La Lettera del Veggente (in francese Lettre du Voyant) è un importante documento non solo personale ma addirittura di tutta la storia della letteratura, che ha varcato i confini della stessa Francia per coinvolgere generazioni di ogni epoca e correnti artistiche di tutto il mondo.[senza fonte]
È così chiamata la lettera spedita da Arthur Rimbaud (1854 - 1891) a Paul Demeny il 15 maggio del 1871, nella quale viene definita pienamente, una volta per tutte, la direzione, le aspirazioni e il tipo di poetica che Rimbaud intendeva perseguire.
Lo stile
Lo stile della missiva, come al solito è caratterizzato da quello tipico ed inconfondibile del giovane poeta; impetuoso, sempre al limite delle possibilità, ma allo stesso tempo lucido e controllato.In realtà bisognerebbe dire le lettere del Veggente, poiché la stessa definizione di Veggente viene ormai tradizionalmente attribuita anche ad un'altra lettera di due giorni prima, spedita da Rimbaud a Georges Izambard, nella quale si accenna soltanto, però, ciò che verrà più estesamente sviscerato nell'altra più importante lettera di due giorni dopo, spedita a P. Demeny.
Infatti ad Izambard Rimbaud scriveva:
- Adesso, mi intestardisco il più possibile. Perché? Voglio essere poeta, e lavoro per rendermi veggente: voi non ci capireste niente, ed io non saprei come spiegarvi. Si tratta di arrivare all'ignoto mediante la sregolatezza di tutti i sensi. Le sofferenze sono enormi, ma bisogna essere forti, essere nati poeti, e io mi sono riconosciuto poeta. Non è colpa mia. È falso dire: Io penso: si dovrebbe dire mi si pensa. - Perdonate il gioco di parole.[1]
Il contenuto
La lettera del Veggente può essere contraddistinta da due intenzioni fondamentali, che si possono riassumere in:-
- 1) una critica lucida e dura, e spesso denigrante, verso la letteratura del passato fino a quella contemporanea al poeta;
- 2) un tracciato ben definito di una poetica e letteratura del futuro, che si rifletterà in modo strabiliante, nello breve spazio di nemmeno due anni, nelle sue prodigiose opere: Une Saison en Enfer e Les Illuminations.
Poco dopo, con la lunga poesia, Ce qu'on dit au Poète à propòs de Fleurs, inclusa nella lettera spedita a Théodore de Banville il 15 agosto del 1871, Rimbaud non fa che ribadire, esplicitamente, la rottura con tutta la tradizione letteraria di allora, e con i Parnassiani in particolare.
Note
- Maintenant, je m'encrapule le plus possible. Pourquoi ? Je veux être poète, et je travaille à me rendre Voyants: vous ne comprendrez pas du tout, et je ne saurais presque vous expliquer. Il s'agit d'arriver à l'inconnu par le dérèglement de tous les sens. Les souffrances sont énormes, mais il faut être fort, être né poète, et je me suis reconnu poète. Ce n'est pas du tout ma faute. C'est faux de dire: Je pense: on devrait dire on me pense. - Pardon du jeu de mots. - Lettera a Georges Izambard, 13 maggio 1871
Da WikiQuote:
Illuminazioni
Incipit
Originale
Aussitôt que l'idée du Déluge se fut rassise,
Un lièvre s'arrêta dans les sainfoins et les clochettes mouvantes, et dit sa prière à l'arc-en-ciel à travers la toile de l'araignée.
Oh ! les pierres précieuses qui se cachaient, — les fleurs qui regardaient déjà.
Dans la grande rue sale, les étals se dressèrent, et l'on tira les barques vers la mer étagée là-haut comme sur les gravures.
Le sang coula, chez Barbe-Bleue, — aux abattoirs, — dans les cirques, où le sceau de Dieu blêmit les fenêtres. Le sang et le lait coulèrent.
Les castors bâtirent. Les "mazagrans" fumèrent dans les estaminets.
Dans la grande maison de vitres encore ruisselante, les enfants en deuil regardèrent les merveilleuses images. Une porte claqua — et, sur la place du hameau, l'enfant tourna ses bras, compris des girouettes et des coqs des clochers de partout, sous l'éclatante giboulée.
Madame *** établit un piano dans les Alpes. La messe et les premières communions se célébrèrent aux cent mille autels de la cathédrale.
Un lièvre s'arrêta dans les sainfoins et les clochettes mouvantes, et dit sa prière à l'arc-en-ciel à travers la toile de l'araignée.
Oh ! les pierres précieuses qui se cachaient, — les fleurs qui regardaient déjà.
Dans la grande rue sale, les étals se dressèrent, et l'on tira les barques vers la mer étagée là-haut comme sur les gravures.
Le sang coula, chez Barbe-Bleue, — aux abattoirs, — dans les cirques, où le sceau de Dieu blêmit les fenêtres. Le sang et le lait coulèrent.
Les castors bâtirent. Les "mazagrans" fumèrent dans les estaminets.
Dans la grande maison de vitres encore ruisselante, les enfants en deuil regardèrent les merveilleuses images. Une porte claqua — et, sur la place du hameau, l'enfant tourna ses bras, compris des girouettes et des coqs des clochers de partout, sous l'éclatante giboulée.
Madame *** établit un piano dans les Alpes. La messe et les premières communions se célébrèrent aux cent mille autels de la cathédrale.
Diana Grange Fiori
Non appena l'idea del Diluvio si fu seduta,Una lepre sostò fra lupinelle e campanule ondeggianti e disse la sua preghiera all'arcobaleno attraverso la tela del ragno.
Oh! le pietre preziose che si nascondevano, — i fiori che già guardavano.
Nella grande strada sporca i banchi si drizzarono, e le barche vennero trascinate verso il mare a scaglioni lassù come nelle stampe.
Corse il sangue, da Barbablù, — ai mattatoi, — nei circhi, dove il sigillo di Dio fece livide le finestre. Il sangue e il latte scorrevano.
I castori costruirono. I mazagrans fumarono nelle bettole.
Nella gran casa di vetro ancora grondante i bambini a lutto guardarono le splendide immagini.
Una porta sbatté, — e sulla piazza del borgo, il bambino roteò le braccia, compreso dalle banderuole e dai galli dei campanili di ogni dove, sotto l'acquazzone sfavillante.
La Signora *** collocò un pianoforte sulle Alpi. Messe e prime comunioni vennero celebrate ai centomila altari della cattedrale.
[Diana Grange Fiori, Mondadori, 1972]
Citazioni
- Nelle ore d'amarezza immagino sfere di zàffiro, di metallo. Sono padrone del silenzio. Perché mai una parvenza di spiraglio dovrebbe illividire all'angolo della volta? (da Infanzia, 1972)
- La musica sapiente vien meno al nostro desiderio. (da Racconto, 1972)
- Ho steso corde da campanile a campanile; ghirlande da finestra a finestra; catene d'oro da stella a stella, e danzo. (da Frasi, 1972)
- — Sgorga, stagno, — schiuma, riversati sui ponti, e al di sopra dei
boschi; — drappi neri ed organi, — lampi e tuoni — salite e scorrete; —
Acque e tristezze, salite e rialzate i Diluvi.
Che da quando si sono dissolti, — oh le pietre preziose interrate, e i fiori aperti! — è una noia! e la Regina, la Strega che accende la sua brace nel vaso di terra, non vorrà mai raccontarci ciò che ella sa, e che noi ignoriamo. (da Dopo il diluvio, 1978) - Quest'idolo, occhi neri e crine giallo, senza parenti né corte, più nobile di una favola, messicana e fiamminga; il suo dominio, azzurro e verzura insolenti, si stende su spiagge nomate, da onde senza vascelli, con nomi ferocemente greci, slavi, celtici. (da Infanzia, 1978)
- Che noia, l'ora del "caro corpo" e del "caro cuore". (da Infanzia, 1978)
- Che noia, l'ora del «tutto mio» e del «cuor mio». (1992)
- Che noia, l'ora del «caro corpo» e «caro cuore». (1994)
- Fiori magici ronzavano. I pendii li cullavano. Bestie di una eleganza favolosa circolavano. Le nubi si addensavano sull'alto mare fatto di una eternità di calde lacrime. (da Infanzia, 1978)
- I sentieri sono aspri. Le colline si ricoprono di ginestre. L'aria è immobile. Come sono lontani gli uccelli e le fonti! Non può esserci che la fine del mondo, più in là. (da Infanzia, 1978)
- La musica sapiente manca al nostro desiderio. (da Racconto, 1978)
- Giocolieri abilissimi, trasformano luoghi e persone e si servono
della commedia magnetica. Gli occhi fiammeggiano, il sangue canta, le
ossa si dilatano lacrime e filamenti rossi sgorgano. Lo scherzo o il
terrore dura un minuto, o mesi interi.
Solo io ho la chiave di questa parata selvaggia. (da Parata, 1994) - Ho abbastanza conosciuto. Le fermate della vita — O Frastuoni e Visioni!
Parto per affetti e rumori nuovi! (da Partenza, 1994) - Ci hanno promesso di seppellire nell'ombra l'albero del bene e del male, di deportare le onestà tiranniche, affinché potessimo condurre il nostro più puro amore. Tutto cominciò con un certo disgusto e tutto finì, – non potendo noi impadronirci subito di quell'eternità, – tutto finì con un effluvio di profumi. (da Mattinata d'ebbrezza, 1994)
- Noi ti proclamiamo mondo! Non dimentichiamo che ieri tu hai
glorificato ognuna delle nostre età. Abbiamo fiducia nel veleno.
Sappiamo donare ogni giorno tutta intera la nostra vita.
Questo è il tempo degli Assassini. (da Mattinata d'ebbrezza, 1994) - Come un dio dagli enormi occhi azzurri e dalle forme di neve, il mare e il cielo attirano sulle terrazze di marmo la folla delle giovani e forti rose. (da Fiori, 1994)
- Per Elena congiurarono le linfe ornamentali nelle ombre vergini e i chiarori impassibili nel silenzio astrale. L'ardore dell'estate fu affidato a uccelli muti e l'indolenza richiesta a una barca di lutti senza prezzo attraverso anse di amori morti e profumi estenuati. (da Fairy, 1994)
Citazioni sul testo
- [...] la parola Illuminations è inglese e significa incisione colorata, «coloured plates»: è il sottotitolo medesimo che Rimbaud aveva dato al suo manoscritto». (Paul Verlaine)
Lettere
- Fra due anni, fra un anno forse, sarò a Parigi.
– Anch'io, signori del giornale, sarò Parnassiano! – Ho in me qualcosa, non so bene… che vuol salire...– (a Théodore de Banville; Charleville, 24 maggio 1870)[1] - Caro Signore,
quel che lei mi consigliava di non fare, l'ho fatto: sono venuto a Parigi, ho abbandonato la casa materna! Ho combinato questo bello scherzo il 29 agosto.
Arrestato all'arrivo perché non avevo un soldo [...] (a Georges Izambard; Parigi, 5 settembre 1870)[1] - È falso dire: Io penso: si dovrebbe dire io sono pensato. – Scusi il gioco di parole.
IO è un altro. (a Georges Izambard; Charleville, 13 maggio 1871)[1]
- JE est un autre.[1]
- Chiuso perpetuamente in questa inqualificabile contrada ardennese, senza frequentare un solo uomo, raccolto in un lavoro infame, inetto, ostinato, misterioso, rispondendo col silenzio alle domande, alle apostrofi grossolane e cattive, mostrandomi dignitoso nella mia posizione extra-legale, ho finito col provocare risoluzioni atroci, da parte d'una madre inflessibile quanto settantatré amministrazioni dai berretti di piombo. (a Paul Demeny; Charleville, 28 agosto 1871)[1]
- Ho una sete, da far temere la cancrena: i fiumi arduani e belgi, le spelonche, ecco il mio rimpianto. (a Ernst Delahye; Parmerda, Giugno 1872)[1]
- Ritorna, ritorna, amico mio, caro, unico amico, ritorna. Ti giuro che sarò buono. Se sono stato grossolano con te, era uno scherzo in cui m'incaponivo, me ne pento più di quel che non sia possibile dire. Ritorna, tutto sarà dimenticato. Che disgrazia, che tu abbia dato peso a quello scherzo. Da due giorni non smetto di piangere. (a Paul Verlaine; Londra, 4 luglio 1873)[1]
- Mi annoio molto, sempre; anzi, non ho mai conosciuto nessuno che si annoi quanto me. [...] Costretto a parlare il loro ostrogoto, a mangiare le loro schifose pietanze, a subire i mille fastidi che provengono dalla loro pigrizia, dal loro tradimento, dalla loro stupidità! (alla famiglia; Harar, 4 agosto 1888)[1]
Lettera del Veggente[2]
- Infatti; Io è un altro. Se l'ottone si desta tromba, non è certo per colpa sua. La cosa mi pare ovvia: io assisto allo sbocciare del mio pensiero: lo guardo, lo ascolto: do un colpo d'archetto: la sinfonia si agita nelle profondità, oppure salta con un balzo sulla scena.[3]
- Perché io è un altro. Se l'ottone si sveglia tromba, non è affatto colpa sua.[1]
- Car JE est un autre. Si le cuivre s'éveille clairon, il n'y a rien de sa faute.[1]
- Il primo studio dell'uomo che voglia esser poeta è la sua propria conoscenza, intera; egli cerca la sua anima, l'indaga, la scruta, l'impara. Appena la sa, deve coltivarla; la cosa sembra semplice: in ogni cervello si compie uno sviluppo naturale; tanti egoisti si proclamano autori; ce ne sono molti altri che si attribuiscono il loro progresso intellettuale![3]
- Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d'amore, di sofferenza, di pazzia; cerca egli stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza.[3]
- Questa lingua sarà anima per l'anima, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori; pensiero che uncina il pensiero e tira.[3]
- Ma siccome investigare l'invisibile e udire l'inaudito è cosa diversa dal riprendere lo spirito delle cose morte, Baudelaire è il primo veggente, il re dei poeti, un vero Dio. Tuttavia egli è vissuto in un ambiente troppo artistico; e la forma tanto vantata in lui è meschina: le invenzioni d'ignoto richiedono forme nuove.[3]
Poesie
- Non dirò niente, non penserò niente: ma | L'amore infinito mi salirà nell'anima, | E andrò lontano, più lontano, come uno zingaro | Nella Natura, – felice come con un donna. (da Sensazione, vv. 4-8, 1992)
- Il Sole, focolare di tenerezza e vita, | Versa amore bruciante alla terra estatica, | E stesi nella valle noi sentiamo | Che la terra è nubile e trabocca di sangue; | Che il suo seno immenso, gonfiato di un'anima, | È amore come dio, è carne come donna, | E in sé racchiude, pregno di raggi e linfa, | Il vasto brulicare di tutti gli embrioni! | E tutto cresce, e tutto sorge! | – Venere, oh Dea! (da Credo in Unam, vv. 1-9, 1992)
- Da mille anni e più la dolorosa Ofelia | Passa, fantasma bianco, sul lungo fiume nero; | Da mille anni e più la sua dolce follia | Mormora una romanza al vento della sera. | La brezza le bacia il seno e discende a corolla | Gli ampi veli, dolcemente cullati dalle acque; | Le piange sull'omero il brivido dei salici, | S'inclinano sulla fronte sognate le giuncaie. (da Ofelia, vv. 5-12, 1992)
- No, a diciassette anni non si può essere seri. (da Romanzo, v. 1, 1992)
- Quando hai diciassette anni non fai veramente sul serio. (1978)
- Poi sentirai sulla guancia un solletico... | Un bacio leggero, ragno impazzito, corre | Su e giù per il collo... (da Sognato per l'inverno, vv. 9-11, 1992)
- Me ne andavo, coi pugni nelle tasche sfondate; | Anche il mio paltò diventava ideale; | Andavo sotto il cielo, Musa! ed ero il tuo fedele; | Perbacco! quanti amori splendidi ho sognato! (da La mia Bohéme (Fantasia), vv. 1-4, 1992)
- Benigno come l'Iddio del cedro e dell'issopo, | Piscio verso gli oscuri cieli, alto e lontano, | Con l'acconsentimento dei grandi eliotropi. (da Orazione della sera, vv. 12-14, 1992)
- A sette anni, faceva romanzi sulla vita | Del vasto deserto, dove splende una Libertà felice | Sole, foreste, savane, rive! (da I poeti di sette anni, vv. 31-33, 1992)
- Attruppati fra i banchi di quercia, in cantucci di chiesa | Tiepidi dei loro fiati puzzolenti, con gli occhi | Volti agli stalli ruscellanti d'oro e a cantorie | Di venti musi mugghianti salmi sacri; | Come un profumo di pane fiutando odor di cera, | Felici, umiliati come cani battuti, | I Poveri al loro signore e padrone, il buon Dio, | Offrono gli oremus risibili e cocciuti. (da I poveri in chiesa, vv. 1-8, 1992)
- A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali, (da Vocali, v. 1, 1992)
- La stella piange rosa in seno alle tue orecchie, | L'infinito rotola bianco dalla nuca alle reni | Il mare ingemma fulvo le tue mamme vermiglie | L'Uomo dà sangue nero al tuo fianco sovrano. (da La stella piange rosa, vv. 1-4, 1992)
- Mentre scendevo lungo Fiumi impassibili, | Non mi sentii più guidato dai trainanti. | Pellirossa chiassosi li avevano inchiodati, | Nudo bersaglio, ai pali variopinti. (da Battello ebbro, vv. 1-4, 1992)
- Ghiacciai, soli d'argento, madreperla dei flutti, cieli | Di brace! Immondo arenarsi in fondo a golfi bruni | Dove serpenti enormi divorati da cimici | Cadono, con fosci odori, dagli alberi tòrti! (da Battello ebbro, vv. 53-56, 1992)
- Leggiadro come angelo è il cielo | Comunicano l'onda e l'azzurro. | Esco. Se mi ferisce un raggio | Soccomberò sul muschio. (da Bandiere di Maggio, vv. 7-10, 1992)
- Ho avuto tanta pazienza | Da scordare per sempre; | Sofferenze, timori, | Son finiti su in cielo. | E la sete malsana | Mi oscura le vene. (da Canzone della torre più alta, vv. 13-18, 1992)
- È ritrovata. | Che? – L'Eternità. | È il mare andato via | Col sole. (da L'Eternità, vv. 1-4, 1992)
- È ritrovata. | Che? – L'Eternità | È il mare andato | Con il sole. (1978)
- Il lupo urlava sotto le foglie | Sputando le piume più belle | Del suo pasto di polli: | Come lui mi consumo. (da Il lupo urlava, vv. 1-4, 1992)
Incipit de Il battello ebbro
Un giorno, scendendo lungo fiumi impassibili,
sentii che i battellieri non mi trainavano più.
Urlanti pellirossa li avevano assaliti
a frecciate, e inchiodati ai pali variopinti.
[citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993]sentii che i battellieri non mi trainavano più.
Urlanti pellirossa li avevano assaliti
a frecciate, e inchiodati ai pali variopinti.
Stupra
- Un tempo gli animali montavano anche in corsa, | Con il sesso fasciato di escrementi e di sangue. | I nostri padri ostentavano il membro fieramente | Dalla grana del sacco e da guaìne aperte. (I, vv. 1-4, 1992)
- I nostri deretani non sono i loro. Spesso | Ho visto gente sbottonata di là da qualche siepe | E, nei bagni impudichi in cui l'infanzia gioca, | Osservavo gli scorci e gli effetti dei culi. (II, vv. 1-4, 1992)
- È l'estatica oliva e il flauto carezzevole, | È il tubo ove scende la mandorla celeste, | Femmineo Canaàn cinto agli umidori. (III, vv. 12-14, 1992)
Una stagione all'inferno
Incipit
Originale
Jadis, si je me souviens bien, ma vie était un festin où s'ouvraient tous les coeurs, où tous les vins coulaient.
Un soir, j'ai assis la Beauté sur mes genoux. – Et je l'ai trouvée amère. – Et je l'ai injuriée.
Je me suis armé contre la justice.
Je me suis enfui. O sorcières, ô misère, ô haine, c'est à vous que mon trésor a été confié !
Je parvins à faire s'évanouir dans mon esprit toute l'espérance humaine. Sur toute joie pour l'étrangler j'ai fait le bond sourd de la bête féroce.
J'ai appelé les bourreaux pour, en périssant, mordre la crosse de leurs fusils. J'ai appelé les fléaux, pour m'étouffer avec le sable, avec le sang. Le malheur a été mon dieu. Je me suis allongé dans la boue. Je me suis séché à l'air du crime. Et j'ai joué de bons tours à la folie.
Et le printemps m'a apporté l'affreux rire de l'idiot.
Un soir, j'ai assis la Beauté sur mes genoux. – Et je l'ai trouvée amère. – Et je l'ai injuriée.
Je me suis armé contre la justice.
Je me suis enfui. O sorcières, ô misère, ô haine, c'est à vous que mon trésor a été confié !
Je parvins à faire s'évanouir dans mon esprit toute l'espérance humaine. Sur toute joie pour l'étrangler j'ai fait le bond sourd de la bête féroce.
J'ai appelé les bourreaux pour, en périssant, mordre la crosse de leurs fusils. J'ai appelé les fléaux, pour m'étouffer avec le sable, avec le sang. Le malheur a été mon dieu. Je me suis allongé dans la boue. Je me suis séché à l'air du crime. Et j'ai joué de bons tours à la folie.
Et le printemps m'a apporté l'affreux rire de l'idiot.
Gabriele-Aldo Bertozzi
Un tempo, se ben ricordo, la mia vita era un festino dove si schiudeva ogni cuore, ogni vino scorreva.Una sera, feci sedere la Bellezza sulle mie ginocchia. — E la trovai amara. — E l'ingiuriai.
Mi armai contro la giustizia.
Fuggii. Oh streghe, oh miseria, oh odio, a voi il mio tesoro fu affidato!
Riuscii a cancellare dal mio spirito ogni speranza umana. Su ogni gioia per strangolarla feci il balzo sordo della bestia feroce.
Invocai i carnefici per mordere morendo il calcio dei loro fucili. Invocai i cataclismi per soffocarmi con la sabbia, il sangue. La sciagura fu la mia dea. Mi stesi nel fango. Mi asciugai al vento del crimine. E giocai brutti tiri alla follia.
E la primavera mi portò il riso orrendo dell'idiota.
[Gabriele-Aldo Bertozzi, Newton, 1995]
Citazioni
- La morte, raggiungila con tutti i tuoi appetiti, e il tuo egoismo e tutti i peccati capitali. (da «Un tempo, se ricordo bene...», 1972)
- Il malanno è stato il mio dio. (da «Un tempo, se ricordo bene...», 1972)
- Mi sono disteso nel fango. Mi sono asciugato al vento del delitto. E alla follia ho giocato qualche brutto tiro. (da «Un tempo, se ricordo bene...», 1972)
- Adesso sono maledetto, detesto la patria. Il meglio, è un sonno proprio da ubriaco, sul greto. (da Sangue cattivo, 1972)
- I criminali sono disgustosi come i castrati: io, sono intatto, e per me fa lo stesso. (da Sangue cattivo, 1972)
- I Galli erano scorticatori di bestie, bruciatori d'erbe: i più inabili del loro tempo. (da Sangue cattivo, 1972)
- La mia razza non si è mai ribellata se non per predare: come i lupi con l'animale che non hanno ucciso. (da Sangue cattivo, 1972)
- La vita è la farsa che dobbiamo recitare tutti. (da Sangue cattivo, 1972)
- Non credo di essermi imbarcato per uno sposalizio, con Gesù Cristo per suocero. (da Sangue cattivo, 1972)
- Soltanto l'amore divino concede le chiavi della scienza. (da Sangue cattivo, 1972)
- Io capisco, e siccome non mi so spiegare senza parole pagane, vorrei tacere. (da Sangue cattivo, 1972)
- Credo d'essere in inferno, dunque ci sono. (da Notte dell'inferno, 1972)
- L'inferno non può intaccare i pagani. (da Notte dell'inferno, 1972)
- La teologia è seria, certamente l'inferno sta in basso – e il cielo in alto. (da Notte dell'inferno, 1972)
- L'amore è da reinventare, si sa. (da Vergine folle, 1978)
- L'amour est à réinventer, on le sait.
- Sono nel profondo dell'abisso, e non so più pregare. (da Vergine folle, 1972)
- La morale è la debolezza del cervello. (da Alchimia del Verbo, 1972)
- Scrivevo silenzi, notti, segnavo l'inesprimibile. Fissavo vertigini. (da Alchimia del Verbo, 1972)
- Adesso posso dire che l'arte è una sciocchezza. (da Minute per Una Stagione in Inferno, 1972)
- Ho orrore di ogni mestiere. Padroni e operai, tutti bifolchi, ignobili. La mano per scrivere vale la mano per arare. — Che secolo di mani! — Io non avrò mai la mia mano. (da Cattivo sangue, 1995)
- È la visione dei numeri. Noi andiamo verso lo Spirito. È certissimo, è oracolo, quel che dico. (da Cattivo sangue, 1995)
- [...] non sono mai stato cristiano; sono della razza che cantava nel supplizio [...] (da Cattivo sangue, 1995)
- Che zitella divento, se mi manca il coraggio di amare la morte! (da Cattivo sangue, 1995)
- Mi abituai all'allucinazione semplice: vedevo molto chiaramente una moschea al posto di un'officina, una scuola di tamburi tenuta da angeli, calessi per le vie del cielo, un salotto in fondo al lago; i mostri, i misteri; un titolo di vaudeville faceva sorgere davanti a me i terrrori. (da Alchimia del Verbo, 1995)
- È tutto passato. Oggi so salutare la bellezza. (da Alchimia del Verbo, 1995)
- Ho il mio compito, ne sarò fiero come molti, mettendolo da parte. (da Il lampo, 1995)
- Quando andremo oltre le spiagge estese e i monti, a salutare la nascita del nuovo lavoro, la saggezza novella, la fuga dei tiranni e dei demoni, la fine della superstizione, ad adorare — per primi! — Natale sulla terra! (da Mattino, 1995)
- E all'aurora, armati di una ardente pazienza, entreremo nelle splendide città. (da Addio, 1995)
- Bisogna essere assolutamente moderni. (da Addio, 1995)
Citazioni su Arthur Rimbaud
- Avevo diciott'anni o giù di lì quando scoprii Ginsberg, Gary Snyder, Phillip Whalen, Frank O'Hara e gli altri. Poi risalii indietro nel tempo, e cominciai a leggere i francesi, Rimbaud e Francois Villon. (Bob Dylan)
- Ho avuto la fortuna di vedere Radiguet scrivere il suo libro come un compito, durante le vacanze del 1921. Lo dico perché questo ragazzo prodigio stupisce per la sua mancanza di mostruosità. Rimbaud può venir spiegato dai suoi incubi infantili. Mi domando dove ficca le mani codesto prestigiatore. Radiguet lavora in pieno giorno con le maniche rimboccate. Rimbaud soddisfa l'idea drammatica, breve e folgorante, che la gente si fa del genio. Radiguet ha avuto la fortuna di nascere dopo l'epoca in cui una luce opaca attraeva il fulmine. Egli ci sorprende dunque per la sua scipitezza. Sono molti a esprimersi in tal modo. Il foglio trasparente dello scandolo c'impedisce ancora di ammettere che alla nostra epoca l'anarchia si presenti sotto forma di colomba. (Jean Cocteau)
- Iddio sia mille volte benedetto! Io ho provato domenica la più grabde felicità che possa avere in questo mondo. Non è più un povero e infelice reprobo che sta morendo vicino a me: è un giusto, un santo, un martire, un eletto! (Isabelle Rimbaud)
- Lo si è detto convertito al cristianesimo. Nessuna singola formula religiosa, fosse pure la cattolica, era capace di includere le sue colossali e inaudite misticità. (Paterne Berrichon)
- Mistico allo stato selvaggio. (Paul Claudel)
- Si può affermare, quasi senza metafora, che Rimbaud è l'essere esente dal peccato originale... (Jacques Rivière)
- Significativo il contributo dato da un altro precursore del simbolismo, Arthur Rimbaud, autore di Le Bateau Ivre, 1871; Illuminations, 1872; Une saison en Enfer, 1873, e che scrisse quasi tutti i componimenti prima dei diciannove anni. Per Rimbaud il poeta è un creatore, un nuovo Prometeo alla conquista del fuoco divino attraverso l'investigazione dell'inconoscibile. (Pietro Nigro)
- Un giovane grande e robusto, dalla faccia rubiconda, un contadino... Gli occhi erano azzurri, molto belli, ma avevano una espressione cupa... I calzoni corti lasciavano vedere dei calzerotti di colore turchino lavorati a maglia. (Matilde Verlaine[4])
- Un temperamento metafisico – fra i più eccessivi – in carne di poeta, e la lotta di questo temperamento, che come tale non si conosce, per trovare nel sistema chiuso del fatto d'arte uno sfogo che finisce con lo spezzare con la sua fronte. (Benjamin Fondane)
- Vorrei anch' io poter dire con Rimbaud: «Volo alto sopra l'azione». No, non volo, ma mi sforzo di distinguere la verità dall'evidenza, e dico che la verità è problematica, è coperta, mentre l'evidenza è più semplice e semplicemente dovrebbe rivelarsi al solo suo apparire. (Raffaele La Capria)
Henri Daniel-Rops
- Arturo Rimbaud ha potuto, nei delirii della sua collera e nella frenesia del suo orgoglio, lanciare alla Notte parole che sembrano escludere ogni perdono. [...] egli ha saputo combattere la sola battaglia che merita di essere combattuta, «quella battaglia spirituale che è brutale quanto la battaglia fra uomini».
- Ogni uomo, degno di questo nome, conosce in sé, nel più profondo del suo essere, il dramma che Rimbaud ha sofferto e del quale ci ha lasciato la testimonianza.
- Ritrovare la purezza non nella coscienza ma in ciò che la nega: questo è stato il tentativo di Rimbaud, come di qualcun altro del suo stampo.
- Il vero dramma di Rimbaud, esattamente uguale sul piano umano a quello in cui ci parlano i testi, è dunque, a mio parere, il dramma di Satana ribellatosi a Dio e gettato nelle tenebre eterne.
Henry Miller
- Per quanto avventuriero, Rimbaud era tuttavia ossessionato dall'idea di raggiungere la libertà, che egli traduceva in termini di sicurezza economica.
- Rimbaud era stato un fanatico, un tipo a cui toccava andare a fondo, o di morire. In ciò consiste la sua purezza, la sua innocenza.
- Rimbaud fu un suicida vivente. Tanto più insopportabile per noi.
Paul Verlaine
- Angelo in esilio, Satana adolescente.
- Era un uomo alto, ben piantato, quasi atletico, dal volto perfettamente ovale di angelo in esilio, con capelli castano chiari in disordine e due occhi di un blu pallido inquietante. Ardennese, egli possedeva, oltre a un accento campagnolo troppo presto perduto, il dono della pronta assimilazione, propria delle genti di quel paese – e questo può spiegare il rapido inaridirsi, sotto il sole scialbo di Parigi, della sua vena, per dirla come i nostri avi, il cui linguaggio diretto e corretto non aveva sempre torto, in fin dei conti.
- Non ha fatto altro che viaggiare terribilmente e morire giovanissimo.
- Una specie di dolcezza splendeva sorridente in quegli occhi crudeli azzurro-chiari e su quella bocca vigorosa, rossa, dalla piega amara.
Note
- In Opere, a cura di Diana Grange Fiori, 1992.
- Spedita a Paul Demeny il 15 maggio 1871. Questa lettera è considerata fondamentale; ne esiste un'altra detta ugualmente del Veggente, spedita a Georges Izambard due giorni prima, il 13 maggio del 1871.
- In Opere, a cura di Ivos Margoni, 1978.
- Citato in Henri Daniel-Rops, Rimbaud, p. 21.
Da "http://arthurrimbaud.jimdo.com/libro-d-oro/lettera-del-veggente/" :
Lettera del Veggente
Questa
lettera, scritta appassionatamente da un Rimbaud appena sedicenne,
costituisce un elemento fondamentale nell'opera e
nel pensiero del poeta, e viene considerata il primo vero manifesto
delle correnti simboliste e surrealiste e dei movimenti d'avanguardia
letteraria che sarebbero germogliati di lì a poco.
La missiva è un urlo trionfante e feroce con cui Rimbaud investe il poeta della funzione di Profeta, di Veggente che ha la missione di guidare gli uomini sulla strada dell'Avvenire.
Il poeta deve la propria lucidità soprannaturale alla capacità di coltivare sistematicamente le sensazioni, allo sregolamento di tutti i sensi, e diventa Veggente grazie alla malattia, alla droga, al delitto, coltivando in sé allucinazioni e percezioni assolute: un concetto peraltro già adombrato qualche anno prima nei Paradisi artificiali di Baudelaire.
La Lettera del veggente (come ribattezzata dalla critica) è - per usare le parole di R. Gilbert-Lecomte - «il momento che consegna la vita di Rimbaud alla sua sovrumana esperienza.
E' un elemento grezzo, indicibilmente prezioso.
Per la sua critica del passato e per la domanda posta con orrenda lucidità intorno alla sorte definitiva di ogni umano tentativo, è il più struggente tentativo delle aspirazioni di un certo numero di persone. Il carattere unico, irriducibile, di novità assoluta, di questo tentativo, è per me la sincerità che Rimbaud vi ha messo, l'abbandono di sé».
La missiva è un urlo trionfante e feroce con cui Rimbaud investe il poeta della funzione di Profeta, di Veggente che ha la missione di guidare gli uomini sulla strada dell'Avvenire.
Il poeta deve la propria lucidità soprannaturale alla capacità di coltivare sistematicamente le sensazioni, allo sregolamento di tutti i sensi, e diventa Veggente grazie alla malattia, alla droga, al delitto, coltivando in sé allucinazioni e percezioni assolute: un concetto peraltro già adombrato qualche anno prima nei Paradisi artificiali di Baudelaire.
La Lettera del veggente (come ribattezzata dalla critica) è - per usare le parole di R. Gilbert-Lecomte - «il momento che consegna la vita di Rimbaud alla sua sovrumana esperienza.
E' un elemento grezzo, indicibilmente prezioso.
Per la sua critica del passato e per la domanda posta con orrenda lucidità intorno alla sorte definitiva di ogni umano tentativo, è il più struggente tentativo delle aspirazioni di un certo numero di persone. Il carattere unico, irriducibile, di novità assoluta, di questo tentativo, è per me la sincerità che Rimbaud vi ha messo, l'abbandono di sé».
Da "http://arthurrimbaud.jimdo.com/" :
«L’essere più straordinario che abbia mai solcato la terra.»
Jean Cocteau
Poeta maledetto francese, Arthur Rimbaud
fece a pezzi tutte le convenzioni sociali e letterarie di un'epoca
(tardo '800) placidamente assopita fra i rassicuranti guanciali della
tradizione.
Anima irrequieta e sovversiva, attraversò come una meteora decadentismo, simbolismo, surrealismo, contribuendo a produrne le espressioni più nobili e rivoluzionarie.
Scrisse poesie dai 15 ai 19 anni, denigrò il perbenismo del suo paese natale, scappò di casa, attaccò Stato e istituzioni, irruppe nel mondo artistico del tempo in un impeto distruttivo, indignò la borghesia, sbeffeggiò la religione, sconfessò la morale, instaurò una relazione scandalosa col poeta Verlaine, finì in carcere, ripudiò i canoni formali della poesia, forse partecipò alla Comune parigina, vagabondò per mezza Europa e teorizzò la funzione sociale del «poeta veggente».
All'improvviso abbandonò la letteratura e gli ideali di «cambiare la vita» rinnegandoli per sempre.
Continuò tuttavia a viaggiare approdando alfine in Africa, dove si diede al commercio di armi, pellami e spezie.
Colpito a un tumore al ginocchio destro, a 37 anni fu costretto a tornare in patria e gli venne amputata la gamba.
Morì poco dopo a causa dello stato avanzato del male.
Da quel momento cominciò la leggenda.
Sconosciuto all'avanguardia letteraria, noto soltanto a ristrette élite di intellettuali, la fama di Rimbaud prese ad ingigantirsi a dismisura in una marcia travolgente che arriva fino ai giorni nostri influenzando scrittori, musicisti, artisti.
Mistico allo stato selvaggio (Paul Claudel), primo poeta di una civiltà non ancora nata (René Char), Rimbaud ha incendiato una a una tutte le generazioni e quei gruppi politici e movimenti artistici che autoproclamandosi gli autentici depositari del suo «messaggio» non hanno esitato a contendersi un'eredità spirituale mai tanto ambita.
Agli albori del terzo millennio l'astro di Arthur Rimbaud continua ad avvampare imperioso, tuonando furiosamente, non scalfito dalla patina del tempo, monito e speranza per chi ancora è in cerca di una inimmaginabile alternativa.
Anima irrequieta e sovversiva, attraversò come una meteora decadentismo, simbolismo, surrealismo, contribuendo a produrne le espressioni più nobili e rivoluzionarie.
Scrisse poesie dai 15 ai 19 anni, denigrò il perbenismo del suo paese natale, scappò di casa, attaccò Stato e istituzioni, irruppe nel mondo artistico del tempo in un impeto distruttivo, indignò la borghesia, sbeffeggiò la religione, sconfessò la morale, instaurò una relazione scandalosa col poeta Verlaine, finì in carcere, ripudiò i canoni formali della poesia, forse partecipò alla Comune parigina, vagabondò per mezza Europa e teorizzò la funzione sociale del «poeta veggente».
All'improvviso abbandonò la letteratura e gli ideali di «cambiare la vita» rinnegandoli per sempre.
Continuò tuttavia a viaggiare approdando alfine in Africa, dove si diede al commercio di armi, pellami e spezie.
Colpito a un tumore al ginocchio destro, a 37 anni fu costretto a tornare in patria e gli venne amputata la gamba.
Morì poco dopo a causa dello stato avanzato del male.
Da quel momento cominciò la leggenda.
Sconosciuto all'avanguardia letteraria, noto soltanto a ristrette élite di intellettuali, la fama di Rimbaud prese ad ingigantirsi a dismisura in una marcia travolgente che arriva fino ai giorni nostri influenzando scrittori, musicisti, artisti.
Mistico allo stato selvaggio (Paul Claudel), primo poeta di una civiltà non ancora nata (René Char), Rimbaud ha incendiato una a una tutte le generazioni e quei gruppi politici e movimenti artistici che autoproclamandosi gli autentici depositari del suo «messaggio» non hanno esitato a contendersi un'eredità spirituale mai tanto ambita.
Agli albori del terzo millennio l'astro di Arthur Rimbaud continua ad avvampare imperioso, tuonando furiosamente, non scalfito dalla patina del tempo, monito e speranza per chi ancora è in cerca di una inimmaginabile alternativa.
~ § ~
Voglio essere poeta, e lavoro a rendermi Veggente:
lei non ci capirà niente, e io quasi non saprei spiegarle.
Si tratta di arrivare all'ignoto mediante la sregolatezza di tutti i sensi.
Le sofferenze sono enormi, ma bisogna essere forti, essere nati poeti,
e io mi sono riconosciuto poeta.
Non è affatto colpa mia. È falso dire: Io penso,
si dovrebbe dire: mi si pensa.
Scusi il gioco di parole.
IO è un altro.
Arthur Rimbaud
lettera al prof. Georges Izambard,
13 maggio 1871
Da "http://marteau7927.wordpress.com/2012/10/28/arthur-rimbaud-lettera-del-veggente/" :
Arthur Rimbaud - Lettera del veggente
Arthur Rimbaud
Lettera del veggente
Traduzione dall’originale in francese Lettre du voyantdi Marco Vignolo Gargini
Lettera del veggente
Traduzione dall’originale in francese Lettre du voyantdi Marco Vignolo Gargini
INTRODUZIONE A CURA DEL TRADUTTORE
A cinque mesi dal compimento del suo diciassettesimo anno di vita, che sarebbe caduto il 20 ottobre, Arthur Rimbaud scrisse e inviò due lettere, una al suo insegnante di letteratura francese Georges Izambard (13 maggio 1871), l’altra a un giovane poeta amico di Izambard, Paul Demeny (15 maggio 1871). La prima fu l’annuncio in sintesi del contenuto della seconda:
“…Adesso, io mi do ai bagordi il più possibile. Perché? Io voglio essere poeta, e lavoro per rendermi veggente: Lei non comprenderà affatto, e io non sarei quasi in grado di spiegare. Si tratta di pervenire all’ignoto attraverso lo sregolamento di tutti i sensi. Enormi sono le sofferenze, ma bisogna essere forte, essere nato poeta, ed io mi sono riconosciuto poeta. Io non ne ho per niente colpa. È falso dire: Io penso. Si dovrebbe dire: Mi si pensa. Perdoni il gioco di parole.
IO è un altro. Tanto peggio per il legno che si rinviene violino, e alla malora gli incoscienti, che fanno i sofisti su ciò che ignorano completamente!
Lei non è più insegnante per me. Io Le dono questo: della satira, come direbbe Lei? Della poesia? È la fantasia, sempre. – Ma, La scongiuro, non sottolinei né con la matita, né troppo con il pensiero…”
Arthur Rimbaud nella stessa lettera, poco prima del passo citato, fa il paragone tra il modo di vedere la poesia, e quindi la vita, del professore liceale, e il suo non voler cadere nella morsa dell’istituzionalizzazione. All’insegnante ricorda le sue parole, “On se doit à la Société, m’avez-vous dit” (“Dobbiamo noi stessi alla Società, mi ha detto”), e poi replica polemicamente:
“ …Io devo me stesso alla Società, è giusto, – e ho ragione. – Anche Lei, Lei ha ragione, per oggi. In fondo Lei non vede altro nel suo principio che la poesia soggettiva : la Sua ostinazione a riconquistare la greppia universitaria – mi scusi ! – la prova. Ma Lei farà sempre la fine del soddisfatto che non ha fatto niente, non avendo voluto far niente. Senza contare che la Sua poesia soggettiva sarà sempre orribilmente insipida. Un giorno, lo spero, – e tanti altri sperano lo stesso, – io vedrò nel Suo principio la poesia oggettiva, io la vedrò più sinceramente di Lei ! – Io sarò un lavoratore: è l’idea che mi frena quando la rabbia folle mi spinge spinge verso la battaglia di Parigi, – dove tanti lavoratori peraltro muoiono ancora mentre io Le scrivo! Lavorare adesso, mai, mai; io sono in sciopero”
Nella sua brevissima attività di poeta, praticamente un lustro, Arthur Rimbaud ha avuto ragione: la sua poesia “oggettiva” è ricordata, è celebrata, viene studiata dappertutto, e spesso fraintesa, mistificata, strumentalizzata, come succede, ahimè, alle opere degli artisti di genio. Il “lavoratore” Izambard è ricordato solo per essere stato l’insegnante di Arthur Rimbaud al Liceo di Charleville, non certo per la sua poesia “soggettiva”, quindi, ha avuto torto, con l’unica consolazione di poterlo avere in nome di quel principio così bene espresso da un “omo sanza lettere” come Leonardo da Vinci, il quale chiosava “Tristo è quel discepolo che non avanza il maestro”. Rimbaud ha “avanzato”, surclassato il suo maestro, divenendo un classico, un autore di opere date una volta per sempre, intramontabili.
La seconda lettera, ormai nota con il titolo Lettre du voyant, inviata ad un poeta, Paul Demeny, anch’esso pressoché obliato, ribadisce sostanzialmente e con più decisione la differenza tra l’essere un talento che si scopre da solo attraverso un lavoro immenso di “dérèglement de tous les sens”, ed essere un “lavoratore” che si limita a chiosare l’altrui opera.
Rimbaud crede di essere in procinto d’ottenere (se non di averlo già ottenuto!) ciò che Charles Baudelaire proclama nel finale della lirica Le Voyage: “Enfer ou Ciel, qu’importe? / Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau!” (“Cielo o Inferno, che importa? In fondo all’Ignoto per trovare il nuovo!) [1], ovvero il raggiungimento di ciò che non è stato ancora rappresentato, l’Inconnu. Come Baudelaire, forse più di Baudelaire, Arthur Rimbaud chiede all’arte il radicale rinnovamento, e la Lettre du voyant si può definire il manifesto di una rinascita totale che vede nell’artista il suo profeta.
Si sa che in seguito Rimbaud riassetterà le sue posizioni, probabilmente nel disincanto, probabilmente nella convinzione personale di non aver realizzato in pieno ciò che si prefiggeva all’epoca della scrittura della lettera a Paul Demeny, e testimoni potrebbero essere i passi in prosa di Alchimie du verbe (Alchimia del verbo) all’interno di Une saison en enfer (Una stagione all’inferno, presente su questo sito nella mia versione), nonché, non senza nostalgia, la magnifica Jeunesse IV (Giovinezza IV) delle Illuminations :
Tu sei ancora dentro la tentazione d’Antonio. Lo spasso dello zelo accorciato, i tic di puerile orgoglio, l’accasciamento e il terrore. Ma tu ti metterai al lavoro: tutte le possibilità armoniche ed architettoniche si muoveranno attorno al tuo seggio. Degli esseri perfetti, imprevisti, s’offriranno alle tue esperienze. Nelle tue vicinanze affluirà trasognante la curiosità di antiche folle e di lussi oziosi. La tua memoria e i tuoi sensi non saranno che il nutrimento del tuo impulso creatore. Quanto al mondo, quando tu uscirai, che sarà divenuto ? In ogni caso, nulla delle attuali apparenze! ” [2]
Rimbaud, l’adolescente che si fece poeta, si fece veggente, ponendo l’Io al centro del mondo, per il mondo, in un élan titanico verso quel secolare sogno artistico della conquista dell’Inconnu, ad un certo punto della sua vita depose la penna, stette, per dirla con Dante, “contento al quia” di ciò che aveva conseguito in ambito letterario. Non scrisse più, decise di disinteressarsi della sorte della sua opera fino ad allora compiuta (a Demeny, e non solo a lui, chiese addirittura di bruciare le composizioni che a suo tempo gli aveva inviato). La rinuncia di Rimbaud potrebbe essere letta alla stregua di un atto avveduto di ammissione dell’esaurimento della propria vena poetica, come se quel “demone” interiore che aveva insufflato versi, prose, sogni immensi di trasformazione dell’umanità, si fosse misteriosamente ammutolito, incapace di dettare ancora un altro verso, un’altra prosa, un altro sogno. Il silenzio di Rimbaud, che durò fino all’ultimo suo giorno di vita, ha quasi il sapore di uno sciopero permanente, di un rifiuto del lavoro alla “catena di montaggio” della produzione poetica, di una protesta contro tutti i sistemi che anticamente si volevano sfidare. S’è anche parlato d’una passività insita in quei être voyant, se faire voyant (“esser veggente, farsi veggente”), di una sorta di allucinazione che il ragazzo di Charleville si ritrovò a “sedare”. Il risultato di questa “guarigione” sarebbe stato allora il silenzio? Un silenzio interpretato quale attività cosciente che avrebbe scaricato questo long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens (“ lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi”)? Trovo che le discussioni infervorate in ambito critico sull’attività-passività, sul dentro-fuori della poesia, o della letteratura in genere, siano i “giochi di bimbi” di eraclitèa memoria [3], o, per citare un altro grande poeta, ricordino La poesia (In Italia) di Eugenio Montale (1896-1981):
“Dagli albori del secolo si discute
se la poesia sia dentro o fuori.
Dapprima vinse il dentro, poi contrattaccò duramente
Il fuori e dopo anni si addivenne a un forfait
Che non potrà durare perché il fuori
È armato fino ai denti.”. [4]
A cinque mesi dal compimento del suo diciassettesimo anno di vita, che sarebbe caduto il 20 ottobre, Arthur Rimbaud scrisse e inviò due lettere, una al suo insegnante di letteratura francese Georges Izambard (13 maggio 1871), l’altra a un giovane poeta amico di Izambard, Paul Demeny (15 maggio 1871). La prima fu l’annuncio in sintesi del contenuto della seconda:
“…Adesso, io mi do ai bagordi il più possibile. Perché? Io voglio essere poeta, e lavoro per rendermi veggente: Lei non comprenderà affatto, e io non sarei quasi in grado di spiegare. Si tratta di pervenire all’ignoto attraverso lo sregolamento di tutti i sensi. Enormi sono le sofferenze, ma bisogna essere forte, essere nato poeta, ed io mi sono riconosciuto poeta. Io non ne ho per niente colpa. È falso dire: Io penso. Si dovrebbe dire: Mi si pensa. Perdoni il gioco di parole.
IO è un altro. Tanto peggio per il legno che si rinviene violino, e alla malora gli incoscienti, che fanno i sofisti su ciò che ignorano completamente!
Lei non è più insegnante per me. Io Le dono questo: della satira, come direbbe Lei? Della poesia? È la fantasia, sempre. – Ma, La scongiuro, non sottolinei né con la matita, né troppo con il pensiero…”
Arthur Rimbaud nella stessa lettera, poco prima del passo citato, fa il paragone tra il modo di vedere la poesia, e quindi la vita, del professore liceale, e il suo non voler cadere nella morsa dell’istituzionalizzazione. All’insegnante ricorda le sue parole, “On se doit à la Société, m’avez-vous dit” (“Dobbiamo noi stessi alla Società, mi ha detto”), e poi replica polemicamente:
“ …Io devo me stesso alla Società, è giusto, – e ho ragione. – Anche Lei, Lei ha ragione, per oggi. In fondo Lei non vede altro nel suo principio che la poesia soggettiva : la Sua ostinazione a riconquistare la greppia universitaria – mi scusi ! – la prova. Ma Lei farà sempre la fine del soddisfatto che non ha fatto niente, non avendo voluto far niente. Senza contare che la Sua poesia soggettiva sarà sempre orribilmente insipida. Un giorno, lo spero, – e tanti altri sperano lo stesso, – io vedrò nel Suo principio la poesia oggettiva, io la vedrò più sinceramente di Lei ! – Io sarò un lavoratore: è l’idea che mi frena quando la rabbia folle mi spinge spinge verso la battaglia di Parigi, – dove tanti lavoratori peraltro muoiono ancora mentre io Le scrivo! Lavorare adesso, mai, mai; io sono in sciopero”
Nella sua brevissima attività di poeta, praticamente un lustro, Arthur Rimbaud ha avuto ragione: la sua poesia “oggettiva” è ricordata, è celebrata, viene studiata dappertutto, e spesso fraintesa, mistificata, strumentalizzata, come succede, ahimè, alle opere degli artisti di genio. Il “lavoratore” Izambard è ricordato solo per essere stato l’insegnante di Arthur Rimbaud al Liceo di Charleville, non certo per la sua poesia “soggettiva”, quindi, ha avuto torto, con l’unica consolazione di poterlo avere in nome di quel principio così bene espresso da un “omo sanza lettere” come Leonardo da Vinci, il quale chiosava “Tristo è quel discepolo che non avanza il maestro”. Rimbaud ha “avanzato”, surclassato il suo maestro, divenendo un classico, un autore di opere date una volta per sempre, intramontabili.
La seconda lettera, ormai nota con il titolo Lettre du voyant, inviata ad un poeta, Paul Demeny, anch’esso pressoché obliato, ribadisce sostanzialmente e con più decisione la differenza tra l’essere un talento che si scopre da solo attraverso un lavoro immenso di “dérèglement de tous les sens”, ed essere un “lavoratore” che si limita a chiosare l’altrui opera.
Rimbaud crede di essere in procinto d’ottenere (se non di averlo già ottenuto!) ciò che Charles Baudelaire proclama nel finale della lirica Le Voyage: “Enfer ou Ciel, qu’importe? / Au fond de l’Inconnu pour trouver du nouveau!” (“Cielo o Inferno, che importa? In fondo all’Ignoto per trovare il nuovo!) [1], ovvero il raggiungimento di ciò che non è stato ancora rappresentato, l’Inconnu. Come Baudelaire, forse più di Baudelaire, Arthur Rimbaud chiede all’arte il radicale rinnovamento, e la Lettre du voyant si può definire il manifesto di una rinascita totale che vede nell’artista il suo profeta.
Si sa che in seguito Rimbaud riassetterà le sue posizioni, probabilmente nel disincanto, probabilmente nella convinzione personale di non aver realizzato in pieno ciò che si prefiggeva all’epoca della scrittura della lettera a Paul Demeny, e testimoni potrebbero essere i passi in prosa di Alchimie du verbe (Alchimia del verbo) all’interno di Une saison en enfer (Una stagione all’inferno, presente su questo sito nella mia versione), nonché, non senza nostalgia, la magnifica Jeunesse IV (Giovinezza IV) delle Illuminations :
Tu sei ancora dentro la tentazione d’Antonio. Lo spasso dello zelo accorciato, i tic di puerile orgoglio, l’accasciamento e il terrore. Ma tu ti metterai al lavoro: tutte le possibilità armoniche ed architettoniche si muoveranno attorno al tuo seggio. Degli esseri perfetti, imprevisti, s’offriranno alle tue esperienze. Nelle tue vicinanze affluirà trasognante la curiosità di antiche folle e di lussi oziosi. La tua memoria e i tuoi sensi non saranno che il nutrimento del tuo impulso creatore. Quanto al mondo, quando tu uscirai, che sarà divenuto ? In ogni caso, nulla delle attuali apparenze! ” [2]
Rimbaud, l’adolescente che si fece poeta, si fece veggente, ponendo l’Io al centro del mondo, per il mondo, in un élan titanico verso quel secolare sogno artistico della conquista dell’Inconnu, ad un certo punto della sua vita depose la penna, stette, per dirla con Dante, “contento al quia” di ciò che aveva conseguito in ambito letterario. Non scrisse più, decise di disinteressarsi della sorte della sua opera fino ad allora compiuta (a Demeny, e non solo a lui, chiese addirittura di bruciare le composizioni che a suo tempo gli aveva inviato). La rinuncia di Rimbaud potrebbe essere letta alla stregua di un atto avveduto di ammissione dell’esaurimento della propria vena poetica, come se quel “demone” interiore che aveva insufflato versi, prose, sogni immensi di trasformazione dell’umanità, si fosse misteriosamente ammutolito, incapace di dettare ancora un altro verso, un’altra prosa, un altro sogno. Il silenzio di Rimbaud, che durò fino all’ultimo suo giorno di vita, ha quasi il sapore di uno sciopero permanente, di un rifiuto del lavoro alla “catena di montaggio” della produzione poetica, di una protesta contro tutti i sistemi che anticamente si volevano sfidare. S’è anche parlato d’una passività insita in quei être voyant, se faire voyant (“esser veggente, farsi veggente”), di una sorta di allucinazione che il ragazzo di Charleville si ritrovò a “sedare”. Il risultato di questa “guarigione” sarebbe stato allora il silenzio? Un silenzio interpretato quale attività cosciente che avrebbe scaricato questo long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens (“ lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi”)? Trovo che le discussioni infervorate in ambito critico sull’attività-passività, sul dentro-fuori della poesia, o della letteratura in genere, siano i “giochi di bimbi” di eraclitèa memoria [3], o, per citare un altro grande poeta, ricordino La poesia (In Italia) di Eugenio Montale (1896-1981):
“Dagli albori del secolo si discute
se la poesia sia dentro o fuori.
Dapprima vinse il dentro, poi contrattaccò duramente
Il fuori e dopo anni si addivenne a un forfait
Che non potrà durare perché il fuori
È armato fino ai denti.”. [4]
Nel frattempo, mentre il
fuori è agguerrito e prova a rompere la tregua, ascoltiamo Arthur
Rimbaud donare a Paul Demeny, e donarci, questa heure de littérature nouvelle (ora di letteratura nuova).
uuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu
A Paul Demeny
a Douai.
Charleville, 15 maggio 1871.
Mi sono deciso a donarLe un’ora di letteratura nuova. Comincio subito con un salmo di attualità:
Chant de guerre parisien [5]
Le Printemps est évident, car…
A. Rimbaud.
– Ed ecco della prosa sull’avvenire della poesia: –
Tutta la poesia antica tende alla poesia greca, Vita armoniosa. – Dalla Grecia al movimento romantico, – medioevo, – vi sono dei letterati, dei versificatori. Da Ennio [6] a Turoldo [7], da Turoldo a Casimir Delavigne [8], tutto è prosa rimata, un gioco, svaccamento e gloria di innumerevoli generazioni idiote: Racine [9] è il puro, il forte, il grande. – Se si fosse soffiato sulle sue rime e imbrogliato i suoi emistichi, il Divino Sciocco sarebbe oggi ignorato quanto un qualsivoglia autore di Origini. – Dopo Racine, il gioco s’ammuffisce. È durato duemila anni!
Nessuno scherzo nessun paradosso. La ragione m’ispira più certezze sull’argomento di quante ire avrebbe potuto avere un Jeune-France [10]. Del resto, i nuovi sono liberi di esecrare i vecchi: siamo a casa nostra e abbiamo il tempo.
a Douai.
Charleville, 15 maggio 1871.
Mi sono deciso a donarLe un’ora di letteratura nuova. Comincio subito con un salmo di attualità:
Chant de guerre parisien [5]
Le Printemps est évident, car…
A. Rimbaud.
– Ed ecco della prosa sull’avvenire della poesia: –
Tutta la poesia antica tende alla poesia greca, Vita armoniosa. – Dalla Grecia al movimento romantico, – medioevo, – vi sono dei letterati, dei versificatori. Da Ennio [6] a Turoldo [7], da Turoldo a Casimir Delavigne [8], tutto è prosa rimata, un gioco, svaccamento e gloria di innumerevoli generazioni idiote: Racine [9] è il puro, il forte, il grande. – Se si fosse soffiato sulle sue rime e imbrogliato i suoi emistichi, il Divino Sciocco sarebbe oggi ignorato quanto un qualsivoglia autore di Origini. – Dopo Racine, il gioco s’ammuffisce. È durato duemila anni!
Nessuno scherzo nessun paradosso. La ragione m’ispira più certezze sull’argomento di quante ire avrebbe potuto avere un Jeune-France [10]. Del resto, i nuovi sono liberi di esecrare i vecchi: siamo a casa nostra e abbiamo il tempo.
Non
s’è mai giudicato bene il romanticismo. E chi l’avrebbe giudicato? I
critici? I romantici? che provano così bene che la canzone è così di
rado l’opera, e cioè il pensiero cantato e compreso dal cantore?
Giacché Io è un altro. Se l’ottone si risveglia tromba, non è per niente colpa sua. Ciò mi pare evidente: io assisto allo schiudersi del mio pensiero: io lo guardo, io lo ascolto: do un colpo d’archetto: la sinfonia si rimescola nelle profondità, oppure arriva con un balzo sulla scena.
Se i vecchi imbecilli non avessero trovato dell’Io che il significato falso, non avremmo da spazzar via questi milioni di scheletri che, da tempo infinito, hanno ammucchiato i prodotti della loro orba intelligenza, proclamandosene gli autori!
In Grecia, ho detto, versi e lire ritmano l’Azione. Dopo, musica e rime sono giochi, svaghi. Lo studio di questo passato affascina i curiosi: parecchi si dilettano a rinnovare queste anticaglie: – a loro sta bene. L’intelligenza universale ha sempre lanciato le sue idee naturalmente; gli uomini raccattavano una parte di questi frutti del cervello: agivano con esse, ci scrivevano libri: tale era l’andamento, poiché l’uomo non lavorava a se stesso, non essendo ancora desto, o non ancora nella pienezza del gran sogno. Dei funzionari, degli scrittori: autore, creatore, poeta, quest’uomo non è mai esistito!
Il primo studio dell’uomo che vuole essere poeta è la sua propria conoscenza, intera; egli cerca la sua anima, la indaga, la tenta, l’apprende. Da che poi la sa, la deve coltivare; questo sembra semplice: in ogni cervello si compie uno sviluppo naturale; tanti egoisti si proclamano autori; ve ne sono molti altri che si attribuiscono il proprio progresso intellettuale! – Ma si tratta di rendere l’anima mostruosa: a guisa di comprachicos, insomma! Immagini un uomo che si pianti e coltivi le verruche sul viso.
Giacché Io è un altro. Se l’ottone si risveglia tromba, non è per niente colpa sua. Ciò mi pare evidente: io assisto allo schiudersi del mio pensiero: io lo guardo, io lo ascolto: do un colpo d’archetto: la sinfonia si rimescola nelle profondità, oppure arriva con un balzo sulla scena.
Se i vecchi imbecilli non avessero trovato dell’Io che il significato falso, non avremmo da spazzar via questi milioni di scheletri che, da tempo infinito, hanno ammucchiato i prodotti della loro orba intelligenza, proclamandosene gli autori!
In Grecia, ho detto, versi e lire ritmano l’Azione. Dopo, musica e rime sono giochi, svaghi. Lo studio di questo passato affascina i curiosi: parecchi si dilettano a rinnovare queste anticaglie: – a loro sta bene. L’intelligenza universale ha sempre lanciato le sue idee naturalmente; gli uomini raccattavano una parte di questi frutti del cervello: agivano con esse, ci scrivevano libri: tale era l’andamento, poiché l’uomo non lavorava a se stesso, non essendo ancora desto, o non ancora nella pienezza del gran sogno. Dei funzionari, degli scrittori: autore, creatore, poeta, quest’uomo non è mai esistito!
Il primo studio dell’uomo che vuole essere poeta è la sua propria conoscenza, intera; egli cerca la sua anima, la indaga, la tenta, l’apprende. Da che poi la sa, la deve coltivare; questo sembra semplice: in ogni cervello si compie uno sviluppo naturale; tanti egoisti si proclamano autori; ve ne sono molti altri che si attribuiscono il proprio progresso intellettuale! – Ma si tratta di rendere l’anima mostruosa: a guisa di comprachicos, insomma! Immagini un uomo che si pianti e coltivi le verruche sul viso.
Io dico che bisogna esser veggente, farsi veggente.
Il Poeta si fa veggente attraverso un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; cerca egli stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale lui diventa il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, – e il supremo Saggio! – Perché arriva all’ignoto!
Poiché ha coltivato la sua anima, già ricca, più di qualsiasi altro! Egli arriva all’ignoto, e quando, impazzito, finisse col perdere l’intelligenza delle sue visioni, lui le ha viste! Che crepi nel suo salto tra le cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti dove l’altro si è accasciato!
– il seguito fra sei minuti -
Qui faccio intercalare un secondo salmo, un fuori testo: voglia porgermi un compiacente orecchio, – e tutti saranno deliziati. – Ho l’archetto in mano, io comincio:
Mes petites amoureuses [11]
Un hydrolat lacrymal lave…
A. R.
Ecco. E noti bene che, se io non temessi di farLe sborsare più di 60 centesimi di tassa, – io, povero sventurato che, da sette mesi, non ho tenuto in mano neppure un soldo di bronzo! – Le darei anche i miei Amants de Paris, cento esametri, Signore, e la mia Mort de Paris, duecento esametri! [12]
– Riprendo:
Dunque il poeta è veramente il ladro del fuoco.
Egli è incaricato dall’umanità, dagli animali stessi; egli dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò che riporta da laggiù ha forma, egli dà forma; se è informe, egli dà l’informe. Trovare una lingua; – Del resto, essendo ogni parola un’idea, il tempo di un linguaggio universale giungerà! Bisogna essere accademici, – più morti di un fossile, – per completare un dizionario, di qualunque lingua sia. Se dei deboli si mettessero a pensare sulla prima lettera dell’alfabeto, potrebbero rovinare subito nella follia!
Questa lingua sarà l’anima per l’anima, riassumendo tutto: profumi, suoni, colori, pensiero che aggancia il pensiero e lo tira. Il poeta definirebbe la quantità d’ignoto desto nel suo tempo nell’anima universale: egli darebbe più – che la formula del suo pensiero, della notazione della sua marcia verso il Progresso! Enormità che diventa norma, assorbita da tutti, egli sarebbe davvero un moltiplicatore di progresso!
Quest’avvenire sarà materialista, Ella lo vede; – Sempre pieni di Numero e di Armonia, questi poemi saranno fatti per restare. – In fondo, sarebbe ancora un po’ la Poesia greca.
L’arte eterna avrebbe le sue funzioni, così come i poeti sono cittadini. La Poesia non ritmerà più l’azione; sarà avanti.
Questi poeti saranno! Quando sarà spezzata l’infinita schiavitù della donna, quando lei vivrà per sé e grazie a sé, avendola l’uomo, – fin qui abominevole, – congedata, lei sarà poeta, anche lei! La donna troverà dell’ignoto! I suoi mondi d’idee differiranno dai nostri? – Lei troverà strane cose, insondabili, ripugnanti, deliziose; noi le prenderemo, noi le comprenderemo.
Il Poeta si fa veggente attraverso un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; cerca egli stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale lui diventa il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, – e il supremo Saggio! – Perché arriva all’ignoto!
Poiché ha coltivato la sua anima, già ricca, più di qualsiasi altro! Egli arriva all’ignoto, e quando, impazzito, finisse col perdere l’intelligenza delle sue visioni, lui le ha viste! Che crepi nel suo salto tra le cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti dove l’altro si è accasciato!
– il seguito fra sei minuti -
Qui faccio intercalare un secondo salmo, un fuori testo: voglia porgermi un compiacente orecchio, – e tutti saranno deliziati. – Ho l’archetto in mano, io comincio:
Mes petites amoureuses [11]
Un hydrolat lacrymal lave…
A. R.
Ecco. E noti bene che, se io non temessi di farLe sborsare più di 60 centesimi di tassa, – io, povero sventurato che, da sette mesi, non ho tenuto in mano neppure un soldo di bronzo! – Le darei anche i miei Amants de Paris, cento esametri, Signore, e la mia Mort de Paris, duecento esametri! [12]
– Riprendo:
Dunque il poeta è veramente il ladro del fuoco.
Egli è incaricato dall’umanità, dagli animali stessi; egli dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò che riporta da laggiù ha forma, egli dà forma; se è informe, egli dà l’informe. Trovare una lingua; – Del resto, essendo ogni parola un’idea, il tempo di un linguaggio universale giungerà! Bisogna essere accademici, – più morti di un fossile, – per completare un dizionario, di qualunque lingua sia. Se dei deboli si mettessero a pensare sulla prima lettera dell’alfabeto, potrebbero rovinare subito nella follia!
Questa lingua sarà l’anima per l’anima, riassumendo tutto: profumi, suoni, colori, pensiero che aggancia il pensiero e lo tira. Il poeta definirebbe la quantità d’ignoto desto nel suo tempo nell’anima universale: egli darebbe più – che la formula del suo pensiero, della notazione della sua marcia verso il Progresso! Enormità che diventa norma, assorbita da tutti, egli sarebbe davvero un moltiplicatore di progresso!
Quest’avvenire sarà materialista, Ella lo vede; – Sempre pieni di Numero e di Armonia, questi poemi saranno fatti per restare. – In fondo, sarebbe ancora un po’ la Poesia greca.
L’arte eterna avrebbe le sue funzioni, così come i poeti sono cittadini. La Poesia non ritmerà più l’azione; sarà avanti.
Questi poeti saranno! Quando sarà spezzata l’infinita schiavitù della donna, quando lei vivrà per sé e grazie a sé, avendola l’uomo, – fin qui abominevole, – congedata, lei sarà poeta, anche lei! La donna troverà dell’ignoto! I suoi mondi d’idee differiranno dai nostri? – Lei troverà strane cose, insondabili, ripugnanti, deliziose; noi le prenderemo, noi le comprenderemo.
Nell’attesa, chiediamo ai
poeti il nuovo, – idee e forme. Ogni provetto crederebbe ben presto di
aver soddisfatto tale domanda. – Non è affatto così!
I primi romantici sono stati veggenti senza rendersene conto troppo bene: la coltivazione delle loro anime è iniziata dagli incidenti: locomotive abbandonate, ma ardenti, che riprendono per qualche tempo le rotaie. - Lamartine [13] è talvolta veggente, ma strozzato dalla vecchia forma. – Hugo [14], troppo testardo, ha, pure, del visto negli ultimi volumi: Les Misérables sono un vero poema. Ho sotto mano Les Châtiments; Stella offre pressappoco la misura della visione di Hugo. Troppo Belmontet [15] e Lamennais, troppo Geova e colonne, vecchie enormità scoppiate.
Musset [16] è quattordici volte esecrabile per noi, generazioni dolorose e in preda alle visioni, – che la sua angelica pigrizia ha insultate! Oh! racconti e proverbi scipiti! oh, le notti! oh Rolla, Namouna, la Coupe! Tutto è francese, ossia odioso al massimo grado; francese, non parigino! Ancora un’opera di quell’odioso genio che ha ispirato Rabelais [17], Voltaire[18], Jean de la Fontaine [19]! Commentato dal Signor Taine [20]! Primaverile, lo spirito di Musset! Fascinoso, il suo amore! Eccola là, la pittura su smalto, la poesia solida! sarà Si gusterà per molto tempo la poesia francese, ma in Francia. Qualsiasi garzone di bottega è capace di buttar giù un’apostrofe alla Rolla, ogni seminarista ne porta le cinquecento rime nel segreto del suo taccuino. A quindici anni, questi slanci di passione mettono i giovani in fregola; a sedici anni, si accontentano già di recitarli con cuore; a diciotto anni, pure a diciassette, qualunque collegiale che ne abbia i mezzi, fa il Rolla, scrive un Rolla! Qualcuno può darsi è ancora capace di morirne. Musset non ha saputo far niente: c’erano visioni dietro il velo delle tende: lui ha chiuso gli occhi. Francese, mollaccione, trainato dall’osteria al banchino del collegio, il bel morto è morto, e, ormai, non diamoci più neanche la pena di risvegliarlo con i nostri abomini!
I secondi romantici sono molto veggenti: Th. Gautier [21], Lec. de Lisle [22], Th. de Banville [23]. Ma ispezionare l’invisibile e sentire l’inaudito essendo altra cosa che riprendere lo spirito delle cose morte, Baudelaire [24] è il primo veggente, il re dei poeti, un vero Dio. Sebbene egli sia vissuto in un ambiente troppo artistico; e la forma così vantata in lui è meschina: le invenzioni d’ignoto reclamano forme nuove.
Rotta alle forme vecchie, fra gli innocenti, A. Renaud, – ha fatto il suo Rolla; L. Grandet, – ha fatto il suo Rolla; i galli e i Musset, G. Lafenestre, Coran, Cl. Popelin, Soulary, L. Salles; gli scolari, Marc, Aicard, Theuriet; i morti e gli imbecilli, Autran, Barbier, L. Pichat, Lemoyne, i Deschamps, i Desessarts; i giornalisti, L. Cladel, Robert Luzarches, X. de Ricard; i fantasisti, C. Mendès; i bohème; le donne; i talenti, Léon Dierx, Sully-Prudhomme, Coppée [25], – la nuova scuola, detta parnassiana, ha due veggenti, Albert Mérat [26] e Paul Verlaine [27], un vero poeta. – Ecco. – Così io lavoro a rendermi veggente. – E concludiamo con un canto pio.
Accroupissements
Bien tard, quand il se sent l’estomac écreuré,
Ella sarebbe esecrabile a non rispondermi; presto, ché fra otto giorni io sarò a Parigi, forse.
Arrivederci,
A. RIMBAUD.
I primi romantici sono stati veggenti senza rendersene conto troppo bene: la coltivazione delle loro anime è iniziata dagli incidenti: locomotive abbandonate, ma ardenti, che riprendono per qualche tempo le rotaie. - Lamartine [13] è talvolta veggente, ma strozzato dalla vecchia forma. – Hugo [14], troppo testardo, ha, pure, del visto negli ultimi volumi: Les Misérables sono un vero poema. Ho sotto mano Les Châtiments; Stella offre pressappoco la misura della visione di Hugo. Troppo Belmontet [15] e Lamennais, troppo Geova e colonne, vecchie enormità scoppiate.
Musset [16] è quattordici volte esecrabile per noi, generazioni dolorose e in preda alle visioni, – che la sua angelica pigrizia ha insultate! Oh! racconti e proverbi scipiti! oh, le notti! oh Rolla, Namouna, la Coupe! Tutto è francese, ossia odioso al massimo grado; francese, non parigino! Ancora un’opera di quell’odioso genio che ha ispirato Rabelais [17], Voltaire[18], Jean de la Fontaine [19]! Commentato dal Signor Taine [20]! Primaverile, lo spirito di Musset! Fascinoso, il suo amore! Eccola là, la pittura su smalto, la poesia solida! sarà Si gusterà per molto tempo la poesia francese, ma in Francia. Qualsiasi garzone di bottega è capace di buttar giù un’apostrofe alla Rolla, ogni seminarista ne porta le cinquecento rime nel segreto del suo taccuino. A quindici anni, questi slanci di passione mettono i giovani in fregola; a sedici anni, si accontentano già di recitarli con cuore; a diciotto anni, pure a diciassette, qualunque collegiale che ne abbia i mezzi, fa il Rolla, scrive un Rolla! Qualcuno può darsi è ancora capace di morirne. Musset non ha saputo far niente: c’erano visioni dietro il velo delle tende: lui ha chiuso gli occhi. Francese, mollaccione, trainato dall’osteria al banchino del collegio, il bel morto è morto, e, ormai, non diamoci più neanche la pena di risvegliarlo con i nostri abomini!
I secondi romantici sono molto veggenti: Th. Gautier [21], Lec. de Lisle [22], Th. de Banville [23]. Ma ispezionare l’invisibile e sentire l’inaudito essendo altra cosa che riprendere lo spirito delle cose morte, Baudelaire [24] è il primo veggente, il re dei poeti, un vero Dio. Sebbene egli sia vissuto in un ambiente troppo artistico; e la forma così vantata in lui è meschina: le invenzioni d’ignoto reclamano forme nuove.
Rotta alle forme vecchie, fra gli innocenti, A. Renaud, – ha fatto il suo Rolla; L. Grandet, – ha fatto il suo Rolla; i galli e i Musset, G. Lafenestre, Coran, Cl. Popelin, Soulary, L. Salles; gli scolari, Marc, Aicard, Theuriet; i morti e gli imbecilli, Autran, Barbier, L. Pichat, Lemoyne, i Deschamps, i Desessarts; i giornalisti, L. Cladel, Robert Luzarches, X. de Ricard; i fantasisti, C. Mendès; i bohème; le donne; i talenti, Léon Dierx, Sully-Prudhomme, Coppée [25], – la nuova scuola, detta parnassiana, ha due veggenti, Albert Mérat [26] e Paul Verlaine [27], un vero poeta. – Ecco. – Così io lavoro a rendermi veggente. – E concludiamo con un canto pio.
Accroupissements
Bien tard, quand il se sent l’estomac écreuré,
Ella sarebbe esecrabile a non rispondermi; presto, ché fra otto giorni io sarò a Parigi, forse.
Arrivederci,
A. RIMBAUD.
[1] Charles Baudelaire, Le Voyage, in I fiori del male, Feltrinelli, Milano 1983, p. 260.
[2] Opere di Arthur Rimbaud, Feltrinelli, Milano 1988, p. 298 (la traduzione è mia). [3] “πόσωι δὴ οὖν βέλτιον Ἡ. παίδων ἀθύρματα νενόμικεν εἶναι τὰ ἀνθρώπινα δοξάσματα.” (Assai meglio riteneva Eraclito che le opinioni umane fossero) giochi di bimbi.) Eraclito, Fr.70 D.K., Iambl. de an. ap. Stob. II 1,16 (II, p. 6 H.). http://marteau7927.wordpress.com/2011/07/14/eraclito-di-efeso-frammenti-7/
[4] Eugenio Montale, La poesia (In Italia) in Quaderno di quattro anni, in Eugenio Montale Tutte le poesie, I edizione I Meridiani, Mondatori, Milano 1984, p.604.
[5] “Canto di guerra parigino” è presente su questo sito nella mia versione delle Poésies di Rimbaud.
[6] Ennio (239-169 a.C.) è il poeta latino autore degli Annales, poema epico in 18 libri (di cui ci restano circa 600 versi) che narra la storia di Roma dalle origini fino ai tempi dell’autore. Introdusse l’esametro dattilico della tradizione omerica al posto dell’antico verso saturnio.
[7] Turoldo o Turoldus, che Rimbaud scrive nella forma ibrida latinizzata Théroldus dal francese Théroulde, è il personaggio nominato nell’ultimo verso della Chanson de Roland (codice di Oxford), composta tra il 997 e il 1130 in 4002 decasillabi: “Ci falt la geste que Turoldus declinet” (“Qui finiscon le gesta che Turoldo ‘depone’). Seguendo diverse interpretazioni del verbo declinet, Turoldo può essere considerato come l’autore presunto della cronaca che ispirò il poema, o l’amanuense che ricopiò il manoscritto, o il giullare che recitava il poema, oppure, ipotesi più accreditata, lo stesso autore dell’opera.
[8] Casimir Delavigne (1793-1843), poeta e drammaturgo francese, è famoso per la raccolta di dodici odi Trois messéniennes (“Tre messeniche”), per la tragedia storica Les vêpres sicilienns (“I vespri siciliani”) e per la commedia Marino Faliero.
[9] Jean Racine (1639-1699) è il più famoso poeta tragico francese del XVII secolo insieme a Pierre Corbeille (1606-1684).
[10] La Jeune-France è il nome dato alla generazione romantica francese, presa di mira da Théophile Gautier (1811-1872) nel suo scritto Les jeunes-France (1833).
[11] “Mie piccine innamorate” verrà prossimamente pubblicata to nella mia versione delle Poésies di Rimbaud.
[12] Di queste due composizioni, Amants de Paris e Mort de Paris non v’è traccia alcuna. Forse si tratta di liriche scomparse, oppure cestinate dallo stesso Rimbaud. Sarei meno convinto dell’ipotesi avanzata da qualche critico, secondo cui le poesie citate nella lettera non sarebbero nemmeno state scritte: se fossero opere inesistenti, non si comprenderebbe il motivo per cui Rimbaud avrebbe dovuto nominarle aggiungendo addirittura la loro lunghezza in versi (Amants de Paris, cento esametri e Mort de Paris, duecento esametri)! Chi ha congetturato, in perfetta mala fede, la spavalderia sbruffona di un giovane poeta che dichiara apertamente il falso, a mio parere, dovrebbe fornire delle prove o, perlomeno, tacere.
[13] Alphonse de Lamartine (1790-1869) fu tra i poeti francesi del XIX secolo uno dei più impegnati politicamente: repubblicano fervente, è famoso, oltre che per le liriche ispirate da un sentimentalismo e uno spiritualismo spiccati, per la sua Histoire des Girondis (Storia dei girondini) pubblicata nel 1847.
[14] Victor Hugo (1802-1885), gloria nazionale francese, è considerato trop cabochard (“troppo testardo”) da Rimbaud, e viene citato per il suo capolavoro narrativo Les Misérables (I Miserabili, edito nel 1862), e per la raccolta poetica Les Châtiments (I castighi, edito nel 1853), in cui spiccherebbe, a demerito di Hugo secondo Rimbaud, la lirica Stella. Victor Hugo, giovanissimo, cominciò a interessarsi di letteratura con il fratello Abel. Nell’opera Odes et poésies diverses (Odi e poesie diverse, 1822) seguì le forme classiche con atteggiamenti cattolici e monarchici: ma nella produzione narrativa già rivelava elementi romantici (come nel romanzo Hans d’Islande, [Hans d’Islanda], 1823). Nelle Nouvelles odes (Nuove odi, 1824) e in Odes et ballades (Odi e ballate, 1826) predilesse temi leggendari e pittoreschi con ballate. Frequentò il primo cenacolo romantico di Nodier e scrisse il dramma Cromwell (1827), di cui celebre è la prefazione. In casa accolse il secondo cenacolo romantico. Nelle liriche Les Orientales (Le Orentiali, 1829) mostrò colori smaglianti, poi imitati dai parnassiani. La sua attività nel teatro romantico fu molto vistosa: Hernani (1830), che segnò l’inizio, secondo molti storici e critici, del vero e proprio movimento romantico in Francia; Marion Delorme (1831, prima proibita), Le roi s’amuse (Il re si diverte, 1832, da cui il Rigoletto verdiano), Lucrèce Borgia (Lucrezia Borgia, 1833), Marie Tudor (Maria Tudor, 1834), Angelo (1835), Ruy Blas (1838). Lo scrittore cantò la libertà civile, si entusiasmò per l’epopea napoleonica e manifestò con eloquenza ideali umanitari. Notevoli sono i romanzi Notre-Dame de Paris (Notre-Dame di Parigi, 1831), Claude Gueux (1834) e Le dernier jour d’un condamné à mort (L’ultimo giorno di un condannato a morte, 1829), che anticipava i principi sociali de Les misérables (I miserabili). Potenti immagini sono nelle raccolte liriche: Les feuilles d’automne (Le foglie d’autunno, 1831), Les chants du crépuscule (Il canto del crepuscolo, 1835), Les voix intérieures (Le voci interiori, 1837) e Les rayons et les ombres (I raggi e le ombre, 1840). Nel 1841 fu accademico di Francia, nel 1845 pari, nel 1848 deputato all’Assemblea Costituente con forti tendenze democratiche, nel 1849 fu repubblicano e avversò il principe pretendente. Dopo il colpo di Stato, visse in esilio in Belgio e nelle Isole Normanne. La pubblicazione de Les misérables (1862) come già Napoléon le petit (Napoleone il piccolo, 1852), e Les châtiments (I castighi, 1853) e quella dell’Histoire d’un crime (Storia di un crimine, 1877) accentuano nello scrittore la figura di vate della libertà dei popoli. Nuovi libri di liriche sono Les contemplations (Le contemplazioni, 1856), Les chansons des rues et des bois (Le canzoni delle strade e dei boschi, 1865) e La légende des siècles (La leggenda dei secoli, 1859-83). I Romanzi popolari sono Les travailleurs de la mer (I lavoratori del mare, 1866) e L’Homme qui rit (L’uomo che ride, 1869). Caduto Napoleone III, Hugo tornò in patria e partecipò alla vita politica e sociale con varie opere. Scrisse, fra l’altro, L’année terrible (L’anno terribile, 1872, sugli avvenimenti del 1870-71), L’art d’etre grand père (L’arte di essere nonno, 1877) e il romanzo Quatre-vingt-treize (Il novantatré, 1873) sul Terrore. Hugo fu fino all’ultimo presente alle sedute del senato e dell’Accademia, con indomito spirito di difesa delle libertà civili e democratiche.
[15] Louis Belmontet (1799-1879) poeta collaboratore della Muse française, organo della scuola romantica, e rigoroso classicista, è inserito senza mezzi termini da Rimbaud tra le “vieilles énormités crevées” (“vecchie enormità scoppiate”), residui di una forma poetica ormai superata. In questa categoria del vecchiume romantico, insieme a Belmontet, Rimbaud cita Félicité-Robert de Lammenais (1782-1854), sacerdote e scrittore esponente di un cattolicesimo antipapalino, che si evince in Essai sur l’indifférence en matière de religion (Saggio sull’indifferenza in materia di religione, 4 volumi apparsi tra il 1817 e il 1823); in De la religion considérée dans ses rapports avec l’ordre public et civil (La religione considerata nei suoi rapporti con l’ordine pubblico e civile dato alle stampe nel 1824); e nel giornale da lui fondato nel 1830 L’Avenir.
[16] Alfred de Musset (1810-1857), è stroncato inequivocabilmente da Rimbaud per i suoi “les contes e les proverbes fadasses” (“racconti e proverbi scipiti”), ossia i famosi Contes d’Espagne et d’Italie (Racconti di Spagna e d’Italia raccolta di versi apparsa nel dicembre del 1829) e i suoi “proverbi” teatrali: On ne badine pas avec l’amour, Les caprices de Marianne (Con l’amore non si scherza e I capricci di Marianna facenti parte di una raccolta di opere teatrali destinate alla lettura edita nel 1834 con il titolo Un spectacle dans un fauteuil [Uno spettacolo da una poltrona] che comprendeva anche il famoso Lorenzaccio, Andrea del Sarto e Fantasio), e Il faut qu’une porte soit ouverte ou fermée (Una porta è aperta o è chiusa, 1845); per le sue Les Nuits (Le notti, poema in quattro parti pubblicato dal 1835 al 1837); per il suo famoso poema Rolla (1833), descrizione dell’eroe romantico, turgido di passione ma afflitto da una progressiva disperazione che lo condurrà alla dissoluzione finale; per il poemetto fantasioso Namouna e per la pièce teatrale La coupe et les lévres (La coppa e le labbra), oopere entrambe apparse nel 1832.
[17] François Rabelais (1494 circa-1553) è un’altra gloria nazionale francese, autore delle celebri folastries (“stravaganze”) letterarie che hanno per protagonisti i due immortali personaggi Gargantua e Pantagruel: Les horribles et espoventables faictz et prouesses du très renommé Pantagruel, roy des Dipsodes, fils du grant géant Gargantua (Gli orribili e spaventosi fatti e prodezze del molto rinomato Pantagruel, re dei Dipsodi, figlio del gran gigante Gargantua pubblicato nel 1532 con il suo nome anagrammato Alcofribas Nasier); La vie inestimable du grand Gargantua, père de Pantagrule (La vita inestimabile del grande Gargantua, padre di Pantagruel pubblicato nel 1534 e firmati sempre con l’anagramma); Tiers livre des faictz et dictz héroïques du bon Pantagruel (Terzo libro dei fatti e detti eroici del buon Pantagruel pubblicato nel 1546); Quart livre des faictz et dictz héroïques du bon Pantagruel (Quarto libro dei fatti e detti eroici del buon Pantagruel pubblicato nel 1552). Rabelais, monaco francescano e poi benedettino, abbandonò la vita conventuale e venne sovente in contrasto con l’ambiente eccelesiastico. Le sue opere passarono il vaglio della censura e furono condannate per la loro aperta irriverenza nei confronti della Chiesa, della filosofia scolastica, e dei metodi tradizionali di educazione.
[6] Ennio (239-169 a.C.) è il poeta latino autore degli Annales, poema epico in 18 libri (di cui ci restano circa 600 versi) che narra la storia di Roma dalle origini fino ai tempi dell’autore. Introdusse l’esametro dattilico della tradizione omerica al posto dell’antico verso saturnio.
[7] Turoldo o Turoldus, che Rimbaud scrive nella forma ibrida latinizzata Théroldus dal francese Théroulde, è il personaggio nominato nell’ultimo verso della Chanson de Roland (codice di Oxford), composta tra il 997 e il 1130 in 4002 decasillabi: “Ci falt la geste que Turoldus declinet” (“Qui finiscon le gesta che Turoldo ‘depone’). Seguendo diverse interpretazioni del verbo declinet, Turoldo può essere considerato come l’autore presunto della cronaca che ispirò il poema, o l’amanuense che ricopiò il manoscritto, o il giullare che recitava il poema, oppure, ipotesi più accreditata, lo stesso autore dell’opera.
[8] Casimir Delavigne (1793-1843), poeta e drammaturgo francese, è famoso per la raccolta di dodici odi Trois messéniennes (“Tre messeniche”), per la tragedia storica Les vêpres sicilienns (“I vespri siciliani”) e per la commedia Marino Faliero.
[9] Jean Racine (1639-1699) è il più famoso poeta tragico francese del XVII secolo insieme a Pierre Corbeille (1606-1684).
[10] La Jeune-France è il nome dato alla generazione romantica francese, presa di mira da Théophile Gautier (1811-1872) nel suo scritto Les jeunes-France (1833).
[11] “Mie piccine innamorate” verrà prossimamente pubblicata to nella mia versione delle Poésies di Rimbaud.
[12] Di queste due composizioni, Amants de Paris e Mort de Paris non v’è traccia alcuna. Forse si tratta di liriche scomparse, oppure cestinate dallo stesso Rimbaud. Sarei meno convinto dell’ipotesi avanzata da qualche critico, secondo cui le poesie citate nella lettera non sarebbero nemmeno state scritte: se fossero opere inesistenti, non si comprenderebbe il motivo per cui Rimbaud avrebbe dovuto nominarle aggiungendo addirittura la loro lunghezza in versi (Amants de Paris, cento esametri e Mort de Paris, duecento esametri)! Chi ha congetturato, in perfetta mala fede, la spavalderia sbruffona di un giovane poeta che dichiara apertamente il falso, a mio parere, dovrebbe fornire delle prove o, perlomeno, tacere.
[13] Alphonse de Lamartine (1790-1869) fu tra i poeti francesi del XIX secolo uno dei più impegnati politicamente: repubblicano fervente, è famoso, oltre che per le liriche ispirate da un sentimentalismo e uno spiritualismo spiccati, per la sua Histoire des Girondis (Storia dei girondini) pubblicata nel 1847.
[14] Victor Hugo (1802-1885), gloria nazionale francese, è considerato trop cabochard (“troppo testardo”) da Rimbaud, e viene citato per il suo capolavoro narrativo Les Misérables (I Miserabili, edito nel 1862), e per la raccolta poetica Les Châtiments (I castighi, edito nel 1853), in cui spiccherebbe, a demerito di Hugo secondo Rimbaud, la lirica Stella. Victor Hugo, giovanissimo, cominciò a interessarsi di letteratura con il fratello Abel. Nell’opera Odes et poésies diverses (Odi e poesie diverse, 1822) seguì le forme classiche con atteggiamenti cattolici e monarchici: ma nella produzione narrativa già rivelava elementi romantici (come nel romanzo Hans d’Islande, [Hans d’Islanda], 1823). Nelle Nouvelles odes (Nuove odi, 1824) e in Odes et ballades (Odi e ballate, 1826) predilesse temi leggendari e pittoreschi con ballate. Frequentò il primo cenacolo romantico di Nodier e scrisse il dramma Cromwell (1827), di cui celebre è la prefazione. In casa accolse il secondo cenacolo romantico. Nelle liriche Les Orientales (Le Orentiali, 1829) mostrò colori smaglianti, poi imitati dai parnassiani. La sua attività nel teatro romantico fu molto vistosa: Hernani (1830), che segnò l’inizio, secondo molti storici e critici, del vero e proprio movimento romantico in Francia; Marion Delorme (1831, prima proibita), Le roi s’amuse (Il re si diverte, 1832, da cui il Rigoletto verdiano), Lucrèce Borgia (Lucrezia Borgia, 1833), Marie Tudor (Maria Tudor, 1834), Angelo (1835), Ruy Blas (1838). Lo scrittore cantò la libertà civile, si entusiasmò per l’epopea napoleonica e manifestò con eloquenza ideali umanitari. Notevoli sono i romanzi Notre-Dame de Paris (Notre-Dame di Parigi, 1831), Claude Gueux (1834) e Le dernier jour d’un condamné à mort (L’ultimo giorno di un condannato a morte, 1829), che anticipava i principi sociali de Les misérables (I miserabili). Potenti immagini sono nelle raccolte liriche: Les feuilles d’automne (Le foglie d’autunno, 1831), Les chants du crépuscule (Il canto del crepuscolo, 1835), Les voix intérieures (Le voci interiori, 1837) e Les rayons et les ombres (I raggi e le ombre, 1840). Nel 1841 fu accademico di Francia, nel 1845 pari, nel 1848 deputato all’Assemblea Costituente con forti tendenze democratiche, nel 1849 fu repubblicano e avversò il principe pretendente. Dopo il colpo di Stato, visse in esilio in Belgio e nelle Isole Normanne. La pubblicazione de Les misérables (1862) come già Napoléon le petit (Napoleone il piccolo, 1852), e Les châtiments (I castighi, 1853) e quella dell’Histoire d’un crime (Storia di un crimine, 1877) accentuano nello scrittore la figura di vate della libertà dei popoli. Nuovi libri di liriche sono Les contemplations (Le contemplazioni, 1856), Les chansons des rues et des bois (Le canzoni delle strade e dei boschi, 1865) e La légende des siècles (La leggenda dei secoli, 1859-83). I Romanzi popolari sono Les travailleurs de la mer (I lavoratori del mare, 1866) e L’Homme qui rit (L’uomo che ride, 1869). Caduto Napoleone III, Hugo tornò in patria e partecipò alla vita politica e sociale con varie opere. Scrisse, fra l’altro, L’année terrible (L’anno terribile, 1872, sugli avvenimenti del 1870-71), L’art d’etre grand père (L’arte di essere nonno, 1877) e il romanzo Quatre-vingt-treize (Il novantatré, 1873) sul Terrore. Hugo fu fino all’ultimo presente alle sedute del senato e dell’Accademia, con indomito spirito di difesa delle libertà civili e democratiche.
[15] Louis Belmontet (1799-1879) poeta collaboratore della Muse française, organo della scuola romantica, e rigoroso classicista, è inserito senza mezzi termini da Rimbaud tra le “vieilles énormités crevées” (“vecchie enormità scoppiate”), residui di una forma poetica ormai superata. In questa categoria del vecchiume romantico, insieme a Belmontet, Rimbaud cita Félicité-Robert de Lammenais (1782-1854), sacerdote e scrittore esponente di un cattolicesimo antipapalino, che si evince in Essai sur l’indifférence en matière de religion (Saggio sull’indifferenza in materia di religione, 4 volumi apparsi tra il 1817 e il 1823); in De la religion considérée dans ses rapports avec l’ordre public et civil (La religione considerata nei suoi rapporti con l’ordine pubblico e civile dato alle stampe nel 1824); e nel giornale da lui fondato nel 1830 L’Avenir.
[16] Alfred de Musset (1810-1857), è stroncato inequivocabilmente da Rimbaud per i suoi “les contes e les proverbes fadasses” (“racconti e proverbi scipiti”), ossia i famosi Contes d’Espagne et d’Italie (Racconti di Spagna e d’Italia raccolta di versi apparsa nel dicembre del 1829) e i suoi “proverbi” teatrali: On ne badine pas avec l’amour, Les caprices de Marianne (Con l’amore non si scherza e I capricci di Marianna facenti parte di una raccolta di opere teatrali destinate alla lettura edita nel 1834 con il titolo Un spectacle dans un fauteuil [Uno spettacolo da una poltrona] che comprendeva anche il famoso Lorenzaccio, Andrea del Sarto e Fantasio), e Il faut qu’une porte soit ouverte ou fermée (Una porta è aperta o è chiusa, 1845); per le sue Les Nuits (Le notti, poema in quattro parti pubblicato dal 1835 al 1837); per il suo famoso poema Rolla (1833), descrizione dell’eroe romantico, turgido di passione ma afflitto da una progressiva disperazione che lo condurrà alla dissoluzione finale; per il poemetto fantasioso Namouna e per la pièce teatrale La coupe et les lévres (La coppa e le labbra), oopere entrambe apparse nel 1832.
[17] François Rabelais (1494 circa-1553) è un’altra gloria nazionale francese, autore delle celebri folastries (“stravaganze”) letterarie che hanno per protagonisti i due immortali personaggi Gargantua e Pantagruel: Les horribles et espoventables faictz et prouesses du très renommé Pantagruel, roy des Dipsodes, fils du grant géant Gargantua (Gli orribili e spaventosi fatti e prodezze del molto rinomato Pantagruel, re dei Dipsodi, figlio del gran gigante Gargantua pubblicato nel 1532 con il suo nome anagrammato Alcofribas Nasier); La vie inestimable du grand Gargantua, père de Pantagrule (La vita inestimabile del grande Gargantua, padre di Pantagruel pubblicato nel 1534 e firmati sempre con l’anagramma); Tiers livre des faictz et dictz héroïques du bon Pantagruel (Terzo libro dei fatti e detti eroici del buon Pantagruel pubblicato nel 1546); Quart livre des faictz et dictz héroïques du bon Pantagruel (Quarto libro dei fatti e detti eroici del buon Pantagruel pubblicato nel 1552). Rabelais, monaco francescano e poi benedettino, abbandonò la vita conventuale e venne sovente in contrasto con l’ambiente eccelesiastico. Le sue opere passarono il vaglio della censura e furono condannate per la loro aperta irriverenza nei confronti della Chiesa, della filosofia scolastica, e dei metodi tradizionali di educazione.
[18] Voltaire (pseudonimo di
François Marie Arouet) (1694-1778), educato dai Gesuiti, apprese le
raffinatezze della cultura umanistica; autore di versi leggiadri e
brillanti, già ammirato negli ambienti mondani, il successo della
tragedia Œdipe (Edipo, 1718) gli aprì le porte della più alta società. Compose anche la Ligue (La Lega, 1722), edita poi a Londra con il titolo di Henriade.
In seguito a un dissidio con un nobile, fu rinchiuso nella Bastiglia.
Scarcerato, lasciò la Francia per un triennio, soggiornando in
Inghilterra e venendo a contatto con una società molto evoluta. Le Lettres anglaises (o Lettres philosophiques
[Lettere inglesi o Lettere filosofiche] ) del 1734 mostrano l’interesse
da lui portato al mondo inglese, anche se con reticenze. L’opera
(definita un attacco all’ancien régime francese., perché metteva a
confronto le istituzioni dei due paesi) fu condannata dal parlamento e
causò a Voltaire il divieto di risiedere a Parigi. Voltaire dimorò
allora presso Madame du Chatelet a Cirey (Champagne}. In quegli anni di
isolamento scrisse le tragedie Alzire (Alzira, 1736), Mahomet (Maometto, 1742), Mérope
(1743); nel desiderio di restaurare il teatro francese, espresse idee
di tolleranza civile e religiosa. Nel frattempo fu favorito dalla nomina
del marchese d’Argenson a ministro degli Esteri; con l’appoggio della
Pompadour venne nominato storiografo e gentiluomo di camera del re Luigi
XV; nel 1746 entrò all’Accademia di Francia. Passò quindi a Berlino,
ospite del re Federico II: ivi pubblicò Le siècle de Louis XIV
(Il secolo di Luigi XIV, 1751); tornò poi in Francia, ma ancora una
volta non ebbe il permesso di risiedere a Parigi, per i pettegolezzi
causati dalla sua ultima opera, con la conseguente rottura con il
sovrano. Assolutista illuminato, combatté contro l’intolleranza e il
fanatismo, la superstizione e il pregiudizio. Con epigrammi, racconti,
lettere, opere satiriche (spesso con pseudonimi, naturalmente
sconfessati) andò contro ogni forma di errore in tutta Europa: alla
vivacità dei ragionamenti unì una grazia leggera, tutta settecentesca,
che ne fece uno scrittore ineguagliabile. Notissimo è il Dictionnaire philosophique
(Dizionario filosofico, 1764), che è tutto un inno alla ragione e una
battaglia contro le superstizioni e le tradizioni. Nel 1778, rompendo il
suo isolamento, Voltaire si recò a Parigi per assistere in trionfo alla
rappresentazione della sua tragedia Irène e poche settimane dopo, per
le fatiche e l’emozione, mori. Fra le sue opere le tragedie,
indubbiamente vigorose e che testimoniano profondi mutamenti nel campo
ideologico, così come le commedie, procacciarono a Voltaire l’indiscusso
favore del pubblico. Sempre ammirati i racconti e i romanzi satirici: Zadig (1747), Micromégas (1752), Candide, ou l’optimisme (Candido, o l’ottimismo, 1759, ritenuto il capolavoro del genere), L’ingénu (L’ingenuo, 1767) e La princesse de Babylone
(La princièpessa di Babilonia, 1768), in cui la satira ai costumi si
presenta sotto una forma scintillante. Importante è l’opera
storiografica di Voltaire: egli fa la storia dei popoli e non solo
quella dei regnanti e dei potenti, valuta i contributi della civiltà non
nelle battaglie ma nelle arti e nei commerci, condiziona, in pratica,
tutta una generazione di studiosi di storia.
Particolarmente importante è il giudizio che Voltaire dà sul medioevo;
la condanna è definitiva, proprio in nome di quei principi
razionalistici e naturalistici che sempre ispirarono l’opera del grande
pubblicista. Ciò soprattutto determinerà la reazione del Romanticismo e
della sua concezione storica. Se satirica è L’Histoire de Charles XII (Storia di Carlo XII, 1731), esaltata è l’opera del popolo russo ne L’Histoire de Russie sous Pietre le Grand (La storia della Russia sotto Pietro il Grande1759-63). Seguito a Le siècle de Louis XIV, storia del popolo francese, è Le siècle de Louis XV (Il secolo di Luigi XV, 1769), incompiuto; affermazioni laiche e «terrene» si trovano nell’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations (Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni, 1756) in antagonismo al Discours sur l’histoire universelle (Discorso sulla storia universale, 1861)di Jacques-Bénigne Bossuet (1627-1704).
[19] Jean de La Fontaine (1621-1695), il suo capolavoro sono le Fables (Favole), definitive in 12 libri (1668-94), in cui una visione amara della vita raffigura la società contemporanea, spesso sotto le sembianze della finzione. Notevoli sono anche Contes et nouvelles (Racconti e novelle, 1665-73). Fonti dell’autore e indice del suo italianismo sono Boccaccio, Machiavelli, Ariosto (Contes) e la favolistica classica e orientale (Fables). Autore di squisita formazione umanistica ha lasciato un fine documento della sua cultura nel poemetto Adonis (Adone, 1658). Ragguardevoli sono i frammenti del Le Songe de Vaux (Il sogno di Vaux,1659-60) e l’Elegie aux nymphes de Vaux (Elegia alle ninfe di Vaux, 1661-62), Les amours de Psyché et de Cupidon (Amori di Psiche e di Cupido, 1671) in prosa e il poemetto Philémon et Baucis (Filemone e Bauci. Interessante è l’Eunuque (Eunuco, 1654) riduzione dalla commedia di Terenzio Eunuchus. La Fontaine difese gli antichi durante la lunga e accesa «Querelle des anciens et des modernes» nell’Épître à Monseigneur Huet (Epistola al Signor Huet. 1687).
[20] Hippolyte-Adolphe Taine (1829-1893) fu critico e storico, vicino alle visioni positiviste, è ricordato negativamente da Rimbaud per La Fontaine e ses fables (La Fontanie e le sue favole, 1860), Essais de critique et d’histoire (Saggi di critica e di storia, 1858) e Nouveaux essais (Nuovi saggi, 1865). L’opera più importante di Taine, in sei volumi, sarà ultimata a tre anni dalla morte di Rimbaud: Les origines de la France contemporaine (Le origini della Francia contemporanea, 1876-1891).
[21] Théophile Gautier (1811-1872), scrittore molto amato da Rimbaud, è autore, oltre che dell’opera già citata nella nota 6, del romanzo Mademoiselle de Maupin (Signorina di Maupin, 1835), la cui famosa préface è considerata il manifesto letterario dell’art pour l’art. Le Capitaine Fracasse (Il Capitan Fracassa, 1863) rimane il suo scritto più celebre.
[22] Leconte de Lisle (1818-1894), poeta autore di liriche antiromantiche: Poèmes antiques (Poesie antiche, 1852), Poèmes barbares (Poesie barbare, 1862), Poèmes tragiques (Poesie tragiche, 1884).
[23] Théodore de Banville (1823-1891) è il poeta parnassiano per eccellenza (cfr. i riferimenti in Poésies di Arthur Rimbaud), messosi in luce con le raccolte di versi Les cariatides (Le cariatidi, 1842) e Les odes funambulesques (Le odi funamboliche, 1857). Nel suo Petit traité de poésie française (Piccolo trattato di poesia francese, 1872) Banville espose la sua poetica, basata su di uno studio approfondito della tecnica compositiva e della rima.
[24] Charles Baudelaire (1821-1867), è uno dei più grandi poeti moderni oltre che acutissimo critico ed esteta. Sicuramente rivoluzionò la visione poetica francese, ispirando la corrente simbolista, e la critica d’arte e letteraria. La sua vicenda esistenziale dolorosa e travagliata si riflette profondamente nell’opera. A Parigi, poco più che ventenne, si legò con Jeanne Duval e frequentò artisti e poeti; conobbe e amò anche Apollonie Sabatier e Maria Daubrun. Dopo aver pubblicato con scarso successo di pubblico il Salon de 1845, si accinse a tradurre i racconti di E.A. Poe. Nel 1856 uscì il primo volume della traduzione delle Histoires extra-ordinaires di Poe (Racconti straordinari) e nel 1857 Les Fleurs du ma (I fiori del male) l’opera più suggestiva e rivelatrice della moderna poesia francese: ma il capolavoro fu condannato dal tribunale per immoralità. Baudelaire pubblicò quindi Les Aventures d’Arthur Gordon Pym (Le avventure di Arthur Gordon Pym), romanzo incompiuto di Poe, e Les Paradis artificiels (I Paradisi artificiali): già aveva inserito in riviste saggi mirabili sul metodo della critica, sui pittori Delacroix e Ingres. Un’edizione rimaneggiata di Les Fleurs du mal (1861) segnalò meglio al pubblico il poeta. Nuovi saggi (p. es., R. Wagner et le Tannhäuser à Paris, R. Wagner e il Tannhäuser a Parigi, 1861) rivelano anche nel campo della musica l’acutezza delle meditazioni estetiche dell’autore e accentuano la sua esigenza di libertà dell’arte. L’ultimo periodo della vita di Baudelaire fu costellato da difficoltà economiche e dalla malattia: le conferenze che aveva iniziato a tenere in Belgio nell’aprile 1864 non ebbero successo ed egli era tornato a Parigi deluso. Nel febbraio 1866 ebbe il primo attacco del male che lo portò alla morte. Dopo la sua scomparsa, nel 1868-69, apparve, seppur con molte lacune, la prima edizione della sua opera completa. In quegli anni videro la luce le famose Curiosités esthétiques (Curiosità estetiche), una raccolta di recensioni critiche di altissimo livello. I suoi Journeaux intimes (Diari intimi) furono pubblicati nel 1909, in due serie Fusées, Mon coeur mis à nu (Razzi e Il mio cuore a nudo).
[25] Tutti questi nomi, disprezzati da Rimbaud, sono in effetti autori di importanza minore nell’ambito della letteratura francese (non me ne vogliano i loro studiosi!). Per tale motivo non ho inserito altre note, evitando così al lettore un’ulteriore e forse inutile fatica.
[19] Jean de La Fontaine (1621-1695), il suo capolavoro sono le Fables (Favole), definitive in 12 libri (1668-94), in cui una visione amara della vita raffigura la società contemporanea, spesso sotto le sembianze della finzione. Notevoli sono anche Contes et nouvelles (Racconti e novelle, 1665-73). Fonti dell’autore e indice del suo italianismo sono Boccaccio, Machiavelli, Ariosto (Contes) e la favolistica classica e orientale (Fables). Autore di squisita formazione umanistica ha lasciato un fine documento della sua cultura nel poemetto Adonis (Adone, 1658). Ragguardevoli sono i frammenti del Le Songe de Vaux (Il sogno di Vaux,1659-60) e l’Elegie aux nymphes de Vaux (Elegia alle ninfe di Vaux, 1661-62), Les amours de Psyché et de Cupidon (Amori di Psiche e di Cupido, 1671) in prosa e il poemetto Philémon et Baucis (Filemone e Bauci. Interessante è l’Eunuque (Eunuco, 1654) riduzione dalla commedia di Terenzio Eunuchus. La Fontaine difese gli antichi durante la lunga e accesa «Querelle des anciens et des modernes» nell’Épître à Monseigneur Huet (Epistola al Signor Huet. 1687).
[20] Hippolyte-Adolphe Taine (1829-1893) fu critico e storico, vicino alle visioni positiviste, è ricordato negativamente da Rimbaud per La Fontaine e ses fables (La Fontanie e le sue favole, 1860), Essais de critique et d’histoire (Saggi di critica e di storia, 1858) e Nouveaux essais (Nuovi saggi, 1865). L’opera più importante di Taine, in sei volumi, sarà ultimata a tre anni dalla morte di Rimbaud: Les origines de la France contemporaine (Le origini della Francia contemporanea, 1876-1891).
[21] Théophile Gautier (1811-1872), scrittore molto amato da Rimbaud, è autore, oltre che dell’opera già citata nella nota 6, del romanzo Mademoiselle de Maupin (Signorina di Maupin, 1835), la cui famosa préface è considerata il manifesto letterario dell’art pour l’art. Le Capitaine Fracasse (Il Capitan Fracassa, 1863) rimane il suo scritto più celebre.
[22] Leconte de Lisle (1818-1894), poeta autore di liriche antiromantiche: Poèmes antiques (Poesie antiche, 1852), Poèmes barbares (Poesie barbare, 1862), Poèmes tragiques (Poesie tragiche, 1884).
[23] Théodore de Banville (1823-1891) è il poeta parnassiano per eccellenza (cfr. i riferimenti in Poésies di Arthur Rimbaud), messosi in luce con le raccolte di versi Les cariatides (Le cariatidi, 1842) e Les odes funambulesques (Le odi funamboliche, 1857). Nel suo Petit traité de poésie française (Piccolo trattato di poesia francese, 1872) Banville espose la sua poetica, basata su di uno studio approfondito della tecnica compositiva e della rima.
[24] Charles Baudelaire (1821-1867), è uno dei più grandi poeti moderni oltre che acutissimo critico ed esteta. Sicuramente rivoluzionò la visione poetica francese, ispirando la corrente simbolista, e la critica d’arte e letteraria. La sua vicenda esistenziale dolorosa e travagliata si riflette profondamente nell’opera. A Parigi, poco più che ventenne, si legò con Jeanne Duval e frequentò artisti e poeti; conobbe e amò anche Apollonie Sabatier e Maria Daubrun. Dopo aver pubblicato con scarso successo di pubblico il Salon de 1845, si accinse a tradurre i racconti di E.A. Poe. Nel 1856 uscì il primo volume della traduzione delle Histoires extra-ordinaires di Poe (Racconti straordinari) e nel 1857 Les Fleurs du ma (I fiori del male) l’opera più suggestiva e rivelatrice della moderna poesia francese: ma il capolavoro fu condannato dal tribunale per immoralità. Baudelaire pubblicò quindi Les Aventures d’Arthur Gordon Pym (Le avventure di Arthur Gordon Pym), romanzo incompiuto di Poe, e Les Paradis artificiels (I Paradisi artificiali): già aveva inserito in riviste saggi mirabili sul metodo della critica, sui pittori Delacroix e Ingres. Un’edizione rimaneggiata di Les Fleurs du mal (1861) segnalò meglio al pubblico il poeta. Nuovi saggi (p. es., R. Wagner et le Tannhäuser à Paris, R. Wagner e il Tannhäuser a Parigi, 1861) rivelano anche nel campo della musica l’acutezza delle meditazioni estetiche dell’autore e accentuano la sua esigenza di libertà dell’arte. L’ultimo periodo della vita di Baudelaire fu costellato da difficoltà economiche e dalla malattia: le conferenze che aveva iniziato a tenere in Belgio nell’aprile 1864 non ebbero successo ed egli era tornato a Parigi deluso. Nel febbraio 1866 ebbe il primo attacco del male che lo portò alla morte. Dopo la sua scomparsa, nel 1868-69, apparve, seppur con molte lacune, la prima edizione della sua opera completa. In quegli anni videro la luce le famose Curiosités esthétiques (Curiosità estetiche), una raccolta di recensioni critiche di altissimo livello. I suoi Journeaux intimes (Diari intimi) furono pubblicati nel 1909, in due serie Fusées, Mon coeur mis à nu (Razzi e Il mio cuore a nudo).
[25] Tutti questi nomi, disprezzati da Rimbaud, sono in effetti autori di importanza minore nell’ambito della letteratura francese (non me ne vogliano i loro studiosi!). Per tale motivo non ho inserito altre note, evitando così al lettore un’ulteriore e forse inutile fatica.
[26] Albert Mérat (1840-1909),
fu poeta apprezzato da Rimbaud, sebbene non abbia, obbiettivamente,
lasciato di sé una traccia considerevole. Verseggiatore di stile
parnassiano, padrone di un sottile umorismo e di una sensibilità
simbolista, evocò scene di Parigi e ricordi sentimentali: Le chimere (La chimera, 1866), Les souvenirs (I ricordi, 1872), Poésies de Paris (Poesie di Parigi, 1880). Morì suicida.
[27] Paul Verlaine (1844-1896) esordì nel 1866 con i Poèmes saturniens (Poemi saturnini) , raccolta caratterizzata da molteplici influenze poetiche a cui seguirono le Fêtes galantes (Feste galanti, 1869), di intonazione più libera e fantasiosa, La bonne chanson (La buona canzone, 1870) in cui il poeta esprime il suo amore per la fidanzata Mathilde Mauté de Fleurville da lui sposata lo stesso anno. Ma il matrimonio ben presto entrò in crisi, sia perché aveva ricominciato a bere, sia perché, politicamente compromesso al tempo della Commune, aveva perso il suo posto di funzionario, sia infine perché ebbe inizio nel 1871 il suo sodalizio letterario e sentimentale che lo legò a Arthur Rimbaud, con il quale un anno dopo fuggirà in Belgio e quindi in Inghilterra. Nel 1873 il poeta fu condannato a Bruxelles, dove si trovava, a due anni di prigione per avere sparato a Rimbaud due colpi di rivoltella. In carcere sembrò ritrovare la fede cattolica e maturò una nuova forma poetica, basata sulla musica del verso e su toni più suggestivi ed evocativi (Romances sans paroles, Romanzi senza parole, 1874; Sagesse, Saggezza, 1881). Uscito di prigione, Verlaine viaggiò in Francia e Inghilterra, proseguendo nella sua lirica, finché si stabilì a Parigi, chiamato dai discepoli «il principe dei poeti ». Le sue ultime raccolte poetiche sono: Jadis et naguère (Ora e poco fa, 1884), con la famosa Art poètique (Arte poetica), Parallèlement (Parallelamente, 1889), Bonheur (Felicità, 1891), Chansons pour elle (Canzoni per Lei, 1891), Liturgies intimes (Liturgie intime, 1892), Dans les limbes (Nei limbi, 1894), ecc. Dei suoi scritti in prosa si ricordano i Les Poètes maudits (I poeti maledetti, 1884), che ebbero una vasta eco nella critica del tempo.
[27] Paul Verlaine (1844-1896) esordì nel 1866 con i Poèmes saturniens (Poemi saturnini) , raccolta caratterizzata da molteplici influenze poetiche a cui seguirono le Fêtes galantes (Feste galanti, 1869), di intonazione più libera e fantasiosa, La bonne chanson (La buona canzone, 1870) in cui il poeta esprime il suo amore per la fidanzata Mathilde Mauté de Fleurville da lui sposata lo stesso anno. Ma il matrimonio ben presto entrò in crisi, sia perché aveva ricominciato a bere, sia perché, politicamente compromesso al tempo della Commune, aveva perso il suo posto di funzionario, sia infine perché ebbe inizio nel 1871 il suo sodalizio letterario e sentimentale che lo legò a Arthur Rimbaud, con il quale un anno dopo fuggirà in Belgio e quindi in Inghilterra. Nel 1873 il poeta fu condannato a Bruxelles, dove si trovava, a due anni di prigione per avere sparato a Rimbaud due colpi di rivoltella. In carcere sembrò ritrovare la fede cattolica e maturò una nuova forma poetica, basata sulla musica del verso e su toni più suggestivi ed evocativi (Romances sans paroles, Romanzi senza parole, 1874; Sagesse, Saggezza, 1881). Uscito di prigione, Verlaine viaggiò in Francia e Inghilterra, proseguendo nella sua lirica, finché si stabilì a Parigi, chiamato dai discepoli «il principe dei poeti ». Le sue ultime raccolte poetiche sono: Jadis et naguère (Ora e poco fa, 1884), con la famosa Art poètique (Arte poetica), Parallèlement (Parallelamente, 1889), Bonheur (Felicità, 1891), Chansons pour elle (Canzoni per Lei, 1891), Liturgies intimes (Liturgie intime, 1892), Dans les limbes (Nei limbi, 1894), ecc. Dei suoi scritti in prosa si ricordano i Les Poètes maudits (I poeti maledetti, 1884), che ebbero una vasta eco nella critica del tempo.
Da "http://www.nazioneindiana.com/2009/10/20/la-lettera-del-veggente/" :
La Lettera del Veggente
[Arthur
Rimbaud nacque il 20 ottobre di centocinquantacinque anni fa.
Volentieri pubblico un contributo di Mauro Baldrati alla conoscenza di questa straordinaria meteora, vero annuncio della modernità. a.s.]
di Mauro Baldrati
La Lettera del Veggente porta la data del 15 maggio 1871, era indirizzata al poeta Paul Demeny, amico di Georges Izambard, una figura importante nella vita e nella formazione di Arthur Rimbaud: giovane professore del Ginnasio, intellettuale repubblicano e laico (e per questo particolarmente odiato dalla madre, una donna dura, bigotta, dalla quale Rimbaud non riuscì mai a separarsi veramente) lo iniziò alle letture dei romantici e dei parnassiani.
Rimbaud aveva 16 anni e sette mesi, l’età, come aveva scritto un anno prima a Théodore de Banville, “delle speranze e delle chimere”. In realtà era un’età virtuale, perché nella lettera a Banville mentiva, si presentava come diciassettenne, in realtà non aveva ancora compiuto i 16. Ma Rimbaud era avanti, sempre avanti, bruciava in fretta la vita e il tempo, proprio come quella candela accesa da entrambi i lati immortalata in Blade Runner.
Era reduce dalla sua terza fuga a Parigi, in cerca di fortuna, di un rifugio dall’inferno-delizia di Charleville, la cittadina delle Ardenne dove, come scriveva a Izambard un anno prima, “muoio, mi decompongo nella scipitaggine, nella meschinità, nel grigiore” (ma, scriverà due anni dopo a Delahaye, “rimpiango l’atroce Charlestown”).
Il 18 marzo a Parigi aveva preso il potere La Comune, alla quale Rimbaud si sentiva di aderire totalmente (aveva anche scritto un abbozzo di Costituzione Comunista), quella società rivoluzionaria e democratica che finalmente potesse spazzare via tutti i bigotti, i tronfi borghesi, i falsi poeti, oggetti del dileggio, del sarcasmo feroce e aggressivo di tante poesie. E proprio alla lettera erano allegati tre testi: Il Canto di guerra Parigino, dedicato alla Comune e alla violenta repressione da poco sferrata dai versagliesi; Le mie dolci fanciulle innamorate, considerata un’ode alla misoginia, ritmata da un ritmo frenetico, rabbioso, quasi antipoetico. Secondo S. Bernard questa poesia fu scritta probabilmente in seguito a una delusione amorosa, invece secondo Ivos Margoni, che ha curato l’opera completa, sarebbe una presa di coscienza della propria tendenza omosessuale. Comunque sia, colpisce il tono sarcastico, apparentemente antifemminile (“O mia racchiona blu!”), contrapposto all’aperto femminismo della Lettera: “Quando sarà spezzata l’infinità schiavitù della donna, quando ella vivrà per sé e grazie a sé”. La terza poesia, “un canto pio”, L’Accovacciato, è la lapidazione grottesca di quel bonhomme pigro, vile, meschino e subumano che rappresentava la quintessenza del suo disprezzo.
Quindi il sedicenne Rimbaud, all’apice della sua rabbia di adolescente ribelle, sta vergando velocemente, nervosamente, come suo solito, un documento che sarà considerato il primo, vero manifesto di una nuova letteratura d’avanguardia. In questo testo il nuovo viene contrapposto al vecchio, attraverso un processo di ricerca, oscuro, devastante, che farà del Poeta un “veggente”, un “orribile lavoratore” che punta all’ignoto, verso orizzonti sconosciuti, dove la poesia non ritmerà più l’azione, ma la supererà.
“Io dico che bisogna essere veggente (…), mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi.”
Sono state fatte innumerevoli letture di questo passo. Per alcuni è una proiezione biografica di Rimbaud, della sua continua ricerca per liberare la mente; ed è stato letto in chiave autodistruttiva, come in parte autodistruttivo sarà il percorso del suo autore, che culminerà a Londra con l’amico e compagno Verlaine a sperimentare droghe, alcol, vita miserabile, e che fu oggetto di identificazione per esempio da Jim Morison, durante la sua breve vita. Sono state individuate componenti mistiche, di occultismo, demoniache, di derivazione romantica e baudelairiana. Eppure sono altre le letture possibili. Nella Lettera del Veggente Rimbaud insegue soprattutto una nuova poetica, e un nuovo stile. Lo scrive, con parole più semplici, in una lettera di due giorni prima a Georges Izambard, quando parla di “poesia oggettiva”. E’ un punto importante, rivela la concezione del poeta-lavoratore che crede nel progresso, nel futuro, nella liberazione materiale del popolo, dei “gaglioffi” della Comune (“in questo momento mi ingaglioffo il più possibile” scrive a Izambard). Il Veggente quindi non è solo il navigatore di un moderno irrazionalismo, ma è un ricercatore di quell’Io universale, non territoriale, che accomuna tutte le persone in una “sinfonia profonda”: l’Io che “è un altro” (e qui Rimbaud sembra riscrivere, come faceva spesso, il “Je suis l’autre” di Nerval). Lo sregolamento può essere quindi un cammino, lungo e accidentato – sofferente, folle, ma non necessariamente autodistruttivo – per superare, attraverso una ricerca verso territori mentali non esplorati, la soggettività dell’arte vecchia, quella “poesia soggettiva” che imputava a Izambard fatta di “canzoni” più che di opere capite, di sofferenze individuali: “quest’avvenire sarà materialista”, è una frase che può, deve essere presa alla lettera, e non sempre e solo in chiave simbolica, per caricarla di significati che la riscattino dalla sua apparente banalità. L’arte, la Poesia, segue la vita, e si libera con la liberazione dell’uomo dalla schiavitù, dalla miseria e dall’oppressione. Echeggiano certamente gli scrittori democratici, etici, dell’epoca romantica, Hugo in primis, che Rimbaud leggeva e amava. Ma il superamento rimbaldiano è importante per il progetto di una scrittura collettiva, inseguita, progettata dal grande sapiente, dal “grande maledetto”. Per questo deve “trovare una lingua”, che sarà “l’anima per l’anima, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori.” Intuizione prodigiosa, la scrittura come “macchina totale” che racchiude le immagini, i suoni, gli odori. Come non pensare alle due macchine più potenti del primo Novecento, Proust (il quale peraltro non doveva amare particolarmente Rimbaud, lui, fine baudelairiano), che attraverso il suo stile in divenire sembra mettere in pratica la sfida rimbaldiana in un’opera compiuta; e Kafka, col suo disseccamento dall’interno della lingua “di carta” dominante, produce davvero una scrittura collettiva, una scrittura minore estranea a tutti gli estetismi e i lirismi.
Leggiamo dunque questa riflessione del Rimbaud sedicenne, provando a semplificarla, a ripulirla da tutti i simbolismi e le esegesi – in chiave religiosa, o antireligiosa – di cui è stata caricata nel corso degli anni.
La traduzione è di Ivos Margoni, rimbaldologo fra i più sensibili e competenti.
La Lettera del Veggente1
A Paul Demeny
a Douai
Charleville, 15 maggio 1871.
Ho deciso di offrirle un’ora di letteratura nuova. Comincio subito con un salmo di attualità:
Chant de guerre parisien
Le Printemps est évident, car…
A. Rimbaud.
- Ed eccole ora della prosa sull’avvenire della poesia: – Tutta la poesia antica sfocia nella poesia greca, Vita armoniosa. – Dalla Grecia al movimento romantico, – medioevo, – ci sono letterati, versificatori. Da Ennio a Teroldo, da Teroldo a Casimir Delavigne, tutto è prosa rimata, giuochetto, smidollamento e gloria di innumerevoli generazioni idiote: Racine è il puro, il forte, il grande. – Se qualcuno avesse soffiato sulle sue rime e ingarbugliato i suoi emistichi, quel Divino Sciocco oggi sarebbe sconosciuto quanto un qualsiasi autore di Origini. Dopo Racine, il giuochetto fa la muffa. E’ durato duemila anni!
Non è uno scherzo né un paradosso. La ragione m’ispira sull’argomento certezze più numerose delle collere che avrebbe potuto avere un Jeune-France. Del resto, i nuovi sono liberi di esecrare i vecchi: siamo a casa nostra e non è certo il tempo a mancarci.
Il romanticismo non è stato mai giudicato bene. E chi avrebbe potuto giudicarlo? I critici!? O proprio quei romantici che ci provano così bene che la canzone è rarissimamente l’opera, e cioè il pensiero cantato e capito dal cantore?
Infatti; Io è un altro. Se l’ottone si desta tromba, non è certo per colpa sua. La cosa mi pare ovvia: io assisto allo sbocciare del mio pensiero: lo guardo, lo ascolto: do un colpo d’archetto: la sinfonia si agita nelle profondità, oppure salta con un balzo sulla scena.
Se i vecchi imbecilli non avessero trovato dell’Io che il significato falso, non avremmo da spazzar via questi milioni di scheletri che, da tempo infinito, hanno accatastato i prodotti del loro guercio intelletto, proclamandosene fieramente gli autori!
In Grecia, dicevo, versi e lire ritmano l’Azione. Dopo, musica e rime sono giuochi, svaghi. Lo studio di questo passato seduce i curiosi: parecchi si lasciano andare con gioia a rinnovare queste anticaglie: – a loro sta bene. L’intelligenza universale ha sempre sparso le sue idee naturalmente; gli uomini raccoglievano una parte di questi frutti del cervello: agivano mediante, scrivevano libri con esse: così andava avanti la faccenda, poiché l’uomo non lavorava a se stesso, non essendo ancora desto, o non ancora nella pienezza del gran sogno. Funzionari, scrittori: autore, creatore, poeta, quest’uomo non è mai esistito!
Il primo studio dell’uomo che voglia esser poeta è la sua propria conoscenza, intera; egli cerca la sua anima, l’indaga, la scruta, l’impara. Appena la sa, deve coltivarla; la cosa sembra semplice: in ogni cervello si compie uno sviluppo naturale; tanti egoisti si proclamano autori; ce ne sono molti altri che si attribuiscono il loro progresso intellettuale! – Ma si tratta di rendere l’anima mostruosa: come i comprachicos , insomma! Immagini un uomo che si pianti verruche sul viso e le coltivi.
Io dico che bisogna esser veggente, farsi veggente.
Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di pazzia; cerca egli stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto, – e il sommo Sapiente! – Egli giunge infatti all’ignoto! Poiché ha coltivato la sua anima, già ricca, più di qualsiasi altro! Egli giunge all’ignoto, e quand’anche, sbigottito, finisse col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le avrebbe pur viste! Che crepi nel suo balzo attraverso le cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti sui quali l’altro si è abbattuto!
- Il seguito fra sei minuti –
Qui inserisco un secondo salmo, fuori testo: porga, la prego, un compiacente orecchio, – e tutti saranno deliziati. – Ho in mano l’archetto, comincio:
Mes petites amoureuses
Un hydrolat lacrymal lave…
A. R.
Ecco. E noti bene che, se non temessi di farle sborsare più di 60 centesimi di tassa, – io, povero sventurato che, da sette mesi, non ho avuto in mano neanche un soldo di bronzo! – le darei anche i miei Amanti di Parigi, cento esametri, egregio Signore, e la mia Morte di Parigi, duecento esametri!
- Riprendo:
Dunque il poeta è veramente un ladro di fuoco.
A suo carico sono l’umanità, gli animali addirittura; dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò che riporta di laggiù ha forma, egli dà forma; se è informe, egli dà l’informe. Trovare una lingua; – Del resto, dato che ogni parola è idea, verrà il tempo di un linguaggio universale! Bisogna essere un accademico, – più morto di un fossile, – per rifinire un dizionario, di qualunque lingua sia. Se dei deboli si mettessero a pensare sulla prima lettera dell’alfabeto, rovinerebbero subito nella pazzia!
Questa lingua sarà anima per l’anima, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori; pensiero che uncina il pensiero e tira. Il poeta definirebbe la quantità di ignoto che nel suo tempo si desta nell’anima universale: egli darebbe di più – della formula del suo pensiero, della notazione della sua marcia verso il Progresso! Enormità che si fa norma, assorbita da tutti, egli sarebbe veramente un moltiplicatore di progresso!
Quest’avvenire sarà materialista, lo vede; – Sempre piene di Numero e di Armonia, queste poesie saranno fatte per restare. – In fondo, sarebbe ancora un po’ la Poesia greca.
L’arte eterna avrebbe le proprie funzioni, così come i poeti sono cittadini. La Poesia non ritmerà più l’azione; sarà avanti.
Questi poeti saranno! Quando sarà spezzata l’infinita schiavitù della donna, quando ella vivrà per sé e grazie a sé, dopo che l’uomo, – finora abominevole, – l’avrà congedata, sarà poeta anche lei! La donna troverà dell’ignoto! I suoi mondi d’idee saranno diversi dai nostri? – Troverà cose strane, insondabili, ripugnanti, deliziose; noi le prenderemo, le capiremo.
Nel frattempo, chiediamo ai poeti il nuovo, – idee e forme. Ogni mestierante potrebbe credere ben presto di avere soddisfatto tale domanda. – No, non è così!
I primi romantici sono stati veggenti quasi senza rendersene conto: la coltivazione delle loro anime ha preso inizio da incidenti: locomotive abbandonate, ma ardenti, imprigionate per qualche tempo dalle rotaie. – Lamartine, talvolta è veggente, ma strozzato da una forma vecchia. – Hugo, troppo testardo, ha, pure, del visto negli ultimi volumi: I Miserabili sono una vera poesia. Ho I Castighi sotto mano; Stella dà pressapoco la misura della vista di Hugo. C’è troppo Belmontet e Lamennais, troppo Geova e colonne, vecchie enormità sgonfiate.
Musset è quattordici volte esecrabile per noi, generazioni dolorose e in preda alle visioni, – insultate dalla sua antica pigrizia! Oh! Quegli insipidi racconti e proverbi! Oh, quelle notti! Oh, quel Rolla, quella Namouna, quella Coppa! Tutto è francese, e cioè sommamente odioso; francese, non parigino! Ancora un’opera di quell’antipatico genio che ha ispirato Rabelais, Voltaire, Jean de la Fontaine! Commentato dal signor Taine! Primaverile, lo spirito di Musset! Delizioso, il suo amore! Eccola lì, e a iosa, la pittura su smalto, la poesia solida! La poesia francese sarà centellinata ancora per molto tempo, ma in Francia. Non c’è garzone di bottega che non sia capace di buttar giù un’apostrofe in stile Rolla, non c’è seminarista che non porti quelle cinquecento rime nel segreto del suo taccuino. A quindici anni, quegli slanci di passione mettono i giovani in foia; a sedici anni, si accontentano già di recitarli con sentimento; a diciotto anni, anche a diciassette, qualsiasi collegiale che ne abbia la possibilità, fa il Rolla, scrive un Rolla! Qualcuno forse è ancora capace di morirne. Musset non ha saputo fare nulla: c’erano visioni dietro la garza delle tende: lui ha chiuso gli occhi. Francese fiacco, trascinato dalla taverna al leggio del collegio, quel bel morto è ben morto, e, ormai, non diamoci nemmeno più la pena di ridestarlo col nostro vituperio!
I secondi romantici sono molto veggenti: Th. Gautier, Lec. De Lisle, Th. de Banville. Ma siccome investigare l’invisibile e udire l’inaudito è cosa diversa dal riprendere lo spirito delle cose morte, Baudelaire è il primo veggente, il re dei poeti, un vero Dio. Tuttavia egli è vissuto in un ambiente troppo artistico; e la forma tanto vantata in lui è meschina: le invenzioni d’ignoto richiedono forme nuove.
Rotta alle forme vecchie, fra gli innocenti, A. Renaud, – ha rollificato; L. Grandet, – ha rollificato; i Galli e i Musset, G. Lafenestre, Coran, Cl. Popelin, Soulary, L. Salles; gli scolaretti, Marc, Aicard, Theuriet; i defunti e gli imbecilli, Autran, Barbier, L. Pichat, Lemoyne, i Deschamps, i Desessarts; i giornalisti, L. Cladel, Robert Luzarches, X. De Ricard; gli estrosi, C. Mendès; i bohème; le donne; i talenti, Léon Dierx, Sully-Prudhomme, Coppée, – la nuova scuola, detta parnassiana, ha due veggenti, Albert Mérat e Paul Verlaine, un vero poeta. – Ecco. – Così lavoro a rendermi veggente. – E terminiamo con un canto pio.
Accroupissements
Bien tard, quand il se sent l’estomac écœuré,
Lei sarebbe esecrando se non mi rispondesse; e faccia presto, ché fra otto giorni sarò a Parigi, forse. Arrivederci,
A. RIMBAUD
Volentieri pubblico un contributo di Mauro Baldrati alla conoscenza di questa straordinaria meteora, vero annuncio della modernità. a.s.]
di Mauro Baldrati
La Lettera del Veggente porta la data del 15 maggio 1871, era indirizzata al poeta Paul Demeny, amico di Georges Izambard, una figura importante nella vita e nella formazione di Arthur Rimbaud: giovane professore del Ginnasio, intellettuale repubblicano e laico (e per questo particolarmente odiato dalla madre, una donna dura, bigotta, dalla quale Rimbaud non riuscì mai a separarsi veramente) lo iniziò alle letture dei romantici e dei parnassiani.
Rimbaud aveva 16 anni e sette mesi, l’età, come aveva scritto un anno prima a Théodore de Banville, “delle speranze e delle chimere”. In realtà era un’età virtuale, perché nella lettera a Banville mentiva, si presentava come diciassettenne, in realtà non aveva ancora compiuto i 16. Ma Rimbaud era avanti, sempre avanti, bruciava in fretta la vita e il tempo, proprio come quella candela accesa da entrambi i lati immortalata in Blade Runner.
Era reduce dalla sua terza fuga a Parigi, in cerca di fortuna, di un rifugio dall’inferno-delizia di Charleville, la cittadina delle Ardenne dove, come scriveva a Izambard un anno prima, “muoio, mi decompongo nella scipitaggine, nella meschinità, nel grigiore” (ma, scriverà due anni dopo a Delahaye, “rimpiango l’atroce Charlestown”).
Il 18 marzo a Parigi aveva preso il potere La Comune, alla quale Rimbaud si sentiva di aderire totalmente (aveva anche scritto un abbozzo di Costituzione Comunista), quella società rivoluzionaria e democratica che finalmente potesse spazzare via tutti i bigotti, i tronfi borghesi, i falsi poeti, oggetti del dileggio, del sarcasmo feroce e aggressivo di tante poesie. E proprio alla lettera erano allegati tre testi: Il Canto di guerra Parigino, dedicato alla Comune e alla violenta repressione da poco sferrata dai versagliesi; Le mie dolci fanciulle innamorate, considerata un’ode alla misoginia, ritmata da un ritmo frenetico, rabbioso, quasi antipoetico. Secondo S. Bernard questa poesia fu scritta probabilmente in seguito a una delusione amorosa, invece secondo Ivos Margoni, che ha curato l’opera completa, sarebbe una presa di coscienza della propria tendenza omosessuale. Comunque sia, colpisce il tono sarcastico, apparentemente antifemminile (“O mia racchiona blu!”), contrapposto all’aperto femminismo della Lettera: “Quando sarà spezzata l’infinità schiavitù della donna, quando ella vivrà per sé e grazie a sé”. La terza poesia, “un canto pio”, L’Accovacciato, è la lapidazione grottesca di quel bonhomme pigro, vile, meschino e subumano che rappresentava la quintessenza del suo disprezzo.
Quindi il sedicenne Rimbaud, all’apice della sua rabbia di adolescente ribelle, sta vergando velocemente, nervosamente, come suo solito, un documento che sarà considerato il primo, vero manifesto di una nuova letteratura d’avanguardia. In questo testo il nuovo viene contrapposto al vecchio, attraverso un processo di ricerca, oscuro, devastante, che farà del Poeta un “veggente”, un “orribile lavoratore” che punta all’ignoto, verso orizzonti sconosciuti, dove la poesia non ritmerà più l’azione, ma la supererà.
“Io dico che bisogna essere veggente (…), mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi.”
Sono state fatte innumerevoli letture di questo passo. Per alcuni è una proiezione biografica di Rimbaud, della sua continua ricerca per liberare la mente; ed è stato letto in chiave autodistruttiva, come in parte autodistruttivo sarà il percorso del suo autore, che culminerà a Londra con l’amico e compagno Verlaine a sperimentare droghe, alcol, vita miserabile, e che fu oggetto di identificazione per esempio da Jim Morison, durante la sua breve vita. Sono state individuate componenti mistiche, di occultismo, demoniache, di derivazione romantica e baudelairiana. Eppure sono altre le letture possibili. Nella Lettera del Veggente Rimbaud insegue soprattutto una nuova poetica, e un nuovo stile. Lo scrive, con parole più semplici, in una lettera di due giorni prima a Georges Izambard, quando parla di “poesia oggettiva”. E’ un punto importante, rivela la concezione del poeta-lavoratore che crede nel progresso, nel futuro, nella liberazione materiale del popolo, dei “gaglioffi” della Comune (“in questo momento mi ingaglioffo il più possibile” scrive a Izambard). Il Veggente quindi non è solo il navigatore di un moderno irrazionalismo, ma è un ricercatore di quell’Io universale, non territoriale, che accomuna tutte le persone in una “sinfonia profonda”: l’Io che “è un altro” (e qui Rimbaud sembra riscrivere, come faceva spesso, il “Je suis l’autre” di Nerval). Lo sregolamento può essere quindi un cammino, lungo e accidentato – sofferente, folle, ma non necessariamente autodistruttivo – per superare, attraverso una ricerca verso territori mentali non esplorati, la soggettività dell’arte vecchia, quella “poesia soggettiva” che imputava a Izambard fatta di “canzoni” più che di opere capite, di sofferenze individuali: “quest’avvenire sarà materialista”, è una frase che può, deve essere presa alla lettera, e non sempre e solo in chiave simbolica, per caricarla di significati che la riscattino dalla sua apparente banalità. L’arte, la Poesia, segue la vita, e si libera con la liberazione dell’uomo dalla schiavitù, dalla miseria e dall’oppressione. Echeggiano certamente gli scrittori democratici, etici, dell’epoca romantica, Hugo in primis, che Rimbaud leggeva e amava. Ma il superamento rimbaldiano è importante per il progetto di una scrittura collettiva, inseguita, progettata dal grande sapiente, dal “grande maledetto”. Per questo deve “trovare una lingua”, che sarà “l’anima per l’anima, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori.” Intuizione prodigiosa, la scrittura come “macchina totale” che racchiude le immagini, i suoni, gli odori. Come non pensare alle due macchine più potenti del primo Novecento, Proust (il quale peraltro non doveva amare particolarmente Rimbaud, lui, fine baudelairiano), che attraverso il suo stile in divenire sembra mettere in pratica la sfida rimbaldiana in un’opera compiuta; e Kafka, col suo disseccamento dall’interno della lingua “di carta” dominante, produce davvero una scrittura collettiva, una scrittura minore estranea a tutti gli estetismi e i lirismi.
Leggiamo dunque questa riflessione del Rimbaud sedicenne, provando a semplificarla, a ripulirla da tutti i simbolismi e le esegesi – in chiave religiosa, o antireligiosa – di cui è stata caricata nel corso degli anni.
La traduzione è di Ivos Margoni, rimbaldologo fra i più sensibili e competenti.
La Lettera del Veggente1
A Paul Demeny
a Douai
Charleville, 15 maggio 1871.
Ho deciso di offrirle un’ora di letteratura nuova. Comincio subito con un salmo di attualità:
Chant de guerre parisien
Le Printemps est évident, car…
A. Rimbaud.
- Ed eccole ora della prosa sull’avvenire della poesia: – Tutta la poesia antica sfocia nella poesia greca, Vita armoniosa. – Dalla Grecia al movimento romantico, – medioevo, – ci sono letterati, versificatori. Da Ennio a Teroldo, da Teroldo a Casimir Delavigne, tutto è prosa rimata, giuochetto, smidollamento e gloria di innumerevoli generazioni idiote: Racine è il puro, il forte, il grande. – Se qualcuno avesse soffiato sulle sue rime e ingarbugliato i suoi emistichi, quel Divino Sciocco oggi sarebbe sconosciuto quanto un qualsiasi autore di Origini. Dopo Racine, il giuochetto fa la muffa. E’ durato duemila anni!
Non è uno scherzo né un paradosso. La ragione m’ispira sull’argomento certezze più numerose delle collere che avrebbe potuto avere un Jeune-France. Del resto, i nuovi sono liberi di esecrare i vecchi: siamo a casa nostra e non è certo il tempo a mancarci.
Il romanticismo non è stato mai giudicato bene. E chi avrebbe potuto giudicarlo? I critici!? O proprio quei romantici che ci provano così bene che la canzone è rarissimamente l’opera, e cioè il pensiero cantato e capito dal cantore?
Infatti; Io è un altro. Se l’ottone si desta tromba, non è certo per colpa sua. La cosa mi pare ovvia: io assisto allo sbocciare del mio pensiero: lo guardo, lo ascolto: do un colpo d’archetto: la sinfonia si agita nelle profondità, oppure salta con un balzo sulla scena.
Se i vecchi imbecilli non avessero trovato dell’Io che il significato falso, non avremmo da spazzar via questi milioni di scheletri che, da tempo infinito, hanno accatastato i prodotti del loro guercio intelletto, proclamandosene fieramente gli autori!
In Grecia, dicevo, versi e lire ritmano l’Azione. Dopo, musica e rime sono giuochi, svaghi. Lo studio di questo passato seduce i curiosi: parecchi si lasciano andare con gioia a rinnovare queste anticaglie: – a loro sta bene. L’intelligenza universale ha sempre sparso le sue idee naturalmente; gli uomini raccoglievano una parte di questi frutti del cervello: agivano mediante, scrivevano libri con esse: così andava avanti la faccenda, poiché l’uomo non lavorava a se stesso, non essendo ancora desto, o non ancora nella pienezza del gran sogno. Funzionari, scrittori: autore, creatore, poeta, quest’uomo non è mai esistito!
Il primo studio dell’uomo che voglia esser poeta è la sua propria conoscenza, intera; egli cerca la sua anima, l’indaga, la scruta, l’impara. Appena la sa, deve coltivarla; la cosa sembra semplice: in ogni cervello si compie uno sviluppo naturale; tanti egoisti si proclamano autori; ce ne sono molti altri che si attribuiscono il loro progresso intellettuale! – Ma si tratta di rendere l’anima mostruosa: come i comprachicos , insomma! Immagini un uomo che si pianti verruche sul viso e le coltivi.
Io dico che bisogna esser veggente, farsi veggente.
Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di pazzia; cerca egli stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto, – e il sommo Sapiente! – Egli giunge infatti all’ignoto! Poiché ha coltivato la sua anima, già ricca, più di qualsiasi altro! Egli giunge all’ignoto, e quand’anche, sbigottito, finisse col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le avrebbe pur viste! Che crepi nel suo balzo attraverso le cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti sui quali l’altro si è abbattuto!
- Il seguito fra sei minuti –
Qui inserisco un secondo salmo, fuori testo: porga, la prego, un compiacente orecchio, – e tutti saranno deliziati. – Ho in mano l’archetto, comincio:
Mes petites amoureuses
Un hydrolat lacrymal lave…
A. R.
Ecco. E noti bene che, se non temessi di farle sborsare più di 60 centesimi di tassa, – io, povero sventurato che, da sette mesi, non ho avuto in mano neanche un soldo di bronzo! – le darei anche i miei Amanti di Parigi, cento esametri, egregio Signore, e la mia Morte di Parigi, duecento esametri!
- Riprendo:
Dunque il poeta è veramente un ladro di fuoco.
A suo carico sono l’umanità, gli animali addirittura; dovrà far sentire, palpare, ascoltare le sue invenzioni; se ciò che riporta di laggiù ha forma, egli dà forma; se è informe, egli dà l’informe. Trovare una lingua; – Del resto, dato che ogni parola è idea, verrà il tempo di un linguaggio universale! Bisogna essere un accademico, – più morto di un fossile, – per rifinire un dizionario, di qualunque lingua sia. Se dei deboli si mettessero a pensare sulla prima lettera dell’alfabeto, rovinerebbero subito nella pazzia!
Questa lingua sarà anima per l’anima, riassumerà tutto: profumi, suoni, colori; pensiero che uncina il pensiero e tira. Il poeta definirebbe la quantità di ignoto che nel suo tempo si desta nell’anima universale: egli darebbe di più – della formula del suo pensiero, della notazione della sua marcia verso il Progresso! Enormità che si fa norma, assorbita da tutti, egli sarebbe veramente un moltiplicatore di progresso!
Quest’avvenire sarà materialista, lo vede; – Sempre piene di Numero e di Armonia, queste poesie saranno fatte per restare. – In fondo, sarebbe ancora un po’ la Poesia greca.
L’arte eterna avrebbe le proprie funzioni, così come i poeti sono cittadini. La Poesia non ritmerà più l’azione; sarà avanti.
Questi poeti saranno! Quando sarà spezzata l’infinita schiavitù della donna, quando ella vivrà per sé e grazie a sé, dopo che l’uomo, – finora abominevole, – l’avrà congedata, sarà poeta anche lei! La donna troverà dell’ignoto! I suoi mondi d’idee saranno diversi dai nostri? – Troverà cose strane, insondabili, ripugnanti, deliziose; noi le prenderemo, le capiremo.
Nel frattempo, chiediamo ai poeti il nuovo, – idee e forme. Ogni mestierante potrebbe credere ben presto di avere soddisfatto tale domanda. – No, non è così!
I primi romantici sono stati veggenti quasi senza rendersene conto: la coltivazione delle loro anime ha preso inizio da incidenti: locomotive abbandonate, ma ardenti, imprigionate per qualche tempo dalle rotaie. – Lamartine, talvolta è veggente, ma strozzato da una forma vecchia. – Hugo, troppo testardo, ha, pure, del visto negli ultimi volumi: I Miserabili sono una vera poesia. Ho I Castighi sotto mano; Stella dà pressapoco la misura della vista di Hugo. C’è troppo Belmontet e Lamennais, troppo Geova e colonne, vecchie enormità sgonfiate.
Musset è quattordici volte esecrabile per noi, generazioni dolorose e in preda alle visioni, – insultate dalla sua antica pigrizia! Oh! Quegli insipidi racconti e proverbi! Oh, quelle notti! Oh, quel Rolla, quella Namouna, quella Coppa! Tutto è francese, e cioè sommamente odioso; francese, non parigino! Ancora un’opera di quell’antipatico genio che ha ispirato Rabelais, Voltaire, Jean de la Fontaine! Commentato dal signor Taine! Primaverile, lo spirito di Musset! Delizioso, il suo amore! Eccola lì, e a iosa, la pittura su smalto, la poesia solida! La poesia francese sarà centellinata ancora per molto tempo, ma in Francia. Non c’è garzone di bottega che non sia capace di buttar giù un’apostrofe in stile Rolla, non c’è seminarista che non porti quelle cinquecento rime nel segreto del suo taccuino. A quindici anni, quegli slanci di passione mettono i giovani in foia; a sedici anni, si accontentano già di recitarli con sentimento; a diciotto anni, anche a diciassette, qualsiasi collegiale che ne abbia la possibilità, fa il Rolla, scrive un Rolla! Qualcuno forse è ancora capace di morirne. Musset non ha saputo fare nulla: c’erano visioni dietro la garza delle tende: lui ha chiuso gli occhi. Francese fiacco, trascinato dalla taverna al leggio del collegio, quel bel morto è ben morto, e, ormai, non diamoci nemmeno più la pena di ridestarlo col nostro vituperio!
I secondi romantici sono molto veggenti: Th. Gautier, Lec. De Lisle, Th. de Banville. Ma siccome investigare l’invisibile e udire l’inaudito è cosa diversa dal riprendere lo spirito delle cose morte, Baudelaire è il primo veggente, il re dei poeti, un vero Dio. Tuttavia egli è vissuto in un ambiente troppo artistico; e la forma tanto vantata in lui è meschina: le invenzioni d’ignoto richiedono forme nuove.
Rotta alle forme vecchie, fra gli innocenti, A. Renaud, – ha rollificato; L. Grandet, – ha rollificato; i Galli e i Musset, G. Lafenestre, Coran, Cl. Popelin, Soulary, L. Salles; gli scolaretti, Marc, Aicard, Theuriet; i defunti e gli imbecilli, Autran, Barbier, L. Pichat, Lemoyne, i Deschamps, i Desessarts; i giornalisti, L. Cladel, Robert Luzarches, X. De Ricard; gli estrosi, C. Mendès; i bohème; le donne; i talenti, Léon Dierx, Sully-Prudhomme, Coppée, – la nuova scuola, detta parnassiana, ha due veggenti, Albert Mérat e Paul Verlaine, un vero poeta. – Ecco. – Così lavoro a rendermi veggente. – E terminiamo con un canto pio.
Accroupissements
Bien tard, quand il se sent l’estomac écœuré,
Lei sarebbe esecrando se non mi rispondesse; e faccia presto, ché fra otto giorni sarò a Parigi, forse. Arrivederci,
A. RIMBAUD
- i testi delle tre poesie incluse da Rimbaud nella Lettera sono leggibili in originale, insieme col resto della produzione poetica dell’autore, qui.
Ho molto da fare in questa mattina. Spero scrivere un commento a proposito del magnifico post di Sparz e del testo di Mauro Baldrati. Si deve una lettura attenta, profunda per una meraviglia.
La poesia di Arthur Rimbaud è un sole rosso del linguaggio,
un verso esploratore della parola, la lingua natale diventa straniera
come in un territorio sconosciuto. E’ forse la parte che mi affascina, l’idea del poeta all’alba, nel deserto, svegliando il paesaggio.
Essere veggente è creare il linguaggio poetico della transa,
del mago, come la Pythie ( accenno al libro che voglio acquistare: quello di Viola Amarelli), si delinea un linguaggio fuori della civilisazione, una parola creata nel vincolo tra l’uomo e il sacro del mondo.
mdp
è sempre importante ogni tanto tornare ai fondamentali, così con questo post, grazie
Prego ignorare o cancellare il commento precedente in quanto l’url del videoclip è errato. Grazie
Concordo con la tua interpretazione, fermo restando che Rimbaud resta un enigma senza fine. Ma debbo citare altri nomi novecenteschi di scrittura “verticale”, come tu l’hai definita: il grandissimo Paul Celan, Georg Trakl, Franz Kafka, Flennery O’Connor, Thomas Bernhard, per citarne soltanto alcuni. Ma la verticalità di Rimbaud, la sua terribile celerité, sconfina nell’intimazione apodittica, è punto luminoso che implode. Non c’è ascensione ma irradiazione.
nb.: anche se probabilmente UNA STAGIONE ALL’INFERNO e le ILLUMINAZIONI sono coeve, è lampante che la riuscita ultima si realizza nelle ILLUMINAZIONI. Quanto al disprezzo che Camus esprime ne L’UOMO IN RIVOLTA contro l’abbandono poetico da parte di Rimbaud, mi sa tanto di moralismo, non mi convince. Rimbaud non abdica a mezzo, ma dopo essersi letteralmente prosciugato: di cosa ancora doveva rispondere?
Per cui
Rimbaldiani forever!
Ed era una sola poesia? Si trovano pochissime informazioni al riguardo. però se verlaine ha detto che era la sua più bella probabilmente non era vero, eheh, non mi fido del gusto di verlaine. per chiosare penso anche io che le illuminazioni, al di là della datazione, siano la creazione migliore del ragazzino di charleville.
Grazie per gli spunti ragazzi.
Però negli ultimi tempi, accanto a quest’idea per così dire oggettiva, sono portato a credere che Rimbaud abbia agito soprattutto per problemi personali. Continuava a tornare a Charleville, dalla madre. Era dipendente, in un paio di lettere scrive che gli mancava l’indolenza della cittadina (Charlestown), la biblioteca, forse lo stesso bibliotecario che ha sbeffeggiato in una poesia. Sapeva di essere prigioniero, che le sue fughe erano a tempo limitato, che rischiava di diventare uno schiavo della propria sofferenza. Uno schiavo dell’inferno. Che è quanto era accaduto al suo predecessore Baudelaire, grandissimo poeta (da un punto di vista tecnico forse più raffinato di Rimbaud) e grandissimo cultore della sofferenza, della meschinità e dell’infelicità come forma perversa di godimento. E qui mi permetto di citare me stesso, cosa che faccio raramente, su Baudelaire:
http://www.vibrissebollettino.net/archives/2006/07/scrivere_per_ve_1.html
Insomma, ha rotto su tutto. Soprattutto sulla dipendenza dalla madre, dall’ambiente. Forse non aveva altra scelta.