linguaggio in rapporto all’originario (in ragione della quale Rimbaud
reclama la necessità di parlare una nuova lingua, avocando al
poeta-veggente il potere di crearla – ποίησις) penso sia
utile allargare il nostro discorso alla lettura che Heidegger fa delle
due lettere della “Corrispondenza” del poeta francese, alla sua
interpretazione così come risulta dal testo Rimbaud vivant.
Si tratta di uno scritto d’occasione, brevissimo, ma molto significativo. E’ un articolo risalente al 1972 e nasce come risposta alla “inchiesta Rimbaud” proposta da Roger Munier; è stato pubblicato per la prima volta sotto il titolo Aujourd’hui Rimbaud… nel 1976 in “Archives des lettres modernes“. Successivamente è stato inserito, con l’attuale intestazione Rimbaud vivant, nel XIII volume della Heidegger Gesamtausgabe (M. Heidegger, Aus der Erfahrung des Denkes (1910-1976), a cura di H. Heidegger, Klostermann, Frankfurt a. M., 2002, pp. 225-227) e tradotto di recente in italiano nella rivista “Aut Aut” (Cfr. “Aut Aut“, Il Saggiatore, Milano, 2010, n. 345, pp. 209-211).
Per rifarci al titolo: in che senso per Heidegger Rimbaud è oggi vivente? Perché le domande, circa la necessità di farsi veggenti per l’ignoto, che sorgono dalle sue poesie e dalla sua poetica sono ancora le nostre, perché in fondo il suo orizzonte è ancora il nostro.
«Rimbaud resta vivente, se ci poniamo queste domande, se i poeti e i pensatori rimangono colpiti dalla necessità “di farsi veggenti per l’ignoto”» (M. Heidegger, Rimbaud vivant, in “Aut Aut“, cit., p. 211).
L’articolo di Heidegger è, infatti, una lunga serie di domande che rimangono aperte sul significato della poetica di Rimbaud: una specie di ossessivo domandare che fa emergere in controluce gli elementi del pensiero di Rimbaud che per Heidegger sono fondamentali, vale a dire i concetti di azione e di ritmo. Rammentiamo, infatti, che nella “Lettera del Veggente” Rimbaud scrive che mentre presso i greci la poesia ritmava l’azione, oggi la poesia deve essere “in avanti” (en avant) rispetto all’azione stessa.
Per il filosofo tedesco Rimbaud ha il merito di avere messo in luce che il ritmo è il “rapporto”, ossia la prossimità dell’inaccessibile, che lega gli uomini, e che l’azione è il reale nella sua interezza (non un mero produrre o fare, quindi). Rimbaud ha nominato l’originario, lo ha designato come una regione inaccessibile, come ignoto; Heidegger sottolinea la paradossale condizione per cui «questo ignoto può soltanto essere nominato (…) essendo “taciuto”» (Ivi). E aggiunge significativamente: «Può in verità tacere soltanto chi ha da indicare la strada e ha indicato ciò con la forza della parola che è stata a lui conferita. Questo tacere è un’altra cosa rispetto al mero ammutolire. Il suo non-più-parlare è un aver-parlato» (Ivi).
Heidegger conferma quindi l’attualità del messaggio di Rimbaud, sia per la poesia che per il pensiero. In ultima analisi, la sua importanza si condensa nell’asserzione della priorità della poesia (il suo essere en avant) nel mondo moderno, proprio in virtù della sua capacità peculiare e specifica di mettersi in rapporto con l’inaccessibile. Priorità che può essere affermata anche oggi, nella società industriale, nonostante la poesia sembri sopraffatta da ciò che la contraddice («Ma che ne è quindi di questa priorità della poesia nel mondo moderno della società industriale?» [Ibidem, p. 210]).
Heidegger, da ultimo, sottolinea con efficacia l’aporia che il poeta di Charleville ha portato alle estreme conseguenze: aporia che trova espressione proprio nella paradossale condizione di un tacere eloquente nell’indicare la strada, l’orizzonte, di un silenzio che non è ammutolire ma non-più-parlare per aver-parlato all’interno di quell’originario rapporto con l’inaccessibile.
Non bisogna dimenticare tuttavia che Rimbaud annunciava la necessità fondamentale per il poeta di creare una nuova lingua, finalmente libera dagli argini e dalle pastoie della soggettività che è chiusa in sé e del tutto correlata all’oggettività: essendosi accostato all’inaccessibile, avendolo nominato, sentiva la necessità di dargli espressione vera. Rimbaud sapeva che la soggettività, essendo in fin dei conti oggettività, avrebbe mancato l’originario.
Si tratta di uno scritto d’occasione, brevissimo, ma molto significativo. E’ un articolo risalente al 1972 e nasce come risposta alla “inchiesta Rimbaud” proposta da Roger Munier; è stato pubblicato per la prima volta sotto il titolo Aujourd’hui Rimbaud… nel 1976 in “Archives des lettres modernes“. Successivamente è stato inserito, con l’attuale intestazione Rimbaud vivant, nel XIII volume della Heidegger Gesamtausgabe (M. Heidegger, Aus der Erfahrung des Denkes (1910-1976), a cura di H. Heidegger, Klostermann, Frankfurt a. M., 2002, pp. 225-227) e tradotto di recente in italiano nella rivista “Aut Aut” (Cfr. “Aut Aut“, Il Saggiatore, Milano, 2010, n. 345, pp. 209-211).
Per rifarci al titolo: in che senso per Heidegger Rimbaud è oggi vivente? Perché le domande, circa la necessità di farsi veggenti per l’ignoto, che sorgono dalle sue poesie e dalla sua poetica sono ancora le nostre, perché in fondo il suo orizzonte è ancora il nostro.
«Rimbaud resta vivente, se ci poniamo queste domande, se i poeti e i pensatori rimangono colpiti dalla necessità “di farsi veggenti per l’ignoto”» (M. Heidegger, Rimbaud vivant, in “Aut Aut“, cit., p. 211).
L’articolo di Heidegger è, infatti, una lunga serie di domande che rimangono aperte sul significato della poetica di Rimbaud: una specie di ossessivo domandare che fa emergere in controluce gli elementi del pensiero di Rimbaud che per Heidegger sono fondamentali, vale a dire i concetti di azione e di ritmo. Rammentiamo, infatti, che nella “Lettera del Veggente” Rimbaud scrive che mentre presso i greci la poesia ritmava l’azione, oggi la poesia deve essere “in avanti” (en avant) rispetto all’azione stessa.
Per il filosofo tedesco Rimbaud ha il merito di avere messo in luce che il ritmo è il “rapporto”, ossia la prossimità dell’inaccessibile, che lega gli uomini, e che l’azione è il reale nella sua interezza (non un mero produrre o fare, quindi). Rimbaud ha nominato l’originario, lo ha designato come una regione inaccessibile, come ignoto; Heidegger sottolinea la paradossale condizione per cui «questo ignoto può soltanto essere nominato (…) essendo “taciuto”» (Ivi). E aggiunge significativamente: «Può in verità tacere soltanto chi ha da indicare la strada e ha indicato ciò con la forza della parola che è stata a lui conferita. Questo tacere è un’altra cosa rispetto al mero ammutolire. Il suo non-più-parlare è un aver-parlato» (Ivi).
Heidegger conferma quindi l’attualità del messaggio di Rimbaud, sia per la poesia che per il pensiero. In ultima analisi, la sua importanza si condensa nell’asserzione della priorità della poesia (il suo essere en avant) nel mondo moderno, proprio in virtù della sua capacità peculiare e specifica di mettersi in rapporto con l’inaccessibile. Priorità che può essere affermata anche oggi, nella società industriale, nonostante la poesia sembri sopraffatta da ciò che la contraddice («Ma che ne è quindi di questa priorità della poesia nel mondo moderno della società industriale?» [Ibidem, p. 210]).
Heidegger, da ultimo, sottolinea con efficacia l’aporia che il poeta di Charleville ha portato alle estreme conseguenze: aporia che trova espressione proprio nella paradossale condizione di un tacere eloquente nell’indicare la strada, l’orizzonte, di un silenzio che non è ammutolire ma non-più-parlare per aver-parlato all’interno di quell’originario rapporto con l’inaccessibile.
Non bisogna dimenticare tuttavia che Rimbaud annunciava la necessità fondamentale per il poeta di creare una nuova lingua, finalmente libera dagli argini e dalle pastoie della soggettività che è chiusa in sé e del tutto correlata all’oggettività: essendosi accostato all’inaccessibile, avendolo nominato, sentiva la necessità di dargli espressione vera. Rimbaud sapeva che la soggettività, essendo in fin dei conti oggettività, avrebbe mancato l’originario.
Procedendo ora con un’analisi più stretta
della formula “Io è un altro”, ci possiamo domandare se non sia
possibile intendere e dire in modo più preciso l’originario rapporto
che è stato disvelato, senza cadere nelle espressioni improprie
utilizzate fino a qui provvisoriamente ed in mancanza d’altro. Insieme è
importante comprendere se non sia preferibile il silenzio. L’originario
può essere espresso oppure occorre, pur indicando la strada, rimanere
in silenzio, tacere? E’ veramente e definitivamente “inaccessibile”?
Dobbiamo accontentarci dello stupore muto e mistico di fronte
all’ineffabile? Si può parlare propriamente dell’originario?
Rispondo affermativamente a quest’ultimo quesito: a mio avviso è possibile esprimere l’originario senza cadere negli equivoci del linguaggio emersi. Aggiungo che ciò può avvenire solo attraverso l’ontologia. Senza dimenticare il limite invalicabile della nostra conoscenza, senza accantonare il monito della necessità di non superarlo, credo sia possibile, oltre che vitale, per la filosofia imbastire un discorso sul limite intravisto che abbiamo definito “originario”. Bisogna tentare di dare espressione a ciò che precede la distinzione tra soggetto ed oggetto, ricorrendo all’ontologia.
In che senso nella formula “Io è un altro” dell’io viene predicato l’altro? In che modo concepire l’Essere quando si dice che l’Io “è un altro”? Da un punto di vista ontologico, l’Essere in questo caso è il Divenire e non potrebbe essere altrimenti. “Io è un altro” è una oggettivazione di un movimento originario: il divenire come essere-altro dell’essere-sé.
Io e altro vengono identificati perché originariamente si pone un’essenziale “unità” tra essere-altro ed essere-sé nel movimento del divenire (unità paradossale della differenza). Di conseguenza, l’identificazione tra i due è possibile solo perché prima viene il movimento di divenire. Si tratta davvero, però, di una possibilità o non è piuttosto una impossibilità? E’ davvero possibile pensare Io e altro, gli opposti, come identici nello stesso momento?
Comunemente ci si aspetterebbe di leggere non un verbo ma una congiunzione (“e”, non “è”): c’è l’Io e c’è l’altro, ci si aspetterebbe l’espressione “Io e altro”; non riusciamo a raffigurarci, rappresentarci, il modo in cui l’Io possa essere l’altro. Oppure siamo in grado di farlo con uno passaggio importante a livello logico, parlando dei dormienti che pensano di essere in un modo e sono nel modo opposto. Si tratta sempre dello stesso Io, che in un caso viene predicato in un modo, vale a dire “Io sono Io” (nel soggetto alienato che pensa di essere identico a sé) e in un altro caso in modo affatto differente: consapevolmente da parte mia, osservatore esterno, che smaschero l’alienazione (poiché il soggetto alienato non è consapevole di essere tale) di chi pensa di essere identico a sé dicendogli: “L’Io è un altro”!
L’alienazione ha le sue fondamenta in questa originaria differenza di sé con sé della coscienza, intesa qui come divenire, differenza necessaria alla coscienza per essere tale. Un’analisi del fenomeno dell’alienazione, che non rientra nei limiti di questa ricerca, deve tenere conto di questo costitutivo differenziale.
Ciò che voglio aggiungere con decisione è che non bisogna farsi spaventare dall’aporia del pensiero: bisogna pensare nell’aporia, attraverso l’aporia, mantenere l’impossibilità ferma. Se è vero che “L’Io è un altro” è espressione dell’alienazione che nasce nel porre l’Io come fondamento del sapere e della coscienza, se è vero che l’alienato, vivendo nell’atteggiamento ovvio e naturale di chi non si pone domande, non è consapevole del costitutivo divenire altro della coscienza (e allora, per parafrasare Rimbaud, il pezzo di legno si ritrova violino, l’ottone si risveglia tromba), è altrettanto vero che l’originario campo trascendentale, ciò che sembra rientrare nel piano immanente della coscienza irriflessa e che rende “possibile” l’esperienza, da un punto di vista ontologico è pur sempre divenire, inteso come essere-altro dell’essere sé. Nell’oggettività del campo dell’esperienza abbiamo traccia, dunque, attraverso l’alienazione costitutiva dell’Io, dell’originario rapporto di identificazione tra sé e altro, che potremmo anche definire alter-azione o azione dell’altro originaria.
Credo che in questo senso vada intesa l’espressione azione nella “Lettera del Veggente” di Rimbaud: come alter-azione, essere come essere-altro e perciò essere-fuori o eccesso dell’essere. Il rapporto con l’originario è essenzialmente alter-azione.
Per riprendere la terminologia usata fin qui, mutuandola da Rimbaud e da Sartre, posso dire che il Veggente è sorpreso dalle illuminazioni che lo accecano, nel suo rapporto con l’ignoto, a livello della coscienza pre-riflessiva e che questa è una continua creazione dal nulla verso il nulla, atto puro, azione intesa come alter-azione.
Per cercare di esprimere l’originario si può procedere ad individuare due piani in cui inscrivere la conoscenza: un piano di immanenza ed un piano trascendente-oggettivo. Questi due piani sono per lo più affatto separati, ma diventano quasi speculari nel momento della consapevolezza, della scoperta di sé della coscienza irriflessa, nel momento in cui ci si mette in rapporto con l’originario inaccessibile. La consapevolezza è, in fondo, l’intuizione del divenire: nella sua luce l’oggetto, l’essente, e la totalità degli enti, si svelano come riverbero del piano di immanenza, nella sua luce si supera la separazione di soggetto ed oggetto.
Sul piano di immanenza insiste il divenire, come continua alter-azione; sul piano trascendente-oggettivo, invece, si realizza la distinzione tra Io e altro, la presenza di tutti gli essenti come dati. Il piano trascendente-oggettivo è secondario rispetto al piano di immanenza e possiamo pensare consapevolmente l’identificazione tra Io e altro solo in virtù dell’originario essere-altro dell’essere-sé insistente sul piano di immanenza.
Rispondo affermativamente a quest’ultimo quesito: a mio avviso è possibile esprimere l’originario senza cadere negli equivoci del linguaggio emersi. Aggiungo che ciò può avvenire solo attraverso l’ontologia. Senza dimenticare il limite invalicabile della nostra conoscenza, senza accantonare il monito della necessità di non superarlo, credo sia possibile, oltre che vitale, per la filosofia imbastire un discorso sul limite intravisto che abbiamo definito “originario”. Bisogna tentare di dare espressione a ciò che precede la distinzione tra soggetto ed oggetto, ricorrendo all’ontologia.
In che senso nella formula “Io è un altro” dell’io viene predicato l’altro? In che modo concepire l’Essere quando si dice che l’Io “è un altro”? Da un punto di vista ontologico, l’Essere in questo caso è il Divenire e non potrebbe essere altrimenti. “Io è un altro” è una oggettivazione di un movimento originario: il divenire come essere-altro dell’essere-sé.
Io e altro vengono identificati perché originariamente si pone un’essenziale “unità” tra essere-altro ed essere-sé nel movimento del divenire (unità paradossale della differenza). Di conseguenza, l’identificazione tra i due è possibile solo perché prima viene il movimento di divenire. Si tratta davvero, però, di una possibilità o non è piuttosto una impossibilità? E’ davvero possibile pensare Io e altro, gli opposti, come identici nello stesso momento?
Comunemente ci si aspetterebbe di leggere non un verbo ma una congiunzione (“e”, non “è”): c’è l’Io e c’è l’altro, ci si aspetterebbe l’espressione “Io e altro”; non riusciamo a raffigurarci, rappresentarci, il modo in cui l’Io possa essere l’altro. Oppure siamo in grado di farlo con uno passaggio importante a livello logico, parlando dei dormienti che pensano di essere in un modo e sono nel modo opposto. Si tratta sempre dello stesso Io, che in un caso viene predicato in un modo, vale a dire “Io sono Io” (nel soggetto alienato che pensa di essere identico a sé) e in un altro caso in modo affatto differente: consapevolmente da parte mia, osservatore esterno, che smaschero l’alienazione (poiché il soggetto alienato non è consapevole di essere tale) di chi pensa di essere identico a sé dicendogli: “L’Io è un altro”!
L’alienazione ha le sue fondamenta in questa originaria differenza di sé con sé della coscienza, intesa qui come divenire, differenza necessaria alla coscienza per essere tale. Un’analisi del fenomeno dell’alienazione, che non rientra nei limiti di questa ricerca, deve tenere conto di questo costitutivo differenziale.
Ciò che voglio aggiungere con decisione è che non bisogna farsi spaventare dall’aporia del pensiero: bisogna pensare nell’aporia, attraverso l’aporia, mantenere l’impossibilità ferma. Se è vero che “L’Io è un altro” è espressione dell’alienazione che nasce nel porre l’Io come fondamento del sapere e della coscienza, se è vero che l’alienato, vivendo nell’atteggiamento ovvio e naturale di chi non si pone domande, non è consapevole del costitutivo divenire altro della coscienza (e allora, per parafrasare Rimbaud, il pezzo di legno si ritrova violino, l’ottone si risveglia tromba), è altrettanto vero che l’originario campo trascendentale, ciò che sembra rientrare nel piano immanente della coscienza irriflessa e che rende “possibile” l’esperienza, da un punto di vista ontologico è pur sempre divenire, inteso come essere-altro dell’essere sé. Nell’oggettività del campo dell’esperienza abbiamo traccia, dunque, attraverso l’alienazione costitutiva dell’Io, dell’originario rapporto di identificazione tra sé e altro, che potremmo anche definire alter-azione o azione dell’altro originaria.
Credo che in questo senso vada intesa l’espressione azione nella “Lettera del Veggente” di Rimbaud: come alter-azione, essere come essere-altro e perciò essere-fuori o eccesso dell’essere. Il rapporto con l’originario è essenzialmente alter-azione.
Per riprendere la terminologia usata fin qui, mutuandola da Rimbaud e da Sartre, posso dire che il Veggente è sorpreso dalle illuminazioni che lo accecano, nel suo rapporto con l’ignoto, a livello della coscienza pre-riflessiva e che questa è una continua creazione dal nulla verso il nulla, atto puro, azione intesa come alter-azione.
Per cercare di esprimere l’originario si può procedere ad individuare due piani in cui inscrivere la conoscenza: un piano di immanenza ed un piano trascendente-oggettivo. Questi due piani sono per lo più affatto separati, ma diventano quasi speculari nel momento della consapevolezza, della scoperta di sé della coscienza irriflessa, nel momento in cui ci si mette in rapporto con l’originario inaccessibile. La consapevolezza è, in fondo, l’intuizione del divenire: nella sua luce l’oggetto, l’essente, e la totalità degli enti, si svelano come riverbero del piano di immanenza, nella sua luce si supera la separazione di soggetto ed oggetto.
Sul piano di immanenza insiste il divenire, come continua alter-azione; sul piano trascendente-oggettivo, invece, si realizza la distinzione tra Io e altro, la presenza di tutti gli essenti come dati. Il piano trascendente-oggettivo è secondario rispetto al piano di immanenza e possiamo pensare consapevolmente l’identificazione tra Io e altro solo in virtù dell’originario essere-altro dell’essere-sé insistente sul piano di immanenza.
Ho tratto l’espressione “piano di immanenza” dal libro Quest-ce que la philosophie?
di Gilles Deleuze e Félix Guattari pubblicato nel 1991. Si può
affermare che quest’opera è fondamentale ai fini del nostro discorso,
poiché riprende con potenza l’intuizione dell’originario inteso come
divenire, considerandolo come il vero ed unico ambito della filosofia.
In controcorrente rispetto alla tradizione storica, qui viene con forza negato poiché infondato ogni fare filosofico che si rivolga agli Universali di contemplazione o di riflessione o di comunicazione, e viene smascherato come affatto illusorio il sogno della filosofia di dominare le altre discipline. La filosofia è in modo originale definita da Deleuze e Guattari creazione singolare di concetti.
«La filosofia non contempla, non riflette, non comunica, benché essa debba creare concetti per queste azioni o passioni. La contemplazione, la riflessione, la comunicazione non sono discipline ma macchine per formare gli Universali in tutte le discipline. Gli Universali di contemplazione, o anche di riflessione, sono come le due illusioni che la filosofia ha già coltivato nel suo sogno di dominare le altre discipline (idealismo oggettivo e idealismo soggettivo); e la filosofia non si procura più onore presentandosi come una nuova Atene e ripiegandosi sugli Universali della comunicazione che fornirebbero le regole di un controllo immaginario dei mercati e dei media (idealismo intersoggettivo). Ogni creazione è singolare e il concetto come creazione propriamente filosofica è sempre una singolarità. Il primo principio della filosofia è che gli Universali non spiegano niente, ma devono invece essere spiegati» (G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino, 1996, ristampa 2011, p. XIII).
La creazione di concetti da parte del filosofo può avvenire soltanto su un presupposto: il piano di immanenza. Esso non è un concetto, ma definisce ciò che di diritto appartiene al pensiero. Se i concetti sono gli eventi, il piano è l’orizzonte degli eventi. E’ pre-filosofico: per tracciarlo il filosofo va a tentoni, ricorrendo a mezzi poco confessabili, poco razionali e ragionevoli. Il piano di immanenza è l’Uno-Tutto, di cui nulla può darsi al di fuori; viene tracciato dal filosofo come un taglio sul caos e agisce come un setaccio. Un movimento infinito lo percorre. L’infinito non è da loro inteso come indeterminato; le determinazioni non sono infatti assenti in esso, ma si profilano e svaniscono a velocità infinita sul piano, sono quasi impercettibili. Il problema proprio della filosofia è come dare consistenza ai concetti senza perdere nulla di quell’infinito originario. Il piano di immanenza si compone, poi, di due caratteristiche essenziali: l’immagine del pensiero e la materia d’essere (Noȗs e Physis).
Nella storia del pensiero, ogni nuovo filosofo traccia un nuovo piano di immanenza come un Uno-Tutto; di conseguenza nel tempo è stata concepita una molteplicità di piani. Questa varietà è dovuta proprio al differente modo in cui ogni pensatore produce l’immanenza, apportando nuova materia all’essere ed allestendo una nuova immagine del pensiero.
Deleuze e Guattari ci ammoniscono che, affinché l’immanenza sia veramente tale, affinché non sorga la trascendenza con tutte le conseguenze che essa comporta, non deve essere mai immanenza “a qualcosa”. Ogni volta che si interpreta l’immanenza con l’immanenza “a qualcosa” si produce una confusione tale tra piano e concetto, «che il concetto diventa un universale trascendente e il piano un attributo del concetto. Così frainteso, il piano di immanenza rilancia il trascendente e resta un semplice campo di fenomeni che possiede solo in seconda istanza ciò che viene attribuito anzitutto all’unità trascendente» (Ibidem, p. 35).
Nel momento in cui l’immanenza diventa immanente “a qualcosa” non è più assoluta e fa sorgere le illusioni della trascendenza che circondano il piano.
Nel corso della storia della filosofia, a partire da Platone, passando per la filosofia cristiana, giungendo fino a Kant, a Husserl, a Jaspers, l’immanenza è sempre stata ridotta ad immanenza “a Qualcosa” e questo “Qualcosa” di volta in volta è stato identificato con l’Uno o con Dio o con il Soggetto o con l’Altro; da ciò è risultato che la trascendenza è sempre stata reintrodotta per bloccare il piano di immanenza. C’è stato un continuo affermare i diritti del trascendente, un continuo ridurre l’immanenza a semplice fenomeno in rapporto ad una unità trascendente; ciò si spiega per Deleuze e Guattari con il fatto che l’immanenza, a differenza di quanto possa sembrare a prima vista, è pericolosa. Secondo loro, infine, il trascendente può essere considerato tipico del punto di vista religioso, poiché c’è religione ogni volta che ci sono la trascendenza, l’Essere-verticale e lo Stato imperiale in cielo o sulla terra; la filosofia nasce soltanto quando viene tracciato il piano di immanenza in contrapposizione al trascendente ed al pensiero religioso.
E’ interessante ai fini della nostra ricerca che proprio qui, nel paragrafo dove viene descritto il piano di immanenza, Deleuze e Guattari facciano riferimento a Sartre ed a La Transcendence de l’Ego e riconoscano il loro debito all’intuizione sartriana del cogito pre-riflessivo come via per raggiungere l’originario piano di immanenza in questi termini:
«Presupponendo un campo trascendentale impersonale, Sartre restituisce all’immanenza i suoi diritti. Solo quando l’immanenza è immanente esclusivamente a se stessa si può parlare di piano di immanenza. Tale piano è forse un empirismo radicale, nel senso che non contemplerebbe un flusso del vissuto immanente ad un soggetto che si individualizzerebbe in ciò che appartiente a un io. In esso si danno eventi, ossia mondi possibili in quanto concetti (…). L’evento non riconduce il vissuto ad un soggetto trascendente = Io, si rapporta, al contrario, al sorvolo immanente di un campo senza soggetto» (Ibidem, pp. 37-38).
Per quanto l’intuizione di Sartre sia decisiva e fondamentale, secondo il giudizio di Deleuze e Guattari, solo Spinoza è il filosofo che è riuscito a concettualizzare ed esprimere in modo compiuto l’immanenza come immanente solo a sé stessa e che non ha stabilito alcun compromesso con la trascendenza («Egli è per questo il principe dei filosofi» [Ivi]). Egli ha allestito il piano di immanenza più puro, più vicino all’ideale di piano di immanenza (“IL” piano di immanenza), quello che non si offre al trascendente, né lo restituisce, che non implica illusioni.
Come abbiamo visto, pertanto, Deleuze e Guattari riprendono ed amplificano l’intuizione di Sartre a proposito dell’originario, valorizzano la sua espulsione dell’Io dalla coscienza, la purificazione del campo trascendentale, interpretandola in senso spinoziano, accostando il trascendentale impersonale del cogito pre-riflessivo all’immanenza del Deus sive natura.
Poiché, come ho dimostrato, l’intuizione iniziale dell’originario risale a Rimbaud ed alla formula “Io è un altro”, ci possiamo chiedere se in Quest-ce que la philosophie? vi sia menzione dell’intuizione del poeta di Charleville. Bisogna premettere che il pensiero e la poetica di Rimbaud non sono tematizzati esplicitamente in questo libro; tuttavia, ad una lettura attenta non possono sfuggire i richiami impliciti ad essi. Se per Sartre in Quest-ce que la philosophie? il riferimento è esplicito e chiaro, per Rimbaud la situazione è più sfumata, ma il rimando è comunque evidente.
Innanzitutto, ho contato due occorrenze della formula “Io è un altro”. Aggiungo immediatamente che di per sé non sono essenziali, poiché la formula è presentata in questo libro sradicata ed in riferimento ad altro, come già universalmente nota, senza bisogno di spiegazioni, e de-contestualizzata (probabile che abbia giocato l’influenza della ripresa precedente da parte di Lacan).
In secondo luogo, cosa ben più importante, il nome di Rimbaud figura, assieme ad altri poeti e letterati (Cfr. Ibidem, pp. 55-57), tra quelli che Deleuze e Guattari definiscono «filosofi “a metà”» (Ibidem, p. 56), poiché si pongono al limite tra arte e filosofia.
Per intendere in che modo ciò possa avvenire, occorre premettere che per Deleuze e Guattari c’è una differenza essenziale tra filosofia ed arte: in estrema sintesi, mentre la filosofia taglia il caos attraverso il piano di immanenza e in esso inscrive i concetti o complessioni di immanenza, l’arte traccia un piano di composizione in cui vengono fatte abitare costellazioni di universi o affetti e percetti. Diverso pertanto è il loro presupposto, il piano che sta alla base, e diversi sono le componenti che lo popolano. Tra arte e filosofia, tuttavia, possono costituirsi sinergie, alleanze, o anche sostituzioni e biforcazioni. Il piano di composizione dell’arte ed il piano di immanenza della filosofia possono scivolare l’uno nell’altro. Per Deleuze e Guattari esistono poi, appunto, filosofi a metà che come ogni pensatore a partire dal caos instaurano un vero e proprio piano di immanenza (e non di mera composizione), allestendo una nuova immagine del pensiero, e tuttavia anziché popolarlo di concetti come farebbe un filosofo lo popolano di altre entità prettamente appartenenti alla sfera artistica: di figure estetiche e di affetti e percetti. Non si tratta di una sintesi di arte e filosofia, si tratta di un ibrido. Rimbaud appartiene a loro avviso di diritto a questa schiera.
Infine, proprio nella parte del libro in cui viene tematizzata l’arte nella sua specificità e differenza in rapporto alla filosofia (Cfr. Ibidem, Parte II, Capitolo 7, pp. 161-201), viene teorizzata una chiara ed interessante prossimità, che giunge fino alla vera e propria identificazione, tra visione e divenire. Non è difficile scorgere nelle loro descrizioni, anche se non riferite in modo esplicito, un’eco della figura del Veggente tratteggiata nella “Corrispondenza” del poeta di Charleville.
«Non si è nel mondo, si diviene con il mondo, si diviene contemplandolo. Tutto è visione, divenire. Si diviene universo» (Ibidem, p. 168).
«La fabulazione creativa non ha niente a che vedere con un ricordo, per quanto amplificato, né con un fantasma. Infatti, l’artista, compreso il romanziere, eccede gli stati percettivi e i passaggi affettivi del vissuto. E’ un veggente, un diveniente» (Ibidem, p. 170).
Per quanto solo a livello della creazione artistica, questa identificazione tra visione e divenire stabilita da Deleuze e Guattari non fa che confermare e corroborare la bontà della nostra interpretazione ontologica della formula “Io è un altro” di Rimbaud e delle conseguenze che ne derivano.
In controcorrente rispetto alla tradizione storica, qui viene con forza negato poiché infondato ogni fare filosofico che si rivolga agli Universali di contemplazione o di riflessione o di comunicazione, e viene smascherato come affatto illusorio il sogno della filosofia di dominare le altre discipline. La filosofia è in modo originale definita da Deleuze e Guattari creazione singolare di concetti.
«La filosofia non contempla, non riflette, non comunica, benché essa debba creare concetti per queste azioni o passioni. La contemplazione, la riflessione, la comunicazione non sono discipline ma macchine per formare gli Universali in tutte le discipline. Gli Universali di contemplazione, o anche di riflessione, sono come le due illusioni che la filosofia ha già coltivato nel suo sogno di dominare le altre discipline (idealismo oggettivo e idealismo soggettivo); e la filosofia non si procura più onore presentandosi come una nuova Atene e ripiegandosi sugli Universali della comunicazione che fornirebbero le regole di un controllo immaginario dei mercati e dei media (idealismo intersoggettivo). Ogni creazione è singolare e il concetto come creazione propriamente filosofica è sempre una singolarità. Il primo principio della filosofia è che gli Universali non spiegano niente, ma devono invece essere spiegati» (G. Deleuze e F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino, 1996, ristampa 2011, p. XIII).
La creazione di concetti da parte del filosofo può avvenire soltanto su un presupposto: il piano di immanenza. Esso non è un concetto, ma definisce ciò che di diritto appartiene al pensiero. Se i concetti sono gli eventi, il piano è l’orizzonte degli eventi. E’ pre-filosofico: per tracciarlo il filosofo va a tentoni, ricorrendo a mezzi poco confessabili, poco razionali e ragionevoli. Il piano di immanenza è l’Uno-Tutto, di cui nulla può darsi al di fuori; viene tracciato dal filosofo come un taglio sul caos e agisce come un setaccio. Un movimento infinito lo percorre. L’infinito non è da loro inteso come indeterminato; le determinazioni non sono infatti assenti in esso, ma si profilano e svaniscono a velocità infinita sul piano, sono quasi impercettibili. Il problema proprio della filosofia è come dare consistenza ai concetti senza perdere nulla di quell’infinito originario. Il piano di immanenza si compone, poi, di due caratteristiche essenziali: l’immagine del pensiero e la materia d’essere (Noȗs e Physis).
Nella storia del pensiero, ogni nuovo filosofo traccia un nuovo piano di immanenza come un Uno-Tutto; di conseguenza nel tempo è stata concepita una molteplicità di piani. Questa varietà è dovuta proprio al differente modo in cui ogni pensatore produce l’immanenza, apportando nuova materia all’essere ed allestendo una nuova immagine del pensiero.
Deleuze e Guattari ci ammoniscono che, affinché l’immanenza sia veramente tale, affinché non sorga la trascendenza con tutte le conseguenze che essa comporta, non deve essere mai immanenza “a qualcosa”. Ogni volta che si interpreta l’immanenza con l’immanenza “a qualcosa” si produce una confusione tale tra piano e concetto, «che il concetto diventa un universale trascendente e il piano un attributo del concetto. Così frainteso, il piano di immanenza rilancia il trascendente e resta un semplice campo di fenomeni che possiede solo in seconda istanza ciò che viene attribuito anzitutto all’unità trascendente» (Ibidem, p. 35).
Nel momento in cui l’immanenza diventa immanente “a qualcosa” non è più assoluta e fa sorgere le illusioni della trascendenza che circondano il piano.
Nel corso della storia della filosofia, a partire da Platone, passando per la filosofia cristiana, giungendo fino a Kant, a Husserl, a Jaspers, l’immanenza è sempre stata ridotta ad immanenza “a Qualcosa” e questo “Qualcosa” di volta in volta è stato identificato con l’Uno o con Dio o con il Soggetto o con l’Altro; da ciò è risultato che la trascendenza è sempre stata reintrodotta per bloccare il piano di immanenza. C’è stato un continuo affermare i diritti del trascendente, un continuo ridurre l’immanenza a semplice fenomeno in rapporto ad una unità trascendente; ciò si spiega per Deleuze e Guattari con il fatto che l’immanenza, a differenza di quanto possa sembrare a prima vista, è pericolosa. Secondo loro, infine, il trascendente può essere considerato tipico del punto di vista religioso, poiché c’è religione ogni volta che ci sono la trascendenza, l’Essere-verticale e lo Stato imperiale in cielo o sulla terra; la filosofia nasce soltanto quando viene tracciato il piano di immanenza in contrapposizione al trascendente ed al pensiero religioso.
E’ interessante ai fini della nostra ricerca che proprio qui, nel paragrafo dove viene descritto il piano di immanenza, Deleuze e Guattari facciano riferimento a Sartre ed a La Transcendence de l’Ego e riconoscano il loro debito all’intuizione sartriana del cogito pre-riflessivo come via per raggiungere l’originario piano di immanenza in questi termini:
«Presupponendo un campo trascendentale impersonale, Sartre restituisce all’immanenza i suoi diritti. Solo quando l’immanenza è immanente esclusivamente a se stessa si può parlare di piano di immanenza. Tale piano è forse un empirismo radicale, nel senso che non contemplerebbe un flusso del vissuto immanente ad un soggetto che si individualizzerebbe in ciò che appartiente a un io. In esso si danno eventi, ossia mondi possibili in quanto concetti (…). L’evento non riconduce il vissuto ad un soggetto trascendente = Io, si rapporta, al contrario, al sorvolo immanente di un campo senza soggetto» (Ibidem, pp. 37-38).
Per quanto l’intuizione di Sartre sia decisiva e fondamentale, secondo il giudizio di Deleuze e Guattari, solo Spinoza è il filosofo che è riuscito a concettualizzare ed esprimere in modo compiuto l’immanenza come immanente solo a sé stessa e che non ha stabilito alcun compromesso con la trascendenza («Egli è per questo il principe dei filosofi» [Ivi]). Egli ha allestito il piano di immanenza più puro, più vicino all’ideale di piano di immanenza (“IL” piano di immanenza), quello che non si offre al trascendente, né lo restituisce, che non implica illusioni.
Come abbiamo visto, pertanto, Deleuze e Guattari riprendono ed amplificano l’intuizione di Sartre a proposito dell’originario, valorizzano la sua espulsione dell’Io dalla coscienza, la purificazione del campo trascendentale, interpretandola in senso spinoziano, accostando il trascendentale impersonale del cogito pre-riflessivo all’immanenza del Deus sive natura.
Poiché, come ho dimostrato, l’intuizione iniziale dell’originario risale a Rimbaud ed alla formula “Io è un altro”, ci possiamo chiedere se in Quest-ce que la philosophie? vi sia menzione dell’intuizione del poeta di Charleville. Bisogna premettere che il pensiero e la poetica di Rimbaud non sono tematizzati esplicitamente in questo libro; tuttavia, ad una lettura attenta non possono sfuggire i richiami impliciti ad essi. Se per Sartre in Quest-ce que la philosophie? il riferimento è esplicito e chiaro, per Rimbaud la situazione è più sfumata, ma il rimando è comunque evidente.
Innanzitutto, ho contato due occorrenze della formula “Io è un altro”. Aggiungo immediatamente che di per sé non sono essenziali, poiché la formula è presentata in questo libro sradicata ed in riferimento ad altro, come già universalmente nota, senza bisogno di spiegazioni, e de-contestualizzata (probabile che abbia giocato l’influenza della ripresa precedente da parte di Lacan).
In secondo luogo, cosa ben più importante, il nome di Rimbaud figura, assieme ad altri poeti e letterati (Cfr. Ibidem, pp. 55-57), tra quelli che Deleuze e Guattari definiscono «filosofi “a metà”» (Ibidem, p. 56), poiché si pongono al limite tra arte e filosofia.
Per intendere in che modo ciò possa avvenire, occorre premettere che per Deleuze e Guattari c’è una differenza essenziale tra filosofia ed arte: in estrema sintesi, mentre la filosofia taglia il caos attraverso il piano di immanenza e in esso inscrive i concetti o complessioni di immanenza, l’arte traccia un piano di composizione in cui vengono fatte abitare costellazioni di universi o affetti e percetti. Diverso pertanto è il loro presupposto, il piano che sta alla base, e diversi sono le componenti che lo popolano. Tra arte e filosofia, tuttavia, possono costituirsi sinergie, alleanze, o anche sostituzioni e biforcazioni. Il piano di composizione dell’arte ed il piano di immanenza della filosofia possono scivolare l’uno nell’altro. Per Deleuze e Guattari esistono poi, appunto, filosofi a metà che come ogni pensatore a partire dal caos instaurano un vero e proprio piano di immanenza (e non di mera composizione), allestendo una nuova immagine del pensiero, e tuttavia anziché popolarlo di concetti come farebbe un filosofo lo popolano di altre entità prettamente appartenenti alla sfera artistica: di figure estetiche e di affetti e percetti. Non si tratta di una sintesi di arte e filosofia, si tratta di un ibrido. Rimbaud appartiene a loro avviso di diritto a questa schiera.
Infine, proprio nella parte del libro in cui viene tematizzata l’arte nella sua specificità e differenza in rapporto alla filosofia (Cfr. Ibidem, Parte II, Capitolo 7, pp. 161-201), viene teorizzata una chiara ed interessante prossimità, che giunge fino alla vera e propria identificazione, tra visione e divenire. Non è difficile scorgere nelle loro descrizioni, anche se non riferite in modo esplicito, un’eco della figura del Veggente tratteggiata nella “Corrispondenza” del poeta di Charleville.
«Non si è nel mondo, si diviene con il mondo, si diviene contemplandolo. Tutto è visione, divenire. Si diviene universo» (Ibidem, p. 168).
«La fabulazione creativa non ha niente a che vedere con un ricordo, per quanto amplificato, né con un fantasma. Infatti, l’artista, compreso il romanziere, eccede gli stati percettivi e i passaggi affettivi del vissuto. E’ un veggente, un diveniente» (Ibidem, p. 170).
Per quanto solo a livello della creazione artistica, questa identificazione tra visione e divenire stabilita da Deleuze e Guattari non fa che confermare e corroborare la bontà della nostra interpretazione ontologica della formula “Io è un altro” di Rimbaud e delle conseguenze che ne derivano.
Per riprendere il filo del nostro discorso, il piano di immanenza si pone come impersonale, in esso tutto è declinato alla terza persona, o al plurale: in esso “si” vive o viviamo. La costitutiva alter-azione è una forza o potenza,
qualche cosa dunque di impersonale, di soverchiante la persona, la sua
volontà e la sua individualità. Ecco perché sul piano
trascendente-oggettivo la forza impersonale s’incarna nella formula “Io è
un altro” e non in: “Io sono un altro”; ecco perché si esprime alla
terza persona singolare e non alla prima: nell’intuizione
dell’alienazione dell’Io si riverbera l’impersonalità originaria del
divenire.
Non bisogna, tuttavia, dimenticare che il campo trascendentale è pur sempre collegato ad “un” cogito e ad un singolo che lo esperisce. E’ pertanto impersonale, ma singolare.
Il piano di immanenza non è nulla in-sé, non si può dare come oggetto di conoscenza, in quanto, come abbiamo visto, sembra più un nulla che un essere, se con essere s’intende l’essere identico dell’oggettività. Tuttavia, pur non potendolo descrivere come oggetto – da qui sorgono le difficoltà insite nella lingua che è fondata sull’oggettività – pur non conoscendone le qualità, pur non potendolo tradurre in sapere, abbiamo contezza della sua caratteristica essenziale: l’essere-altro sempre. Il che significa chiaramente che il divenire del piano di immanenza è movimento ek-statico, esistenza nel senso etimologico di ex-sistere, perenne “stare fuori di sé”, continuo essere-altro; in ultima analisi ci pare di poter confermare l’altra tesi di Sartre a proposito del cogito pre-riflessivo: l’intenzionalità intesa come trascendenza. La trascendenza del cogito, la sua intenzionalità (il suo essere conscio del mondo e in modo irriflesso, non teticamente, anche di sé) si fonda sull’essere-altro costitutivo del piano di immanenza impersonale.
Uso il termine di trascendenza, dunque, in senso differente rispetto a Deleuze e Guattari, lo riferisco non già come loro, in senso negativo, al piano su cui insistono gli Universali (ovvero le illusioni della trascendenza), ma al movimento intrinseco del piano di immanenza, al suo flusso.
Non si deve confondere, infatti, la trascendenza con il piano trascendente-oggettivo in cui c’è l’Io e ci sono tutte le cose nella loro presenza data. La trascendenza è il movimento del piano di immanenza, tanto che il divenire può essere definito anche come unione degli opposti termini qui usati: il divenire è immanenza-trascendenza. Il divenire pone capo necessariamente al piano trascendente-oggettivo, ma non deve essere confuso con esso, poiché è movimento di trascendenza all’interno del piano di immanenza.
La trascendenza assoluta da parte della coscienza sul piano trascendente-oggettivo produce l’Io, un oggetto trascendente, che in un certo senso è la morte del piano di immanenza, è la chiusura del movimento del campo trascendentale. L’immanenza completa, nel caso escludesse affatto la trascendenza intesa come movimento costitutivo ed intenzionale, rischierebbe a propria volta o di diventare un in-sé che per essere colto necessiterebbe di un Soggetto esterno, un punto di vista possibile solo a chi non faccia parte dell’interno, da parte di chi non abiti il piano (ad esempio Dio) o di scivolare affatto nell’incoscienza (di cui non possiamo sapere nulla).
Il divenire non può dunque rinunciare ad essere immanenza-trascendenza, non possiamo sperare di risolvere il suo movimento contraddittorio, né augurarci di farlo. La sintesi dei due elementi, immanenza e trascendenza, è impossibile e l’uomo può anche essere definito come impossibilità che si realizza. L’intuizione del divenire avviene sul piano trascendente-oggettivo e non dà luogo ad un sapere, in quanto non ha oggetto. Tuttavia, libera la consapevolezza mettendola in rapporto con l’originario piano di immanenza e svela ciò che per lo più è velato: l’essere-altro costitutivo.
La formula “Io è un altro” esprime riflessi i caratteri impersonali, ek-statici, apofatici, di questo originario insieme di pensiero e materia che è il divenire.
Non bisogna, tuttavia, dimenticare che il campo trascendentale è pur sempre collegato ad “un” cogito e ad un singolo che lo esperisce. E’ pertanto impersonale, ma singolare.
Il piano di immanenza non è nulla in-sé, non si può dare come oggetto di conoscenza, in quanto, come abbiamo visto, sembra più un nulla che un essere, se con essere s’intende l’essere identico dell’oggettività. Tuttavia, pur non potendolo descrivere come oggetto – da qui sorgono le difficoltà insite nella lingua che è fondata sull’oggettività – pur non conoscendone le qualità, pur non potendolo tradurre in sapere, abbiamo contezza della sua caratteristica essenziale: l’essere-altro sempre. Il che significa chiaramente che il divenire del piano di immanenza è movimento ek-statico, esistenza nel senso etimologico di ex-sistere, perenne “stare fuori di sé”, continuo essere-altro; in ultima analisi ci pare di poter confermare l’altra tesi di Sartre a proposito del cogito pre-riflessivo: l’intenzionalità intesa come trascendenza. La trascendenza del cogito, la sua intenzionalità (il suo essere conscio del mondo e in modo irriflesso, non teticamente, anche di sé) si fonda sull’essere-altro costitutivo del piano di immanenza impersonale.
Uso il termine di trascendenza, dunque, in senso differente rispetto a Deleuze e Guattari, lo riferisco non già come loro, in senso negativo, al piano su cui insistono gli Universali (ovvero le illusioni della trascendenza), ma al movimento intrinseco del piano di immanenza, al suo flusso.
Non si deve confondere, infatti, la trascendenza con il piano trascendente-oggettivo in cui c’è l’Io e ci sono tutte le cose nella loro presenza data. La trascendenza è il movimento del piano di immanenza, tanto che il divenire può essere definito anche come unione degli opposti termini qui usati: il divenire è immanenza-trascendenza. Il divenire pone capo necessariamente al piano trascendente-oggettivo, ma non deve essere confuso con esso, poiché è movimento di trascendenza all’interno del piano di immanenza.
La trascendenza assoluta da parte della coscienza sul piano trascendente-oggettivo produce l’Io, un oggetto trascendente, che in un certo senso è la morte del piano di immanenza, è la chiusura del movimento del campo trascendentale. L’immanenza completa, nel caso escludesse affatto la trascendenza intesa come movimento costitutivo ed intenzionale, rischierebbe a propria volta o di diventare un in-sé che per essere colto necessiterebbe di un Soggetto esterno, un punto di vista possibile solo a chi non faccia parte dell’interno, da parte di chi non abiti il piano (ad esempio Dio) o di scivolare affatto nell’incoscienza (di cui non possiamo sapere nulla).
Il divenire non può dunque rinunciare ad essere immanenza-trascendenza, non possiamo sperare di risolvere il suo movimento contraddittorio, né augurarci di farlo. La sintesi dei due elementi, immanenza e trascendenza, è impossibile e l’uomo può anche essere definito come impossibilità che si realizza. L’intuizione del divenire avviene sul piano trascendente-oggettivo e non dà luogo ad un sapere, in quanto non ha oggetto. Tuttavia, libera la consapevolezza mettendola in rapporto con l’originario piano di immanenza e svela ciò che per lo più è velato: l’essere-altro costitutivo.
La formula “Io è un altro” esprime riflessi i caratteri impersonali, ek-statici, apofatici, di questo originario insieme di pensiero e materia che è il divenire.
[Fine]
24 gennaio 2013 alle 14:24
Grazie
24 gennaio 2013 alle 23:27
Sapere che ciò che scrivo suscita interesse è una giustificazione al mio scrivere, perciò ti sono grato per il tuo apprezzamento.
Un caro saluto.
D.
8 marzo 2013 alle 19:25
Interessante articolo, grazie.
9 marzo 2013 alle 23:56
La risposta è affermativa senz’altro, secondo me. In ogni forma di personificazione presente nella creazione, si cerca di dare voce, carne, forza, a quell’altro che abita il creatore.
Si tratta di personificare l’impersonale che ci abita.
C’è sempre un alter-ego che parla al posto del creatore: questo è il segreto della creazione: costitutiva alter-azione, azione dell’altro nello stesso.
D.