Presentazione

La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.

lunedì 7 ottobre 2013

Modelli di Razionalità nella Storia del Pensiero (prima parte)


Liceo Ginnasio Statale “G. CHIABRERA” di Savona - Indirizzi Classico e Linguistico
Scuola Polo per l’insegnamento della Filosofia
Laboratorio di ricerca e di didattica della Filosofia
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MODELLI DI RAZIONALITA’ NELLA STORIA DEL PENSIERO
- CLASSE V C
anno scolastico 2004-‘05
Prof.ssa Giosiana CARRARA

“Vi è più di una immagine della ragione. E questo è vero non solo perché possiamo immaginare tipi di
ragione assai diversi tra loro rispetto a quella entro i cui confini li immaginiamo, ma anche e soprattutto
perché è un fatto. (…) Le immagini della ragione risultano sempre determinate, riferite a costellazioni date e,
in qualche senso, hanno carattere locale. Si associano a sistemi di riferimento, regioni circoscritte o campi di
problemi (…). Descrivendo le immagini della ragione, ci troviamo in sostanza a parlare di una famiglia di
costrutti in modo diverso l’uno con l’atro affini. Nulla di più, in ogni caso, anche se non sembra poco”.
(Salvatore Veca)

1. DEFINIZIONE DI RAGIONE
· Termine derivante dalla parola latina ratio, che dal linguaggio comune (in cui significava
“calcolo” o “rapporto”, come ancora oggi in alcuni usi) venne assunta da Cicerone per
tradurre il termine greco logos, il quale, oltre che a “ragione”, significa anche “discorso”.
Successivamente, con la scolastica medievale, esso acquisì un senso più specializzato, come
traduzione di diànoia, in opposizione a nous, a sua volta reso con intellectus.
· Il termine, fondamentale nel linguaggio filosofico, ha acquistato nella storia del pensiero una
grande varietà di accezioni e di sfumature. Si possono indicare due principali significati:
a. ragione come facoltà del pensiero e guida dell’agire dell’uomo;
b. ragione come fondamento ed essenza della realtà.
Il primo significato prevale nella filosofia moderna; il secondo si presenta quando si
concepisce la ragione come la procedura di ricerca o il discorso tramite il quale si rende
intelligibile la verità ( la “ragion d’essere” ) delle cose. Sovente i due significati sono
associati fra loro. Ad esempio, questo accade originariamente con Eraclito, Parmenide e gli
Stoici. Per Eraclito esiste infatti un logos, una legge necessaria di tutte le cose, che si
esprime in un discorso comune, universalmente valido. Secondo Parmenide, il discorso vero
manifesta l’essenza dell’essere. Infine, per gli Stoici, la ragione che governa l’ordine della
natura e del cosmo è l’espressione dello stesso ordine a cui il saggio consapevolmente
s’affida per condurre una vita giusta e felice.
2. LE IMMAGINI DELLA RAGIONE NELLE DOTTRINE DEI FILOSOFI:
DAI PITAGORICI AD HANS JONAS
I Pitagorici
Secondo i Pitagorici i numeri sono il principio di tutte le cose: una cosa è ciò che è non per via di un
qualche elemento costitutivo, ma perché ha una propria figura, una forma geometrica. Ogni forma
geometrica è però, a sua volta, costituita di piani, i piani di linee e le linee di punti. Ora, però, il
punto geometrico è fatto coincidere con l’unità. Ma un insieme di unità costituisce il numero. Per i
Pitagorici aritmetica e geometria coincidono, in modo tale che un numero corrisponde ad una figura
geometrica ed ogni figura geometrica è un numero. Quindi, poiché una figura geometrica è un
ordinamento di punti nello spazio, il numero risulta la misura di tale ordinamento
Comprendere il reale significa allora ridurlo in quantità misurabili e numerabili, ne consegue che le
cose si distinguono in ragione della loro misurabilità e della loro quantificabilità; senza il numero,
infatti, ogni ente risulterebbe "illimitato", incerto, oscuro.
Possiamo, quindi, affermare che i Pitagorici intrattennero un rapporto con la “dottrina dei numeri”
non semplicemente metodologico, ma anche ontologico; purtroppo l’ insufficienza di strumenti
concettuali e materiali limitò fortemente il loro uso della matematica, spingendoli, in tale modo, a
provare a cogliere delle analogie tra le caratteristiche dei numeri e quelle della realtà (per esempio,
giunsero ad affermare che il numero due corrispondeva al genere femminile, il tre al maschile, il
cinque al matrimonio in quanto somma del principio maschile con quello femminile (3 + 2 = 5).
Da tali considerazioni si evince che, per i Pitagorici, i numeri costituivano una gerarchia di valore
(secondo cui ciascun numero è dotato di una propria individualità) regolata da rapporti tra i quali è
possibile individuare delle proporzioni,ossia eguaglianze di rapporti; ed è proprio il binomio
numero-proporzione che genera l’armonia tanto in ambito musicale, quanto nelle relazioni umane
(assegnando a ognuno il dovuto in base alle sue capacità) e su scala cosmica (basti pensare che
persino i moti dei corpi celesti venivano considerati come esprimibili in termini numerici).
Eraclito
Eraclito riteneva che la maggior parte degli uomini (i più, i dormienti- fr. 75) non fosse in grado di
cogliere la verità delle cose, accessibile, invece, soltanto ai filosofi (i desti- fr. 89). Il vero filosofo è
infatti colui che, contrapponendosi ai molti, possiede una visione complessiva, comune e profonda
dell’essere (fr. 29).
“I più”, per conoscere, s’affidano ai sensi, ma i sensi non forniscono la reale conoscenza del mondo.
Quindi, la maggior parte degli uomini non coglie la verità del tutto. I molti, in particolare, ritengono
che un opposto non possa esistere senza l’altro, ad esempio: la pace senza la guerra, la sazietà senza
la fame ed il bene senza il male. Essi infatti non comprendono che l’unità del mondo risiede nella
stretta connessione dei contrari. (fr. 51). E’ questa la legge immutabile che si cela sotto l’apparente
divenire delle cose e al di là della lotta degli opposti tra di loro. Pertanto, ciò che sembra irrazionale,
confuso e molteplice nasconde una verità intrinsecamente razionale. Tale verità trova espressione
nel lógos ( dal greco discorso, parola, ragione). Sia la ragione, sia il discorso vengono tradotti con
lógos, termine che riveste differenti significati.
In primo luogo, Eraclito identifica il lógos con il Fuoco, ossia con il principio fisico che costituisce
il tutto. Il Fuoco è principio primo e sostanza unica di tutte le cose, della loro origine e della loro
distruzione. E’ Fuoco eternamente vivente, in perpetuo mutamento e trasformazione (fr. 30), è
quindi la “ragione eterna” del mondo. Secondo Eraclito l’intera realtà è governata da questo
principio a cui ogni cosa si collega.
In secondo luogo, il filosofo sostiene che i legami sottesi alla natura sono governati dal lógos,
quindi nel mondo la Ragione è “la legge universale”, o “l’armonia segreta” dei contrari.
Ma, in terzo luogo, lógos è anche il “vero discorso”, la “vera realtà delle cose”, che è ragione sia in
senso oggettivo ( in quanto sostanza stessa del reale), sia in senso soggettivo (come anima-ragione
che, simile alle cose, può conoscerle).
In sintesi, i significati del termine lógos sono essenzialmente tre: 1. il Fuoco in quanto principio
fisico dell’universo; 2. la Ragione che come legge universale governa l’universo; 3. il Pensiero che
comprende la Ragione universale e il Discorso che esprime questa conoscenza. A questo proposito,
si dà un nesso tra la Ragione che governa il mondo e quella che governa la nostra mente: esse sono
identiche e dunque l’ambiguità espositiva nell’opera Sulla natura è dettata dallo stesso lógos che fa
si che la natura ami nascondersi.
La comprensione del lógos risulta complessa (fr. 1), ma non impossibile: l’uomo può “dire in
accordo con il lógos ”, quindi conoscere tramite quella ragione che è insita nella sua stessa anima.
Vera parola, Ragione e realtà sono perciò strettamente collegate fra di loro: il lógos (Parola)
descrive mediante il lógos (ragione umana) il lógos (la Ragione del tutto, o armonia dell’universo).
Essere saggi consiste quindi in questo: “comprendere come il tutto sia governato attraverso il tutto
(fr. 41).
Parmenide
Nel Proemio dell’opera in versi, poi intitolata Sulla natura, Parmenide immagina di compiere un
viaggio, la cui meta consiste nella rivelazione filosofica della verità che gli viene comunicata da una
Dea. Tramite la metafora del viaggio, il filosofo introduce l’immagine della “porta che divide i
sentieri della Notte e del Giorno” (DK 28 B1, v.11), raffiguranti, rispettivamente, la via fallace delle
opinioni dei mortali (dóxa) e quella basata sulla ragione che conduce alla verità (alétheia) (DK 28
B1, vv. 29-30). Parmenide può imboccare il sentiero della verità soltanto alla condizione di affidarsi
al principio della ragione. Esso si enuncia con questa tesi: l’essere è e non può non essere e il non
essere non è e non può essere (DK 28 B2 e B3).
In questo modo l’Eleate fa coincidere l’attività della ragione con i principi logici dell’identità e
della non contraddizione, che verranno però codificati soltanto più tardi. In forza della tesi posta,
Parmenide introduce una stretta corrispondenza fra la sfera logica (“il non essere non lo puoi
pensare”), la sfera linguistica (il non essere “non lo puoi esprimere”) (crf. DK 28 b2 vv. 7 e 8) e fra
queste e la sfera ontologica da cui ha mosso la sua riflessione (“il non essere non è e non è possibile
che sia”).
La stretta corrispondenza evidenziata comporta quindi la coincidenza di essere e pensare (“è la
stessa cosa pensare ed essere”: DK 28 B3). Per contro, alla base della tesi della non esistenza del
nulla, egli deduce necessariamente questa serie di attributi dell’essere (cfr. DK 28 B8, vv. 1-13):
ingenerato e imperituro, intero, unico, immobile ed eterno, omogeneo e finito. L’essere è quindi la
ragione di ogni cosa.
A differenza delle cosmologie precedenti, il principio di Parmenide non è connesso al divenire, ma
alla stabilità ed il suo essere corrisponde ad un’entità logica. D’altra parte, l’essere non è
conoscibile tramite le opinioni dei mortali, perché da costoro, “gente dalla doppia testa” (DK 28 B
6, v. 5), “l’essere e il non essere sono ritenuti identici” (DK 28 B 6, v. 8).
In sintesi, Parmenide esclude le generalizzazioni empiriche, che prima di lui gli jonici avevano
formulato, e condanna la conoscenza sensibile perché del tutto contraddittoria. La verità risiede
nella ragione e l’unica conoscenza tramite la quale si accede all’essere vero è dunque quella
razionale.
I fisici pluralisti: Empedocle
Il filosofo di Agrigento sostiene che il principio fondamentale della conoscenza è che “il simile si
conosce col simile”: la conoscenza avviene mediante l’incontro tra l’elemento presente nell’uomo e
lo stesso elemento che si dà al di fuori dell’uomo. Scrive infatti Empedocle che :”Noi conosciamo
la terra con la terra, l’acqua con l’acqua, l’etere con l’etere, il fuoco distruttore col fuoco, l’amore
con l’amore e l’odio funesto con l’odio” (fr. 109).
Questa dottrina comporta l’introduzione di uno schema che avrà numerose riprese nella storia della
filosofia successiva. Si tratta in effetti della teoria della sostanziale omogeneità fra il pensiero
umano (la ragione) e l’universo. In particolare, dalle cose provengono efflussi che producono la
sensazione quando, passando attraverso i pori degli organi di senso, vi si adattano per la loro
grandezza; altrimenti rimangono inavvertiti (Diels, A 86).
Empedocle non pone alcuna differenza fra la conoscenza dei sensi e quella dell’intelletto. Anche
quest’ultima avviene allo stesso modo per un incontro degli elementi interni ed esterni. Inoltre
Empedocle è consapevole dei limiti della conoscenza umana. I poteri conoscitivi dell’uomo sono
circoscritti: l’uomo vede soltanto una piccola parte di una “vita che non è vita” (perché sfugge
subito) e conosce solamente ciò in cui per caso si imbatte. Ma appunto per questo non può
rinunciare ad alcuna delle sue potenzialità conoscitive. E’ quindi necessario che si serva di tutti i
sensi, ed anche dell’intelletto, per vedere ogni cosa nella sua chiarezza.
I fisici pluralisti: Anassagora
Egli definisce Noûs (che in greco significa intelletto) la Mente ordinatrice dell’universo, ossia
quell’agente che ha sceverato i semi, originariamente confusi nel mîgma o caos primordiale,
permettendo la formazione del nostro mondo. Si tratta i una forza esterna, che agisce all’inizio dei
tempi e che ordina i semi, prima confusamente collocati nello spazio, in modo tale che si formino,
grazie al movimento, il sole, gli astri, i corpi celesti, quindi tutte le cose.
Il movimento, generato dall’esterno, comporta la separazione e la selezione fra i semi. Una volta
indotto l’ordine, il Noûs esaurisce la sua funzione: è quindi un principio che può essere accostato
alla causa trascendente del cosmo, ma la sua azione è soltanto parzialmente provvidenzialistica.
Tuttavia, la Mente ordinante di Anassagora rappresenta nella storia della filosofia il primo caso in
cui si introduce una causa finalistica della natura, sicuramente più complessa rispetto alle
cosmologie precedenti. E’ quanto infatti riconobbero Platone ed Aristotele. Essi hanno poi però
osservato che Anassagora ha fatto ricorso al principio intelligente soltanto in quei casi in cui la
spiegazione naturalistica dei fenomeni difettava.
Per quanto riguarda la teoria della conoscenza, Anassagora, a differenza di Empedocle, ritiene che
la sensazione sia prodotta non già dalle cose simili, ma da quelle dissimili (noi infatti sentiamo il
freddo con il caldo, il dolce con l’amaro, ecc.). Egli attribuisce inoltre grande importanza alle
tecniche. Scrisse infatti che l’umanità si sviluppa attraverso “l’esperienza, la memoria, il sapere, la
tecnica” (DK 59 B 21 b) e dice che “l’uomo è il più intelligente degli animali in virtù del possesso
delle mani” (DK 59 A 102).
Democrito
In Parmenide vi era una netta antitesi tra la conoscenza sensibile, fonte di errore, e la conoscenza
razionale, coincidente col vero: quindi sensibilità ed intelletto risultavano nettamente separati. In
Democrito, invece, sensibilità ed intelletto, esperienza e ragione si trovano in un rapporto di
reciproca continuità ed implicanza. Infatti, nell’atomismo democriteo la conoscenza: a) trae spunto
dalla constatazione delle cose attraverso i sensi; b) si sviluppa grazie ad un’autonoma elaborazione
intellettuale dei dati; c) giunge quindi a formulare una teoria che spiega ciò che i sensi si limitano a
“mostrare”.
In altri termini, risulta vero che tramite i cinque sensi ci si limita ad una conoscenza superficiale
delle cose (conoscenza oscura); mentre con la conoscenza intellettuale (detta genuina) si colgono i
fondamenti della realtà fisica: ossia gli atomi e il vuoto, cui si giunge mediante la postulazione
razionale. Ma è altrettanto vero che, per Democrito, occorre procedere oltre questa frattura
gnoseologica, per pervenire al compito dell’intelletto che consiste nel “dar ragione” di ciò che i
sensi si limitano ad attestare.
Effetti della mentalità razionalistica di Democrito sono evidenti anche nella sua dottrina morale. Sul
piano etico egli introduce il cosiddetto razionalismo morale. Si tratta della dottrina filosofica che
attribuisce alla ragione e all’intelligenza la direzione suprema della vita. Essa reputa che per agire
correttamente siano indispensabili la conoscenza e la riflessione. Tale dottrina trova una compiuta
esemplificazione nell’etica socratica.
La Sofistica
La Sofistica è stata definita come una sorta di Illuminismo greco, con evidente riferimento al
movimento culturale che si è verificato in Europa nel XVIII secolo, avendo come sua insegna
l’uso libero e spregiudicato della ragione in tutti i campi. Lo strumento proprio dell’Illuminismo
è la critica, una critica radicale verso i miti e le credenze della tradizione, che ha la pretesa di
svincolare l’uomo da ogni pregiudizio. Analogamente, i Sofisti, definiti i “filosofi della città”,
operano nell’Atene del V sec. a. C., in cui si è aperto lo spazio operativo per la pratica della
democrazia greca. In questo contesto essi si propongono di insegnare al futuro ceto dirigente,
dietro pagamento, l’arte della retorica. Essa consiste nell’appropriarsi dell’arte di persuadere
mediante l’uso di strumenti linguistici nelle pubbliche assemblee.
Protagora
La posizione di Protagora è una forma di umanismo (in quanto ciò che si afferma o si nega
intorno alla realtà presuppone sempre l’uomo come soggetto del discorso o baricentro di
giudizio, cioè come criterio, regola o metro di valutazione), di fenomenismo (in quanto noi non
abbiamo mai a che fare con la realtà in se stessa, ma con il fenomeno, ossia con la realtà quale
appare a noi), di relativismo conoscitivo o morale (in quanto non esiste una verità assoluta, cioè
sciolta dai vari punti di vista, ma ogni verità, ideale o modello di comportamento, è relativa a chi
giudica nell’ambito di una certa situazione).
La tesi fondamentale di Protagora, la più nota attraverso i secoli e che esprime con chiarezza lo
spirito di tutta la Sofistica, si enuncia così: “L’uomo è misura di tutte le cose, delle cose che sono
in quanto sono, delle cose che non sono in quanto non sono” (fr. 1). In sintesi, questa tesi vuol
dire che l’uomo è il soggetto di giudizio della realtà o irrealtà delle cose e del loro modo d’essere
e significato.
Esistono però varie interpretazioni sul significato filosofico da attribuire a questa tesi. Esse
dipendono dal valore che si attribuisce alle nozioni di “uomo” e di “cose”. L’uomo protagoreo è
misura di tutte le cose ai vari livelli della sua umanità: in primo luogo come singolo, poi come
comunità o civiltà, infine come specie. Analogamente, le cose di cui parla Protagora non sono
solo gli oggetti fisici, ma anche i valori o i progetti di vita, e, al limite, la realtà tutta, per cui
l’uomo, da questo punto di vista, non è soltanto la misura delle cose che si percepiscono, ma di
tutto ciò con cui entra in rapporto.
L’ultimo punto della teoria di Protagora è il relativismo conoscitivo o morale: si tratta del
principio secondo il quale non esiste una verità teoretica o morale assoluta, ovvero sciolta (dal
latino absolutus “libero da legami”) dalla soggettiva angolatura del pensiero di colui che lo
enuncia, ma ogni credenza è relativa ad un determinato punto di vista del mondo.
Gorgia
Riflettendo sulla dottrina gorgiana, non possiamo non percepire la presenza di elementi
incredibilmente innovativi, la cui comprensione rimane parziale a causa della mancanza di testi.
Negando l’essere, Gorgia non si limita a mettere in crisi i fondamenti delle filosofie eleatiche: egli
opera una sostanziale demolizione dei principi stessi del conoscere.
Gorgia evidenzia l’impossibilità umana di parlare dell’essere e delle strutture del reale, negando, in
tal modo, ogni eventuale metafisica, cosmologia o teologia.
La ragione umana è così totalmente privata delle sue funzioni conoscitive: essa non può né cogliere,
tramite la speculazione, modelli ontologici né rapportarsi con la realtà.
L’analisi gorgiana sembra inoltre indicare la natura intrinsecamente irrazionale delle vicende
umane. In questo senso, infatti, la ragione risulterebbe privata anche della sua funzione etica: ogni
essere umano è preda di forze che lo superano e che ne soggiogano la volontà. Nel famoso Encomio
di Elena, Gorgia sostiene che la bella di Troia: «O (…) per volere della Sorte, o per comando
divino, o per decreto della Necessità fece quello che fece, o perché rapita con la forza, o perché
persuasa dalla parola, o perché presa da amore».
Le azioni che ella compie sono dettate dalle circostanze, dalla menzogna, dalle passioni o da un
ignoto destino: ogni individuo appare, ad un’analisi approfondita, “determinato” e “incolpevole”.
In Gorgia troviamo una prima, esasperata messa in discussione occidentale della metafisica e
l’anticipazione di schemi di pensiero che vanno dagli empiristi a Kant e a gran parte del pensiero
contemporaneo.
Socrate
Socrate giunge a delineare un preciso problema di metodo. Secondo la testimonianza di Platone, per
Socrate il metodo delle scienze naturali porta ad un tipo di spiegazioni che risultano valide solo se
non si pretende di esaurire tutto il sapere in esse assolutizzandole; mentre il metodo della riflessione
su di sé, tramite il dialogo, porta ad altri risultati. Essi sono validi sul piano antropologico e
riguardano il modo in cui l'uomo costituisce se stesso come essere uomano e come cittadino.
Si passa dal sapere di non sapere ad un sapere del tutto umano: non si tratta di un sapere già dato,
ma di un tipo di conoscenza che si costituisce mediante la ricerca stessa, col dialogo, in un
susseguirsi di ragioni che vengono poi nuovamente messe in discussione. Attraverso questa
affermazione, Socrate sosteneva la necessità di un sapere che non concernesse la ricerca di verità
assolute, di principi primi, ma che si traducesse nella conoscenza dell'arte del ragionare stessa. Tale
arte è il dialogo, all'interno del quale una verità appena raggiunta può poi essere nuovamente messa
in discussione e abbandonata senza che, per questo, l'intero sistema di ragionamento vada in crisi.
Non bisogna nemmeno pensare che il pensiero socratico altro non sia se non un'appendice della
sofistica, perché in quel suo parlare di una scienza dell'uomo, che si distingue dalle scienze naturali,
è presente un'intuizione estremamente importante, vale a dire la comprensione che l'uomo necessita
di criteri e metodi d'indagine diversi da quelli che occorrono nell'indagine della natura.
Il sapere socratico non è né un sapere teoretico, né un sapere tecnico, ma si connota in altro modo: è
un sapere che si attua nello sforzo di realizzare pienamente ciò che ciascuno è, nella
consapevolezza critica dei propri limiti, nel tentativo di attuare ogni volta al meglio il proprio
mestiere di vivere, e quindi anche quello dell’essere uomini.
Per Socrate non v'è moralità se non vi è dubbio e se non vi è una discussione nella quale ogni
singola ragione, anziché contrastare le altre, si unisce ad esse per dare origine ad una ragione
superiore e comprensiva. Non esistono il bene e il male in sé, ma esiste il far bene una cosa (se
conoscessimo il bene e il male sceglieremmo, secondo Socrate, sempre il bene). Questa è la strada
che porta Socrate ad affermare che nessuno fa il male volontariamente e che il male è ignoranza,
cioè consiste nell’agire senza sottoporre il proprio comportamento all’esame della ragione,
quell'esame da cui scaturisce il sapere.
Il bene assoluto quindi non esiste, e il bene di oggi potrebbe non essere il bene di domani, in quanto
il bene, come le altre verità, scaturisce da una continua ricerca. La morale di Socrate non insegna,
non fa prediche, ma vuole solo che ognuno faccia nel modo migliore ciò che deve fare. Egli si sente
investito di questa missione, che consiste nell'essere un pungolo nei confronti degli altri affinché
possano migliorare il loro modo di vivere e di agire, in quanto da questo miglioramento trarrà
beneficio tutta la società. Inoltre, egli voleva fare in modo che fossero superate tutte quelle opinioni
superficiali che il popolo accettava passivamente. Il suo operato mirava alla ricerca di un'altra e più
sicura verità. Solo alla luce di queste premesse è possibile comprendere il significato
dell'atteggiamento di Socrate quando cerca di far capire ai suoi interlocutori, che si credono
sapienti, che in realtà non sanno nulla.
Per poter agire nel modo giusto e, quindi, fare il bene, occorre anche sapere come è bene far bene
ciò che si fa. Il significato dell'affermazione socratica che nessuno fa il male volontariamente, che il
male è ignoranza perché consiste nel non aver saputo agire, nel non aver avuto la virtù, include in sé
una conclusione paradossale, e cioè che è preferibile chi fa il male consapevolmente a chi fa il bene
per abitudine, senza comprendere il perché lo fa. E' questo il paradosso che risiede nell'aporia del
sapere socratico: essa consiste nel fatto che, da un lato, tale sapere non avendo alcun contenuto, è
perciò un sapere nulla, e, dall'altro lato, che il suo contenuto lo trova di volta in volta mediante lo
stesso ragionare, per cui salta via qualsiasi metro obiettivo su cui commisurare il bene e il male. Si
scopre così che non esiste nemmeno un male in sé, in quanto il male, nel pensiero socratico,
consiste nel non aver saputo agire.
La virtù diviene quindi l’arte del comportarsi nel modo migliore e ha come mezzo la ragione, ossia
il sapere vero, infatti la virtù socratica non è una negazione ascetica dell’esistenza, ma un suo
potenziamento tramite la ragione, ossia un calcolo intelligente finalizzato a migliorare la vita e
regolare il comportamento.
Platone
La razionalità in Platone è riconoscibile attraverso i suoi dialoghi, in cui si evidenziano
chiaramente i capisaldi del suo pensiero: la dottrina delle idee, la dottrina dell’amore e
quella dell’anima.
Il carattere dialogico degli scritti platonici rappresenta appunto la sostanza stessa della
sua filosofia. Il dialogo è sempre costituito da una tesi aperta, che viene esplicandosi nel
contraddittorio, mentre l'interlocutore-contraddittore sposta di continuo le sue opposizioni
ogni volta che una verità va affermandosi. Egli stesso è, del resto,adeguatamente
sollecitato a riconoscere la verità.
La dottrina delle idee (secondo periodo).
Non viene esposta in modo sistematico ma riferimenti ad essa si riscontrano
soprattutto nei dialoghi della maturità (specialmente nel Fedone).
Durante la vecchiaia (terzo periodo) Platone tornerà invece su questi temi rimettendone
in discussione gli assunti.
La genesi di questa teoria si deve ricercare nell'influenza esercitata su Platone dai
filosofi precedenti. Nel campo della conoscenza sensibile egli accetta la teoria del
pànta réi (tutto scorre) di Eraclito ed il fenomenismo degli jonici.
Da queste premesse egli deduce che la conoscenza sensibile porta solo a risultati
provvisori, validi unicamente per le circostanze particolari in cui sono stati ottenuti.
Con essi non è possibile raggiungere una conoscenza oggettiva, perché su ogni
aspetto del reale si possono fare discorsi diversi e tutti apparentemente accettabili.
Platone vuole togliere ogni carattere provvisorio alla conoscenza. A tale fine egli
scende nella più profonda interiorità dell'uomo affermando che la certezza
assoluta è frutto soltanto di una conoscenza razionale. Quindi, laddove Socrate aveva
scoperto l'universalità dei valori morali in quanto comuni e validi per tutti gli
uomini, Platone estende tale validità anche al campo della conoscenza.
Ritorna qui la contrapposizione parmenidea tra razionalità
e sensibilità, tra percezioni sensibili diverse da soggetto a soggetto,
e differenti anche nello stesso individuo, e le idee, forme reali, immutabili e perfette
delle cose. A differenza di Parmenide però Platone non concepisce
l'essere vero come unico, perché egli fa riferimento ad una pluralità di idee. Il concetto
è illustrato dal “mito della caverna”( vedi VII libro della Repubblica ): gli uomini sono
come prigionieri incatenati in una caverna, con le spalle rivolte all'apertura ed il viso
che guarda la parete di fondo. Fuori brilla la luce di un fuoco, davanti al quale passano
gli esseri che portano sulle loro teste delle statuette di enti naturali, La luce, filtrando
attraverso l'apertura delle caverna, proietta le ombre degli oggetti sulla parete e gli uomini
credono di vedere il mondo reale, mentre in realtà ne vedono soltanto le ombre.
Per arrivare alla verità, qualcuno deve spezzare le catene e uscire
dalla caverna, alla luce. Fuori dalla metafora, l'uomo è dotato
di sensi, che lo legano al mondo delle apparenze, e di ragione, che gli permette di
cogliere invece la vera realtà, facendolo pervenire alla scienza (epistème), che
è conoscenza assoluta e universale. Ma come rompere le catene che ci
legano al mondo sensibile? Platone si richiama a questo punto al metodo maieutico
di Socrate: ma, se il suo maestro l'aveva usato per risvegliare la voce
della coscienza del suo interlocutore e per fargli scoprire le verità della vita
morale, egli mira con esso a far scoprire al discepolo le verità razionali.
La scienza dei numeri e delle figure
La scienza dei numeri e delle figure è studiata da Platone per la sua “purezza concettuale”,
che consente di fare considerazioni logiche molto rigorose su
concetti nitidi e liberi da ogni riferimento all'empiria, aiutando l'uomo a
realizzare il passaggio “da ciò che diviene, a ciò che è”.
È un tentativo del filosofo di salvare con la matematica la sua “teoria delle
idee” e giungere a cogliere l'essenza della realtà.
Particolare e universale
Le idee rappresentano l'assoluto e l'universale, gli oggetti della conoscenza sensibile rappresentano
invece il particolare e il contingente; fra particolare e universale i rapporti sono tre: di mimesi,
in quanto il particolare imita l'idea che ne è il modello;
di metessi, in quanto il particolare partecipa dell'essenza delle idee e di parusia, ossia di
presenza dell’idea-universale alle cose-particolari.
Per il salto gnoseologico dal particolare all'universale bisogna percorrere i quattro
gradi della conoscenza, di cui Platone scrive nel VI libro della Repubblica, dove
introduce la cosiddetta “teoria della linea”. Il primo grado del sapere è la congettura (eikasía)
basata sulle pure immagini dei sensi. Segue la credenza (pístis), che dà della conoscenza
delle cose particolari giudizi variabili da individuo a individuo. Quindi c’è la ragione discorsiva
(o diánoia), che offre una visione delle idee nei loro rapporti matematici.
Infine l'intelligenza filosofica (______) si colloca in diretto rapporto con le idee-valori, attraverso
la dialettica, definita da Platone «la vera scienza delle idee».
L’immortalità dell'anima.
Quando l'uomo arriva alla verità razionale, non acquista una
nuova conoscenza, ma ricorda soltanto ciò che già aveva appreso prima di nascere e che
aveva poi dimenticato. Per avanzare nella sua spiegazione, Platone deve ammettere
la preesistenza dell'anima: prima della vita presente, in cui è imprigionata nel suo corpo
sensibile, l’anima dell’uomo è preesistita nel mondo delle idee, in cui essa aveva visione
intellettiva ed immediata degli archetipi delle cose sensibili. L'anima passa poi
attraverso diverse vite corporee, ma, in realtà, rimane sempre identica a sé e questo
prova, secondo Platone, la sua immortalità. Nei vari passaggi da un corpo
all'altro, l'anima ha acquisito molte conoscenze, quindi non ci deve
meravigliare che ricordi ciò che ha già conosciuto. La vera causa della
sua immortalità consiste però nel fatto che essa partecipa della stessa
natura delle idee e, siccome queste sono immortali, immortale è pure
l'anima: è la tesi sostenuta nel Fedone, dove egli parte dal pitagorismo,
ma lo trascende. Altri elementi religiosi Platone ci offre nel Fedro, quando
paragona l'anima razionale all'auriga, che guida una biga alata, tirata da
due cavalli, l'uno pieno di generosi impulsi (anima irascibile), l'altro portato
solo ai piaceri più abbietti (anima concupiscibile). Il prepotente affermarsi
dell'anima concupiscibile ha imprigionato l’anima nel corpo. Nel Timeo la formazione dell’Anima
del mondo si ha invece in un contesto cosmogonico ad opera del Demiurgo: questi dopo aver
contemplato il mondo delle idee, ha plasmato la chora, o Necessità, secondo il modello iperuranico.
Quindi ha plasmato gli esseri, immettendo in essi l’Anima del mondo. Essa, calata nei corpi, dà
forma e vita alle cose.
Alla fine della Repubblica Platone fa raccontare ad Er, morto in battaglia e risuscitato,
la vita delle anime nell'oltretomba: quelle che hanno vissuto secondo ragione godono,
di uno stato originario di beatitudine; le altre devono trasmigrare di
corpo in corpo scendendo sempre più in basso nella scala degli esseri.
L'autocritica ( terzo periodo).
Giunto alla maturità del suo pensiero, Platone si accorge che le premesse da cui
è partito non risolvono alcune difficoltà fondamentali e si accinge
a una coraggiosa revisione. Nelle opere giovanili aveva affermato
che le idee sono molteplici: ma quale rapporto lega un'idea all'altra?
Egli aveva affermato che esiste una “subordinazione” di tutte le
idee a quella del Bene, in quanto questa rappresenta il fine ultimo dell'universo.
È l'unica distinzione che egli avanza ma la mancanza di altre osservazioni mette
il suo sistema in grave difficoltà: infatti, se i rapporti fra le idee sono
analoghi a quelli esistenti fra gli oggetti che a esse corrispondono, si potrebbe
pensare che il mondo delle idee sia la copia del modello costituito dagli oggetti sensibili.
Allora però non sarebbe il mondo sensibile a copiare il mondo delle idee
ma il contrario. Se poi rigettiamo questa ipotesi, cadiamo nella concezione opposta
di un mondo delle idee le quali, rimanendo indistinte fra loro, vengono
ad identificarsi con l'essere unico.
Nel Parmenide, nel Teeteto e nel Sofista Platone
cerca di risolvere questa antinomia, specie nel terzo dei dialoghi citati,ricorrendo alla
diàiresis (suddivisione dell’idea in due parti, e ognuna di queste ancora in due,fino a
a raggiungere quello che si deve definire) e a rapporti di tipo numerico.
Con queste armi logiche cerca di difendere la “positività del molteplice”
contro il diffondersi,nella sua stessa scuola, della dottrina megarica
dell'“essere unico”, e su questa strada giunge a sostenere come
positiva la stessa idea di non-essere. Se, infatti, un'idea si dice diversa
da un'altra in quanto realizza ciò che un'altra idea non è, dovremo
ammettere che il non-essere esiste, perché il non-essere non significa
“contrario all'essere”, ma solo “diverso”. Qui egli tocca il punto centrale
della sua autocritica: se infatti il non-essere è positivo, di tale positività
sarà partecipe anche il mondo sensibile (definito all'inizio della sua
ricerca pura e sola non-realtà) e la conoscenza sensibile, pur non essendo
ancora conoscenza del reale, porta però in sé i germi della verità.
La dialettica platonica a questo punto dilata le sue funzioni. Pur rimanendo
ancora sul campo del mondo delle idee, si traduce al contempo
in un metodo di ricerca ben più duttile e lo piega alle proprie esigenze di ordine
metodologico e logico.
Questa autocritica mette in crisi la sua costruzione precedente, ma egli
non s'impressiona delle conseguenze: Platone ha infatti, il coraggio di un continuo
rinnovamento del suo pensiero e vi si infervora con la stessa forza creatrice del primo
periodo giovanile.
Il filosofo non porta però a termine questo processo di autocritica; altri dopo
di lui lo definiranno compiutamente.
Approfondimento sulle tre opere.
Nel Parmenide Platone introduce una serie di domande circa la consistenza della
“teoria delle idee”, rivolgendo ad essa, per bocca del filosofo di Elea, alcune difficoltà.
Attraverso il dialogo ch’egli mette in scena tra Socrate e Parmenide, Platone
ha il coraggio di porre a se stesso delle obiezioni: 1: com’è possibile che un’idea, che è unica
nell’Iperuranio, possa essere partecipata (parusìa) da più oggetti del mondo sensibile,
senza moltiplicarsi? 2: se si ha un’idea, ogni volta che si considera nella sua unità un insieme di
oggetti, non si avrà forse una terza idea quando si guardi all’insieme di questi oggetti più la loro
idea? (idea del terzo uomo). In questo secondo caso potrebbe quindi
verificarsi una moltiplicazione all’infinito delle idee; la soluzione sarebbe quella di
eliminare i dualismi.Nonostante tutti questi ostacoli, Platone
manifesta di non voler rinunciare alla teoria delle “forme ideali”, in quanto ribadisce
che, senza le idee, ossia senza un punto fermo nelle molteplicità delle cose, non si
potrebbe neppure pensare e filosofare. Se però non è possibile rinunciare alle idee,
non rimane che rinunciare al principio eleatico, ed è ciò che egli fa nel Sofista, in cui
avviene quello scontro decisivo con il maestro terribile e venerando Parmenide,
che si conclude con un vero e proprio parmenicidio.
Nel Sofista, per spiegare come possano esistere più idee e come esse possano comunicare
fra di loro, Platone elabora la cosiddetta teoria dei generi sommi, cioè degli attributi
fondamentali delle idee che per il filosofo sono cinque:
- esistenza ( ogni essere esiste );
- identità ( ogni essere è identico a sé );
- diversità ( ogni essere è diverso da ogni altro );
- quiete ( ogni essere può darsi nello stato delle quiete );
- movimento ( ogni essere può darsi nello stato del movimento ).
Poiché queste determinazioni non si applicano soltanto alle idee, ma anche al mondo
naturale ed umano, esse finiscono per configurarsi come le caratteristiche formali
dell’essere in generale.
Qui per dialettica, Platone intende la scienza delle idee, ovvero la filosofia stessa,
concepita come operazione mentale che si sviluppa attraverso il procedimento socratico
del domandare e del rispondere.
Essa si compone di due momenti:
- il primo consiste nel ricondurre ad un’unica idea cose disperse e nel definire l’idea
in modo da renderla comunicabile a tutti;
- il secondo consiste nella divisione dell’idea nelle sue articolazioni interne, secondo il
metodo cosiddetto dicotomico, di cui si è parlato nella sezione precedente, dedicata all’autocritica.
In sintesi, la tecnica dialettica consisterà nel definire un’idea mediante successive identificazioni
e diversificazioni, attraverso un processo di tipo dicotomico, che avanza dividendo per due
un’idea, sino a giungere ad un’idea indivisibile; essa ci fornisce la definizione “specifica” di
ciò che cercavamo. Quella proposta ovviamente non è l’unica possibile, perché, scegliendo altre
identificazioni iniziali, potremmo costruire altre mappe dicotomiche; sommando le varie
definizioni ottenute, avremo quindi raggiunto una miglior comprensione dell’idea studiata.
Aristotele
In Aristotele sono presenti due tipi di razionalità estremamente flessibili, sui quali egli costruisce la
sua riflessione filosofica:
a. Il primo tipo riguarda una forma di razionalità calcolante, riscontrabile soprattutto negli
Analitici e secondi e nella Metafisica
b. Il secondo tipo di razionalità è prudenziale, dialogica e topico-dialettica: si può individuare
nell'Etica a Nicomaco e nei Topici.
Oltre a queste due forme di razionalità talora se ne può ritrovare anche una “intermedia”, che
nasce dalla mescolanza delle prime. Essa è ambigua e sfuggente: trova spazio nel libro gamma della
Metafisica. Volendole dare una connotazione, si potrebbe definire una razionalità ricorsiva e
autoreferenziale (ma in senso positivo). Da un lato conduce a risultati apoditticamente certi e
dall'altro procede secondo un metodo dialettico, anche se la dimostrazione del principio di non
contraddizione è un caso unico e, in un certo senso, limite, perché riguarda l'unico principio che è
condizione di qualsiasi altro discorso.
Si potrebbe dire, in generale, che proprio questo terzo tipo di razionalità, che riassume in sé i
caratteri della prima e della seconda forma, è quello che meglio connota la “ragione” secondo
Aristotele. Quella aristotelica non è infatti mai un tipo di ragione esclusivamente calcolante, astratta
e strumentale, ma è spesso anche dialogica, comunicativa e valutativa. Del resto, anche oggi, le
scienze hanno smesso di utilizzare solo ed esclusivamente metodi matematici ma hanno cominciato
ad utilizzare la razionalità dialettica, procedendo per tentativi ed errori, per ipotesi e confutazioni.
Aristotele, in breve, elabora una forma di conoscenza non scientifica ma anch’essa razionale,
anch’essa opera della ragione. Come si evince dall’Etica Nicomachea, la nuova scienza che vi
trova la sua fondazione, ossia l’etica o filosofia pratica, non può avere lo stesso rigore che è proprio
delle matematiche, perché ha a che fare con il bene, il male, il fine, i mezzi, le azioni degli uomini,
che non hanno quella regolarità, quella costanza, quella necessità che è propria degli oggetti della
matematica. Quindi, per capire questi oggetti, per conoscerli, bisogna fare uso di un tipo diverso di
razionalità, senza tuttavia rinunciare ad argomentare; bisogna trovare delle argomentazioni diverse
dalle dimostrazioni della matematica, meno rigorose, più duttili, più elastiche, più capaci di
adattarsi alle situazioni concrete; in definitiva, bisogna fare dimostrazioni che partano da premesse
valide non sempre, ma per lo più, il che significa che esse ammettono delle eccezioni, che non
pretendono di ingabbiare la realtà in regole fisse.
In ogni caso, per semplificare il discorso, si può tornare alla distinzione iniziale fra i due modelli
primari di razionalità, considerandoli ancora separatamente per metterne meglio in evidenza le
caratteristiche di fondo.
Per comprendere il primo tipo di razionalità, occorre rifarsi sia all’ontologia della sostanza, trattata
soprattutto nella Metafisica, sia all’Organon (logica).
Con riferimento alla Metafisica, si può dire che al centro del discorso di Aristotele è collocato
l’essere.
L’essere di Aristotele è immanente, esiste nella realtà: diversamente da quanto aveva teorizzato
Platone, non è collocato nella trascendenza. Aristotele organizza il sapere in branche e discipline e
pone la metafisica come disciplina primaria per individuare l’esistenza dell’essere di un ente. Il
contenuto dell’essere, secondo il suo pensiero, è l’ente stesso. Ogni ente deve essere formato da una
parte materiale e da una parte formale. La parte finita dell’ente viene rappresentata dalla materia,
invece la parte che rimanda all’universale è rappresentata dalla forma. Il dualismo in questo caso
non è nella realtà, ma nell’ente stesso. La materia e la forma, insieme, costituiscono la sostanza,
ossia il substrato di ogni ente e la forma è la sostanza primaria, poiché, senza questa, l’ente
perderebbe di significato e di determinatezza. Inoltre ogni ente non potrà fare a meno né della sua
parte materiale e della sua parte formale, ma sarà dato dall’unione tra questi due aspetti. Aristotele
chiama questa unione sinolo. Ogni sinolo ha possibilità di divenire e quindi di svilupparsi mettendo
in atto le proprie potenzialità.
In ogni uomo la parte materiale è il corpo e l’elemento formale è l’anima, in cui ha sede la ragione.
Pertanto, la ragione, che è principio comune al genere umano, si connota come la nostra specifica
forma d’essere.
Ora, se il nostro scopo è la tensione a realizzare la parte formale in noi, allora è forse esatto dire
che, seguendo Aristotele, realizzare noi stessi significa arrivare a conoscere il più alto grado di
“razionalità” possibile e tale da soddisfare il nostro “benessere”.
Tuttavia, la razionalità di Aristotele si basa anche sull’esperienza, intesa nel senso dell’essere
esperti, perché bisogna essere esperti della vita per conoscere tutti i suoi problemi. In altri termini,
c’è una razionalità che, oltre a dipendere dall’anima intellettiva, deriva anche dall’esperienza ed è a
sua volta ricollegabile alla conoscenza. Si tratta infatti non tanto della sophia quanto della
phronesis. Essa rimanda al secondo tipo di razionalità, quella dilogico-dialettica e prudenziale,
evidente soprattutto nell’Etica Nicomachea.
Per quanto concerne invece ancora il primo tipo di razionalità, come si è detto, oltre che
nell’ontologia della sostanza esso è riscontrabile negli scritti di logica propri dell’Organon. Questo
corpo di scritti comprende: Categorie, Dell’ interpretazione, Analitici primi, Analitici secondi,
Topici, Confutazioni sofistiche.
Nell’Organon, per dirla in breve, vengono descritti i mezzi che l’intelletto usa per ragionare.
Secondo Aristotele, il pensiero va scomposto nelle sue varie parti e quest’operazione può essere
intrapresa attraverso lo studio dell’analitica (termine aristotelico per indicare la logica): questa è
uno strumento (organon = strumento) utilizzabile per lo studio di tutte le scienze. La logica, in
definitiva, non studia una particolare porzione dell’essere, come avviene con le scienze, bensì è uno
strumento ad utilizzo interdisciplinare. Il termine organon manifesta quale fosse il vero intento di
Aristotele nel parlare del pensiero e dei ragionamenti: esporre gli “strumenti” e i mezzi di qualsiasi
procedimento che rientri nell’episteme.
Nella conoscenza umana Aristotele distingue tre operazioni fondamentali:
-la semplice apprensione, con cui astraiamo la natura delle cose e attraverso la quale otteniamo i
concetti;
-il giudizio, che mette in relazione i concetti tra loro;
-e infine il raziocinio, con cui procediamo da giudizi già formulati ad altri da formulare.
Queste tre operazioni danno luogo ai diversi trattati della logica aristotelica.
Per Aristotele, dunque, conoscere vuol dire giudicare, poiché una volta conosciuta la realtà, non si
fa altro che esprimere dei propri giudizi ossia si mettono in relazione i concetti fra loro.
Ma come facciamo a giudicare? Aristotele spiega che noi ci serviamo di categorie, cioè di concetti
generalissimi con i quali riferiamo quanto avviene nell’esperienza tramite il linguaggio. Per
esempio, nell’affermazione: “Io sto parlando in questa classe in questo momento”, si nota che si
sono utilizzati un concetto di spazio, uno di tempo e uno relativo a ciò che si sta facendo. Aristotele
sostiene quindi che la realtà si conosce per mezzo di concetti generali.
Egli riassume questi concetti generali nelle otto categorie:
· la sostanza
· la qualità
· la quantità
· la relazione
· l’agire
· il subire
· il dove (luogo)
· il tempo
A queste otto categorie, Aristotele in alcuni passi ne fa seguire altre due: l’avere e il giacere. Per
questo motivo, ci si riferisce preferibilmente alle categorie considerandole nel numero di dieci,
ossia nella loro totalità.
Le categorie hanno sia un valore logico, poiché sono i mezzi logici del nostro conoscere o i vari
modi in cui la realtà può essere detta, sia un valore ontologico, poiché l’intelletto le ha tratte e
derivate dalla realtà ed esse allora si definiscono come i modi fondamentali in cui la realtà si
presenta.
Nel secondo trattato di logica, intitolato Dell’interpretazione, Aristotele si occupa della
proposizione.
Perché la proposizione?
Essa ci riporta immediatamente ad un qualche genere di “affermazione”, dunque ad un “discorso”:
il discorso, ovviamente, non può che essere di un uomo, perché è lui soltanto che può esprimerlo. Si
distingue allora la proprietà fondamentale che distingue l’uomo dagli animali: la parola, il logos
greco.
Per Aristotele il linguaggio può essere l’espressione più adeguata della conoscenza intellettuale e
questa, a sua volta, la è della realtà. Pertanto, posta la corrispondenza fra linguaggio/pensiero (piano
logico) e realtà (piano ontologico), le parole riflettono i diversi e fondamentali modi di essere a cui
l’intera realtà può essere ricondotta. Questi modi di essere sono dieci e costituiscono i
"predicamenti" o "categorie". Se uniamo due termini tra loro affermando o negando una qualsiasi
cosa di un'altra, abbiamo il giudizio, composto da un soggetto e da un predicato. Il giudizio è
pertanto l'atto con cui affermiamo (o neghiamo) un concetto di un altro concetto, e l'espressione
logica del giudizio è l’asserzione o proposizione. Quindi, la proposizione - a differenze delle parole
o dei termini - è sempre vera o falsa. Il giudizio sarà vero o falso a seconda che la ragione abbia
unito o separato ciò che è realmente unito o separato nell'oggetto della conoscenza. Le
affermazioni, così come le negazioni, possono esistere solamente quando vari termini si combinano
o si uniscono tra loro.
Dopo Categorie e Dell’interpretazione, il terzo trattato è Analitici primi, in cui si esamina il legame
tra proposizioni, ossia la struttura del ragionamento, che per Aristotele coincide col sillogismo.
Se la proposizione è la combinazione di due concetti, il ragionamento è la combinazione di tre
proposizioni: due premesse (una maggiore ed una minore) e la conclusione. E’ necessario però che
esse siano logicamente concatenate e non solamente giustapposte.
Aristotele ha il merito di aver per primo elaborato tutta una teoria e una tecnica del sillogismo che la
filosofia medioevale ha poi sviluppato. Questo studio costituisce dunque una vera logica formale, la
scienza che lo stesso Aristotele ha istituito..
Il quarto trattato è Analitici secondi, che si occupa della dimostrazione così come viene impiegata
dalle scienze, dunque della veridicità dei ragionamenti. Temi centrali sono l'induzione, che è il
metodo per arrivare ai primi princìpi della scienza, e la deduzione.
Secondo il pensiero di Aristotele, in particolare, la verità di un ragionamento dipende dalla verità
delle proposizioni che lo costituiscono. Il sillogismo scientifico è un sillogismo in cui, data la verità
delle premesse, la conclusione che si ricava non può che essere vera. Aristotele si preoccupa del
modo tramite il quale arrivare a formulare delle premesse vere.
Le premesse dovrebbero essere costituite dai principi primi o assiomi, verità non dimostrabili colte
per via intuitiva. Queste sono condizioni necessarie per costruire un ragionamento, ma non
sufficienti, poiché le premesse che sono costituite dai principi primi risultano troppo ampie.
A questo proposito il filosofo di Stagira enuncia i tre principi fondamentali. Essi sono:
1- Il principio di identità, per il quale ogni cosa è uguale a se stessa.
2- Il principio di non contraddizione, con cui si afferma che è impossibile attribuire
contemporaneamente allo stesso soggetto predicati opposti. E’ infatti impossibile che una
cosa sia e al tempo stesso non sia quella che è.
3- Il principio del terzo escluso, per il quale tra due contraddittori può essere vero solamente o
l’uno o l’altro: non vi è un terzo medio.
Aristotele inoltre afferma che le premesse possono essere formulate per via induttiva o intuitiva.
La via dell’induzione non è una via affidabile, poiché sarebbe necessario esaminare la totalità dei
casi particolari per avere una visione esatta della conclusione cui si vuole giungere.. L’altra strada è
quella dell’intuizione intellettiva, che si manifesta quando l’intelletto coglie immediatamente alcune
verità. La via migliore è quindi quest’ultima.
Ai fini di questo discorso, l’Organon si completa in un certo senso con il quinto trattato, i Topici. I
principi della dialettica cui si rifanno i Topici non sono caratterizzati dalla necessità (come avveniva
per Analitici primi e Analitici secondi), ma soltanto dalla probabilità, cioè essi “sembrano
accettabili a tutti o ai più o ai competenti e tra questi o ai più o a quelli più noti ed illustri
(Topici). In quest'ultimo, infatti, viene proposta un'altra questione metodologica, la dialettica. Si
tratta dunque di rilevare ciò che di vero c'è nel linguaggio ordinario o nell’oratoria forense.
Il tema della razionalità viene indagato, interrogato e scandagliato da Aristotele nei termini che
abbiamo sommariamente descritto.
La razionalità si esplica, in definitiva, nell’attività che ognuno mette in atto, qualsiasi essa sia
(anche, per assurdo, l’attività di un criminale che deve compiere una rapina a mano armata). Nello
svolgere questa attività l’uomo è alla ricerca del massimo bene possibile. Ovviamente, tale attività
può essere svolta con diversi gradi di valore.
Ma, nell’agire umano, le variabili che rimbalzano qua e là all’interno del sistema sono infinite e mai
“del tutto” note. Ci sarà sempre qualcosa che l’uomo non potrà controllare e gli sfuggirà . Quindi ci
sarà sicuramente sempre qualcosa che va al di fuori del nostro controllo, che esula da quella che noi
chiamiamo “razionalità”.
E allora, provocatoriamente, viene da domandarsi perché l’uomo si affanni tanto a regolare il suo
vivere secondo ragione.
In altri termini, è proprio vero che valga la pena di agire razionalmente?
Dal momento che, oggi, non appare più sicuro e indiscutibile l’appello ad una sostanza eterna,
finalisticamente intesa, atemporale, che si faccia garante sia dell’oggettività e dell’assolutezza delle
nostre regole di pensiero sia dei codici del nostro comportamento, non rischia forse l’intero sistema
del sapere di cadere sotto il sospetto, la follia o il dolore?
In realtà, uno dei più solidi pilastri che sta alla base del nostro discorso è che, fondamentalmente,
noi siamo ancora profondamente influenzati sia dal pensiero di Aristotele sia dalla grande stagione
illuministica. Anche se, diversamente da Aristotele, riconosciamo di non poter disporre che degli
apparati linguistici e concettuali che ci siamo costruiti, siamo però consapevoli che già questo
“poco” è pur sempre “molto”; esso ci permette infatti di demarcare, anche se con una fragile linea,
il confine fra razionale e irrazionale.
Siamo così come l’acrobata che cammina sulla corda sospesa nel vuoto. Egli sa che l’unica
salvezza che egli ha è quella di non pensare al vuoto e di non pensare fino in fondo a come egli
faccia a tenersi in equilibrio lassù, sull’orlo dell’abisso.
Lo Stoicismo
La ragione assume, per la scuola stoica, la funzione di principio attivo, che dà forma alla materia.
Nella Fisica stoica ragione e Dio coincidono e definiscono il logos. Esso si concretizza in un ordine
immutabile, razionale, perfetto e necessario che governa e sorregge infallibilmente tutte le cose e le
fa essere e conservarsi per ciò che sono. L’ordine divino, quindi la ragione, permea ogni ente del
mondo e contiene in sé le ragioni seminali, tramite le quali tutte le cose si generano, secondo cicli
destinati a ripetersi per l’eternità sempre identici.
Su di un piano etico, la ragione è la forza infallibile che garantisce l’accordo dell’uomo con se
stesso e con la natura in generale. Il precetto del vivere “secondo natura” si concretizza nella
conformità o convenienza dell’azione umana all’ordine razionale del tutto che è la natura: vivere
“secondo ragione” è il dovere dello stoico.
L’Epicureismo
La critica epicurea al modello provvidenziale proposto dagli stoici tende a negare la presenza sia di
“anime”, o principi spirituali nel mondo, sia di ogni tipo di finalismo.
La Fisica di Epicuro nega ogni possibile logos ordinatore e spiega la realtà con le sole leggi che
regolano il movimento degli atomi.
In campo etico, l’epicureismo è stato definito un razionalismo morale, in quanto tale filosofia non
predica l’abbandono smodato ai godimenti, ma il calcolo razionale dei piaceri. Tale calcolo non è
fatto solo di equilibrio, ma anche di misurata rinuncia.
Lo Scetticismo
La critica scettica si concentra essenzialmente sulle possibilità dell’uomo di conoscere la realtà, che
( almeno nel caso di Pirrone) pare venisse pensata esistente, benché inafferrabile.
I modelli cosmologici e teologici precedenti, che pretendono di ragionare dogmaticamente su
materie “oscure” e non direttamente conoscibili, sono i principali bersagli dello scetticismo.
Come Gorgia, anche gli scettici professano l’impossibilità di conoscere una verità che si possa dire
oggettiva ed assoluta. Essi concludono quindi sfiduciando la ragione di ogni capacità gnoseologica.
Plotino
Plotino è il maggiore rappresentante del Neoplatonismo. Il suo pensiero può essere inteso come una
sintesi di elementi tratti dalle riflessioni filosofiche e dalle concezioni religiose precedenti, in cui
molteplicità e unicità, divinità e mondo tendono a convergere entro un sistema gerarchico ed
unitario.
In Plotino si definisce e si ordina il rapporto tra l’Uno e i molti, in una dipendenza dei molti
dall’Uno: senza il richiamo a un’originaria unità, i molti sarebbero infatti impensabili e non
potrebbero esistere. L’unità si pone come fondamento di pensabilità e realtà.
L’uno risulta caratterizzato da una serie di attributi di eccellenza, quali infinito, illimitatamente
potente, privo di forma e figura.
Si tratta di una “teologia negativa”, data dall’inadeguatezza della nostra mente a concepire Dio, di
cui non possiamo che limitarci a dire ciò che non è (negandogli i difetti che caratterizzano il
mondo), piuttosto che ciò che Egli è. Lo stesso Uno è pensato per negazione dei molti, ma l’unicità
di cui gode non risulta per noi non pienamente leggibile. Inoltre esso è Bene ed è causa del
molteplice.
Per Plotino l’Uno genera i molti, nel modo dell’emanazione involontaria, mediante una
sovrabbondanza generatrice di essere, essendo l’Uno perfetto e perciò non bisognoso del mondo.
La ragione, non a caso rappresentata come luce, è riscontrabile proprio in questo processo di
emanazione del mondo dall’Uno, attraverso una serie di ipostasi, ovvero di gradi intermedi di
emanazioni. Le ipostasi sono realtà sostanziali per sé sussistenti.
La prima è l’Uno stesso, in quanto principio di tutte le cose che da lui si irradiano. Esso è piena
identità priva di qualsiasi riferimento al molteplice.
Le ipostasi successive vedono progressivamente introdursi il principio di molteplicità.
La seconda è l’Intelletto (sole) che esprime l’Unità come corrispondenza di soggetto pensante e
oggetto pensato, quindi nel modo dello sdoppiamento. L’intelletto, nel contemplare l’Uno, lo
esprime in una molteplicità di idee (l’iperuranio platonico), che sono gli infiniti pensabili.
La terza ipostasi è l’Anima (luna), anch’essa caratterizzata da quell’ambiguità già presente
nell’Intelletto, che la porta ad agire come il Demiurgo platonico: contempla le idee nell’Intelletto e,
in base ad esse, interviene sulla materia. Questa appare come il limite estremo dell’emanazione, non
essere e male in quanto assenza di essere e di bene, ombra e opacità in cui la luce e l’emanazione
trovano il proprio confine. L’anima agisce provvidenzialmente sulla materia, dandole forma, senso,
valore ed essere a seconda il modello ideale a cui essa si rivolge. L’Anima compie un’opera di
idealizzazione, di razionalizzazione della materia. L’Anima è anche presente all’interno della
materia, come “Anima del mondo”. Si osserva in questo caso una ripresa dall’ultimo Platone, quello
del Timeo e l’Anima si configura come il principio che vivifica dall’interno il mondo fisico e gli dà
unità e coerente sviluppo.
L’uomo possiede in sé una scintilla dell’Anima, non solo come principio di vita ma anche di
consapevolezza; ciò lo conduce a provare nostalgia verso la fonte unitaria di cui essa rappresenta
l’ultimo riverbero. Il desiderio di idealità e di unità spinge l’anima umana sulla via del ritorno
all’Uno. Scrive a tale proposito Plotino: “L’Anima (…) una volta caduta, è finita schiava, ‘in
catene’, costretta ad agire per via dei sensi a causa dell’impossibilità, almeno iniziale, di rendere
attiva l’Intelligenza. Però, se ha la forza di convertirsi alla conoscenza, si libera dalle catene e
riprende quota, non appena la reminiscenza la spinge a ‘contemplare i veri esseri’ : l’Anima, infatti,
serba sempre in sé, nonostante tutto, qualcosa di lassù” (Enneade IV 8,4).
L’ immagine del ritorno è mutuata anch’ essa da Platone: fa pensare al “mito della caverna” ed alla
tensione verso il Bene che pervade l’ intera Repubblica, ma anche alla “ perdita d’ ali” del Fedro ed
al desiderio dell’Anima di “ liberarsi delle catene” del corpo del Fedone, per ricongiungersi all’Uno
come l’ amante all’ oggetto amato del Simposio. Tuttavia, rispetto a Platone, altro appare l’ esito della
riflessione sull’ Eros e sulla razionalità di cui scrive Plotino.
Il ritorno dell’ anima umana all’Uno comprende cinque fasi, che hanno inizio nel momento in cui
l’ uomo cessa di disperdersi nelle cose del mondo e si concentra su se stesso, sulla propria interiorità
(auto-auscultazione). Il processo inizia dalle virtù civili, che consentono all’ anima di liberarsi dalla
dipendenza nei confronti del corpo. Seguono l’ arte, come contemplazione della bellezza intesa alla
come idealità, e l’ amore, che dalla bellezza corporea solleva a quella incorporea, intesa come
riflesso del Bene.
Nella sua forma suprema l’ amore è filosofia e conduce verso la fonte della bellezza stessa e del
bene, ma, tramite la ragione filosofica, l’ anima non raggiunge l’Uno.
La nostra anima, giunta all’ ultimo scalino, data l’ inadeguatezza della mente umana al divino, è
necessario che compia un salto mistico verso di l’Uno, dimentica di se stessa e disposta ad
identificarsi con l’Unità, superando lo sdoppiamento soggetto-oggetto, tipico dell’ approccio
razionale. All’ apice della razionalità Plotino pone dunque un salto mistico, che è esperienza di
natura religiosa.
Scrive infatti il filosofo di Licopodi che l’Anima, percorse le tappe che la conducono alla “ fonte” da
cui ebbe origine, di fronte all’Uno, sarà nella condizione di abbandonare l’ istanza teoretica sia del
conoscere sensibile sia della riflessione razionale. Ecco, per concludere, alcuni passi-chiave.
“ Verrà, però, il momento in cui la contemplazione non subirà interruzioni, né patirà i disturbi di un
corpo molesto. (…) Il vedere e la facoltà contemplativa dell’Anima non sono più ragione, ma sono
superiori alla ragione e più originari e più alti di essa, come lo è l’ oggetto contemplato. Nell’ atto
della visione, quando uno guarda a se stesso, si vedrà quale egli è; o meglio, si identificherà con
questo se stesso di cui avrà percezione, grazie al fatto che è divenuto semplice. Forse, però, non si
può dire che ‘si vedrà’ , ma si deve parlare di oggetto ‘visto’ (…). In quello stato, chi contempla non
si distingue più in forma di veggente né si rappresenta diviso in due, ma come se si fosse
trasformato in un altro; non più se stesso, non più padrone di sé, ma dissolto nel mondo di lassù:
essendo in potere dell’Uno, ormai è una sola cosa con l’Uno, quasi facesse coincidere centro con
centro (…). Per questo motivo, ora, nel parlare, ricorriamo al diverso, perché questa contemplazione
è difficile da esprimere” (Enneade VI 9, 9).
Plotino, infine, chiude questo passo suggerendo una domanda con la quale i fondamenti del
conoscere razionale vengono totalmente posti in discussione sino ad essere sopraffatti dalla
sovrarazionale immedesimazione con l’ Ineffabile.
“ Eppure, come è possibile descrivere qualcosa come diverso, se lassù non lo si è visto come tale,
ma uno con se stesso?” (Enneade VI 9, 9).

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