Agostino
Lo scopo della ricerca filosofica per Agostino
coincide con la ricerca di Dio. E’ Dio stesso che
definisce e sorregge ogni indagine, sia teoretica sia
pratica. Agostino scrive infatti: “ Io desidero
conoscere Dio e l’anima (…). Nient’altro,
assolutamente” (Soliloquia, I, 2).
Ragione e fede sono dunque indissolubilmente legate,
col fine di supportarsi e rafforzarsi a vicenda.
Questa teoria dei rapporti tra fede e ragione è
esplicitata nella formula crede ut intelligas (credi per
capire) e intellige ut credas (comprendi per credere). Con queste espressioni
Agostino intende
suggerire che, per capire, ossia per trovare la verità
esercitando la filosofia in modo corretto, è
assolutamente indispensabile credere, poiché la fede è
la luce che indica il giusto cammino. Al
contrario, per avere una salda fede, occorre
comprendere ed utilizzare l’ intelletto, cioè fare filosofia.
Quindi la ragione e la fede di fatto sono due parti
complementari della realtà del rapporto tra umano
e divino.
In questo senso, però, la filosofia agostiniana non
assume più il cosmo come oggetto privilegiato di
ricerca, ma sceglie piuttosto di occuparsi del “
problema dell’ uomo” che coinvolge Agostino stesso
in prima persona. Riguarda infatti la sua
inquietudine, i suoi dubbi, il tormento e la redenzione
nell’ esperienza alla ricerca di Dio. La filosofia
agostiniana assume dunque la persona nella sua
individualità irripetibile e nello sforzo continuo di
venire in chiaro con se stessa per conoscere la
sua origine in Dio.
Questa scelta conferisce alla ricerca di Agostino un
carattere introspettivo, autobiografico e
religioso-esistenziale.
La Scolastica e Guglielmo d’Ockham
Guglielmo d’Ockham chiude il periodo della Scolastica,
o filosofia cristiana del Medioevo, e
demarca la linea di separazione tra questa età e l’
Età moderna.
Tradizionalmente la Scolastica si suddivide in quattro
periodi:
· PRE-SCOLASTICA: (fine
VIII sec. inizio XI sec.) di cui il massimo esponente fu Giovanni Scoto
Eriugena, un filosofo che visse in età carolingia.
· ALTA SCOLASTICA:
(dall’ XI sec. al XII sec.) in cui i filosofi più noti furono il logico
Abelardo e Anselmo D’Aosta, che introdusse la prova
ontologica per dimostrare l’ esistenza di
Dio.
· PERIODO AUREO: fu il
periodo di massima fioritura della Scolastica (XIII sec.) ed ebbe come
maggiore esponente Tommaso D’Aquino, il quale
reinterpretò il pensiero aristotelico in chiave
cristiana.
· PERIODO DELLA
DISSOLUZIONE: (prima metà del XIV sec.) in cui si riconobbe
l’ impossibilità d’ un accordo fra fede e ragione,
ossia si dissolse il problema di fondo della filosofia
cristiana del Medioevo.
La fede, fondata sulla Rivelazione, richiede l’
adesione dell’ uomo ad una verità accettata in quanto
testimonianza superiore, divina. Nel Medioevo, in cui
dominante appariva la dimensione religiosa,
la ragione e la filosofia erano considerate “ ancelle
della teologia” . Il loro scopo era quello di
avvicinare gli uomini alla Verità Rivelata e
comprenderla in modo da renderla profondamente
propria, persuasi dell’ autenticità del messaggio
cristiano.
Non si dava più quindi una filosofia intesa, in senso
greco, come libera ricerca del sapere. Un
filosofo, anche laico, vissuto durante la Scolastica,
doveva fare i conti con le Sacre Scritture e con la
vita storica della Chiesa (le sue sentenze, i dogmi,
gli scritti da essa approvati) oltre che con le
teorie dei padri, prima di poter esprimere la propria
filosofia.
L’ unico fine del filosofo scolastico era quello di
cercare con la ragione di comprendere la verità
rivelata e apportare delle prove che ne attestassero
la fondatezza.
Il connubio tra fede e ragione è particolarmente forte
nella pre-scolastica. Durante l’ alta Scolastica
iniziano a presentarsi delle fratture all’ interno di
questo binomio, che in parte verranno poi risolte
durante il Periodo aureo da Tommaso, autore di una
sintesi di tale complessità e accuratezza da far
riconciliare i due poli del rapporto fede/ragione.
Una frattura netta avviene invece durante il Periodo
della dissoluzione, in cui la ragione umana si
rivolge esclusivamente al piano della logica e a
quello dell’ esperienza, mentre la fede si attiene a
quello dei sentimenti ed alla speranza.
Ockham afferma addirittura che per avere fede non è
necessaria la ragione. La teologia non è una
scienza e quindi non è razionalmente dimostrabile;
nemmeno la proposizione “Dio esiste” è quindi
dotata di senso, in quanto non ha valore dimostrativo.
Ogni esistenza è conoscibile infatti sulla base
della sola intuizione, che consente di comprendere
immediatamente se una cosa c’ è o non c’ è. Ma,
nel caso di Dio, la conoscenza intuitiva della sua
esistenza all’ uomo è negata. Pertanto anche la sua
essenza gli sfugge.
Ockham limita quindi il raggio d’ azione della
ragione, la quale può esprimersi solo per quanto
riguarda la natura percepibile dai nostri sensi.
Questa riduzione avviene grazie al Principio di
economia, detto anche dai discepoli del filosofo
“ rasoio di Ockham” , che mira a ridurre e a
semplificare i concetti della metafisica aristotelica.
Solo indagando sulle esperienze empiriche, infatti, si
può giungere alla verità. Se si cerca invece di
indagare su qualcosa di invisibile e di cui non è
certa neppure l’ esistenza, come per esempio
l’ anima, ciò che se ne ricava non può essere
considerato veritiero.
Dato che il mondo, procedendo da un’ impenetrabile
volontà divina, non può essere spiegato
secondo la logica umana, per Ockham ai filosofi non
resta che prendere atto della realtà così com’ è,
senza pretendere di spiegarne le ragioni metafisiche.
E’ questa la dottrina del cosiddetto
“ volontarismo teologico” , in base alla quale gli
sforzi della filosofia greca e cristiana di scoprire le
cause ultime del mondo si rivelano vani. Alla
filosofia non resta che abbandonare la pretesa di
capire l’ essenza o il fine dei fenomeni, sforzandosi
invece di descrivere come essi avvengono
secondo le conoscenze fisiche.
Con queste affermazioni Ockham non vuole assumere una
posizione totalmente materialista e
antireligiosa, (ricordiamo a proposito che egli era
francescano) ma, anzi, vuole dimostrare
l’ esistenza di un’ entità ultraterrena talmente
onnipotente da non poter essere né compresa, né
contemplata dalla ragione umana.
Per questa sua filosofia Ockham è spesso entrato in
contrasto con la Chiesa. Nel 1324 fu costretto a
raggiungere la curia papale ad Avignone poiché alcuni
dei suoi scritti avevano subito critiche.
Alcuni dei suoi articoli vennero censurati. Poté
continuare a scrivere soltanto sotto il rigido
controllo della Chiesa ed entrò comunque in conflitto
con papa . Fu quindi costretto a fuggire da
Avignone e trovò infine rifugio presso l’ imperatore
Ludovico di Baviera.
Una delle tesi che gli costò questa ostilità con la
Chiesa fu quella ch’ egli rivolse alla dottrina della
transustanziazione, secondo la quale, nella
consacrazione eucaristica durante la messa, il pane e il
vino si trasformano in sangue e corpo di Cristo, pur
rimanendo immutati nel loro aspetto esterno. E’
questa l’ interpretazione che fu proposta da Tommaso e
che il Concilio di Trento fece sua nel 1551.
Tuttavia Ockham criticò tale dottrina, introducendo la
consustanziazione, secondo la quale la
sostanza del pane e del vino rimane insieme a quella
del corpo e del sangue di Cristo. In altri
termini, Ockham mostrò che era possibile un’ altra
interpretazione dell’ eucarestia: se il pane rimane
pane, la presenza di Cristo è pensabile senza
contraddizioni e in maniera puramente simbolica.
La commissione papale accentuò ulteriormente il tono
dell’ indignazione definendo “ temeraria,
pericolosa, e priva di rispetto nei confronti della
dottrina della Chiesa” questa critica di Ockham,
che venne invece accolta da quasi tutte le chiese
riformate..
La Rivoluzione scientifica: Galileo, Bacone
e Cartesio
“ Voglio dire in sostanza, che il fatto nostro non sarà così semplicemente
materiale, come pare a
prima vista debba essere; e che gli
effetti suoi non apparterranno alla fisica solamente: perché esso
sconvolgerà i gradi della dignità delle
cose, e l’ordine degli enti; scambierà i fini delle creature; e
pertanto farà un grandissimo
sconvolgimento anche nella metafisica, anzi in tutto quello che tocca
alla parte speculativa del sapere. E ne
risulterà che gli uomini, se pur sapranno o vorranno
discorrere sanamente, si troveranno
essere tutt’altra roba da quello che son stati fin qui, o che si
hanno immaginato di essere” .
Giacomo Leopardi, Il Copernico
La Rivoluzione scientifica offre una nuova visione
della natura ed un nuovo modo per studiarla;
pertanto tutte le certezze precedenti, derivanti dalla
tradizione aristotelico-tolemaica, vengono
messe in discussione.
Il periodo della Rivoluzione scientifica si pone così
come premessa per un nuovo modello di
razionalità.
L’ approccio con la natura risulta profondamente
mutato; la natura è ora vista come ordine
oggettivo, quindi svincolata dall’ uomo. Essa è
inoltre regolata da un processo di causalità, che ne
presuppone l’ irreversibiltà e la sicurezza che uno o
più fatti diano origine ad uno o più effetti
sempre in maniera costante. Questo nuovo modello di
pensiero presuppone un sapere di tipo
matematico; la scienza infatti considera la natura
come un insieme di fenomeni relazionati fra loro
che fanno capo a delle leggi, ovvero le leggi della
fisica. L’ obiettivo ultimo della scienza è quindi la
conoscenza delle leggi fondamentali della natura.
Galileo, in accordo con questa moderna concezione della natura, nella prima giornata
del Dialogo
sopra i due massimi sistemi del mondo,
tolemaico e copernicano ( 1632), sostiene che la fiducia
nella verità assoluta della scienza viene confortata
mediante la teoria secondo cui la conoscenza
umana, pur differendo da quella divina per il modo di
apprendere e per l’ estensione di nozioni
possedute, risulta simile per il grado di certezza.
Mentre Dio conosce intuitivamente, cioè in modo
immediato la verità, l’ uomo la conquista
progressivamente attraverso il ragionamento discorsivo.
Inoltre Dio conosce tutte le infinite verità (extensive), mentre l’ uomo solo alcune di esse.
Tuttavia,
per quanto riguarda le dimostrazioni matematiche, dal
punto di vista dell’ intensità (intensive) la
qualità della certezza è identica sia nell’ uomo sia
in Dio.
La concezione di Galileo si differenzia dalla gnoseologia
tradizionale e dalla filosofia cristiana. Se
la gnoseologia tradizionale sosteneva che il
fondamento del conoscere fosse nelle cose e la filosofia
cristiana che fosse in Dio, Galileo sostiene che il
fondamento del conoscere è sia negli oggetti che
in Dio.
Nello scenario della Rivoluzione scientifica troviamo
un’ altra fondamentale figura, Francesco
Bacone.
Secondo la sua concezione della scienza, la ragione
umana, quando si affida al concreto
procedimento della nuova logica, prevale sulla natura.
La scienza e la potenza umana infatti
coincidono; pertanto, attraverso lo strumento empirico
e l’ elaborazione di un primo metodo
scientifico, l’ uomo può individuare le leggi che
regolano la natura e dominarla a proprio vantaggio.
La ricerca scientifica non si fonda né soltanto sui
sensi, né soltanto sull’ intelletto.
L’ intelletto, da solo, produce nozioni arbitrarie ed
infeconde; i sensi, senza l’ ausilio della ragione,
danno indicazioni disordinate ed inconcludenti. Dunque
la scienza non può costituirsi come
conoscenza vera e feconda se poggia soltanto su una
delle due forme di conoscenza. Il metodo
induttivo della scienza dovrà imporre all’ esperienza
sensibile la disciplina dell’ intelletto ed
all’ intelletto la disciplina dell’ esperienza
sensibile. Scrive infatti Bacone che: “ La nostra speranza è
riposta nell’unione sempre più stretta e
salda delle due facoltà, quella sperimentale e quella
razionale, unione che finora non si è mai
realizzata” (Novum organon, 1. I).
Se Bacone attribuisce dei limiti alla ragione umana, Cartesio invece ne afferma l’ assoluta
l’ importanza. Egli sostiene che, oltre ad essere
uguale in tutti gli uomini, essa è infallibile ed è in
grado di apportare una critica radicale al sapere già
dato, al fine di giungere ad un principio sul
quale il dubbio non è possibile. Tale principio
garantisce la validità della conoscenza umana e
l’ efficacia dell’ azione umana nel mondo: esso è il cogito. Partendo dalla celebre proposizione
“ cogito, ergo sum” , ovvero “ penso
quindi sono” , Cartesio giunge ad affermare la propria esistenza
non in quanto corpo, ma come pensiero, ossia come
qualcosa che dubita, cioè che pensa. La
proposizione “ io esisto” equivale pertanto a quest’
altra: “ io sono una sostanza pensante” (res
cogitans): ciò di cui posso fidarmi non è il mio
corpo né sono gli altri uomini, né alcuna altra cosa
posta al di fuori di me, bensì soltanto il mio
pensiero. Il cogito rappresenta quindi la verità
originaria che permette di sconfiggere il dubbio
metodico e di procedere alla riedificazione delle
altre verità. Questo passaggio è risolto da Cartesio
col ricorso a Dio, dimostrato esistente a partire
dall’ idea innata di perfezione nel cogito. Se Dio è buono, onnipotente, onnisciente e perfetto,
non
può permettere che le sue creature si ingannino o
siano ingannate da forze malvagie. Inoltre, in
positivo, Egli si fa garante del principio dell’
evidenza e dell’ intera conoscenza umana, tale per cui,
se abbiamo idee chiare e distinte di corpi fuori noi,
tali idee derivano sicuramente da qualcosa di
diverso dalla res cogitans. Questo qualcosa posto fuori di noi e che ha tratti opposti al pensiero è
la
sostenza estesa (res extensa). La riduzione della corporeità all’ attributo dell’ estensione e della
causalità alla sola azione meccanica implica una
ulteriore riduzione della fisica alla matematica e
una fisicizzazione dello spazio geometrico, che
risulta continuo ed infinito. Anche la biologia viene
ricondotta alla fisica meccanicistica, contro ogni
vitalismo o finalismo di tipo aristotelico.
L’ operazione di Cartesio apre quindi ad una duplice
conseguenza: da un lato, si afferma la pura
spiritualità dell’ anima; dall’ altro, privando la
natura di qualsiasi tipo di forze, la si riduce a mera
spazialità governata dal meccanicismo.
Dopo queste riflessioni, possiamo dunque affermare che
la Rivoluzione scientifica non fu solo un
fatto astronomico e scientifico, ma anche un
appassionante avvenimento filosofico.
Attraverso il pensiero di queste fondamentali figure
la visione complessiva del mondo, che per
secoli era stata propria dell’Occidente, mutò
radicalmente, segnando in profondità la cultura
moderna.
Hobbes
Thomas Hobbes visse in un periodo assai frammentato
della storia inglese, che si caratterizzò
per il conflitto fra il tentativo di accentramento del
potere ad opera degli Stuart, l’ opposizione
del Parlamento all’ assolutismo e la tendenza,
parallela a quella monarchica, della Chiesa
anglicana a rafforzare la sua struttura gerarchica ed
autoritaria.
I maggiori interessi del filosofo furono la vita
politica del suo Paese e, a partire dal 1630, gli
studi matematico-scientifici che lo portarono all’
elaborazione di una filosofia empirista e
materialistico/meccanicista che si traduce nel
fenomenismo.
Egli considerò l’ argomentazione matematica come l’
esempio più perfetto di razionalità, da
prendersi a modello di ogni discorso rigorosamente
scientifico.
Uno degli argomenti più singolari della gnoseologia di
Hobbes, che compare fin dalle prime
redazioni del De Corpore, è l’ ipotesi dell’ annihilatio mundi: “ Nella maniera
migliore –egli
scrive- faccio cominciare la filosofia
naturale dalla privazione cioè da un finto annichilimento
del mondo” (De Corpore, VII, 1). Se, d’ un tratto, il mondo reale venisse annientato in modo però
che si salvasse un unico uomo, questi, operando sulle
sole immagini conservategli dalla memoria
(fantasma) ed elaborandole
concettualmente, sarebbe in grado di ragionare nell’ identico modo
con cui noi ragioniamo nella vita quotidiana. Quest’
uomo continuerà infatti a concepire idee che,
pur essendo soltanto immagini interiori, gli
sembreranno però indipendenti dal potere della sue
mente. A tali fantasmi egli assegnerà nomi e li
calcolerà, così come noi, anche quando le cose
esterne ci sono, noi non facciamo altro che “
calcolare” i nostri fantasmi. La sua concezione
generale del conoscere è, ovviamente, fenomenistica. I
nostri ragionamenti, compresi quelli
scientifici, non sono in ultima istanza che
elaborazioni di immagini che non hanno nulla a che
vedere con la realtà esterna ma sono unicamente
collegati alle idee.
Una volta preso atto che la nostra mente ha a che fare
soltanto con le idee, Hobbes può
sostenere che l’ elemento basilare di ogni sapere è
costituito dai nomi, in quanto questi
risultano direttamente collegati alle idee. Ne segue
che la verità riguarda proprio i nomi,
non la realtà.
Tenuto poi conto che le idee possono poi combinarsi
fra loro, da qui più idee semplici
possono formarne una composta, se ne ricava che anche
i nomi potranno sommarsi o
sottrarsi gli uni con gli altri, sempre che ciò
risulti attuabile fra le idee corrispondenti.
Somma e sottrazione sono pertanto le due operazioni
fondamentali per un lato della
mente e per l’ altro del ragionamento.
Quanto alla proposizione, essa non sarà altro che l’
unione di due nomi. Ora, “ vero o
falso sono attributi delle parole, non delle cose” (Leviatano IV) perché il criterio di
verità è interno allo stesso sistema linguistico che
organizza formalmente i processi reali
e non consiste in un rispecchiamento della struttura
ontologica del reale. In particolare,
una proposizione risulterà vera se il nome che viene
dopo e il nome che viene prima
sono effettivamente nomi dello stesso oggetto, in caso
contrario risulterà falsa. False
saranno, ad esempio, le proposizioni che intendono
accostare nomi di corpi con nomi di
accidenti
Il carattere nominalistico di questa logica è
evidente; si può anche parlare tuttavia di
concettualismo in quanto i nomi valgono, per Hobbes,
non in se stessi ma per il loro
riferimento alle idee cui sono direttamente collegati.
Se per Hobbes ogni proposizione universalmente vera
non può essere altro che una
definizione, o parte di una definizione, è chiaro che
tale carattere dovrà pure essere
presente, secondo lui, nei primi principi di qualunque
sapere scientifico. Partendo dai
principi si dovranno poi dedurre con estremo rigore
tutte le conseguenze ricavabili dalle
combinazioni dei concetti definiti; così la scienza avrà
unico fondamento nelle
definizioni iniziali, senza doversi preoccupare di
apporti diretti o indiretti che le
derivano dall’ esperienza.
L’ autonomia del discorso dell’ essere delle cose
ribalta il lógos tradizionale della
metafisica platonico-aristotelica. Diversamente dal
pensiero post-parmenideo, che pone
una stretta corrispondenza fra pensiero (linguaggio)
ed essere allo scopo di neutralizzare
nel discorso ogni connotazione di tipo soggettivo, nel
nominalismo di Hobbes, invece,
la decisione del soggetto, la sua creatività ma anche
il suo arbitrio diventano
fondamentali: “ Le verità prime nacquero dall’arbitrio di quelli che,
per primi, imposero
nomi alle cose o li accolsero, una volta
posti dagli altri” (De Corpore, III,8). Dunque,
la ragione non ha per Hobbes alcuna implicazione
ontologica, perché si definisce come
puro procedimento formale che connette fra loro nomi.
Egli infatti sostiene che: “ La
ragione in quanto senso non è che il
calcolo delle conseguenze dei nomi generali su cui
c’ è accordo per contrassegnare e
significare i nostri pensieri” (Leviatano,V)
Pertanto, ragionare significa calcolare, ossia
addizionare e sottrarre. Si tratta di
operazioni che non si riferiscono soltanto alle
grandezze dell’ aritmetica (i numeri), della
geometria (linee e figure) e della fisica (velocità,
forza, peso, ecc.), ma che trovano
applicazione anche nel campo della logica,
relativamente ai rapporti fra nomi. Ad
esempio: sostenere che fra due vocaboli c’ è un
rapporto di antecedente e conseguente,
significa aggiungere il secondo (come conseguente) al
primo (come antecedente); al
contrario, negare questo rapporto significa sottrarre
il secondo al primo. In questo modo
Hobbes recupera in forma nuova la logica tradizionale.
Il modello del sapere cui egli si
ispira è di impianto matematico.
Locke e l’empirismo inglese
La ragione presentata dall’ empirista inglese John
Locke è priva dei caratteri che il razionalista
Cartesio le aveva attribuito. Non è identica in tutti
gli uomini poiché essi ne partecipano in misura
differente. Talora è fallibile perché sovente le idee
di cui può disporre sono in numero molto
limitato o non si lasciano concatenare nella forma del
ragionamento; e anche perché può essere
ingannata da falsi principi e dal linguaggio stesso, del
quale però non può fare a meno. Ma,
soprattutto, la ragione non può ricavare da sé idee e
principi come sostenevano i razionalisti, in
quanto deve ricavarli dall’ esperienza che è sempre
soggetta a limiti e condizioni.
Tuttavia la ragione è l’ unico mezzo efficace di cui l’
uomo dispone e tutto l’ operato di Locke è
rivolto ad estendere il campo della sua azione a tutto
ciò che interessa il mondo umano quindi alla
morale, alla politica e alla religione, secondo una
prospettiva d’ indagine che, nel secolo successivo,
sarà propria dell’ Illuminismo.
Locke è ritenuto l’ iniziatore dell’ indirizzo critico
della filosofia. Come egli stesso afferma
nell’ Epistola al lettore che precede il Saggio sull’ intelletto umano, l’ esigenza dalla quale muovere
in qualsiasi contesto di ricerca consiste nell’ “
esaminare le nostre stesse capacità, e vedere quali
oggetti siano alla portata della nostra intelligenza,
e quali invece siano superiori alla nostra
comprensione” . L’ indagine critica consiste dunque
nello stabilire le capacità effettive dell’ intelletto
umano, gli oggetti che esso può cogliere e i limiti
che sono propri dell’ uomo.
Locke prende in esame i limiti della ragione perché
essa deve fare i conti con l’ esperienza. E’
l’ esperienza infatti che fornisce alla ragione l’
unico materiale di cui essa dispone. Le idee semplici
sono le basi di ogni sapere umano. La ragione può
bensì combinare e ordinare questo materiale a
modo suo, formando idee complesse e ragionamenti; ma
anche in questa sua attività deve essere
controllata dall’ esperienza perché altrimenti le sue
costruzioni sono arbitrarie o fantastiche. Soltanto
una ragione controllata dall’ esperienza impedisce all’
uomo di avventurarsi in problemi che sono al
di là delle sue capacità, come per esempio quelli che
la ricerca metafisica tradizionale da sempre
esamina. Del resto è sempre la ragione, indirizzata
dall’ esperienza, che consente all’ uomo di
intendere le basi della sua morale e della sua
politica e l’ essenza permanente della religione, al di là
della superstizione e dei miti cui essa è andata
soggetta.
Hume
Il contrasto ragione-passioni e la superiorità della
ragione sulle passioni sono due elementi comuni a
tutta la storia della filosofia. Secondo Hume, invece,
il contrasto ragione-passioni non esiste, perché
la ragione non è in grado né di influenzare né di
ostacolare le passioni: “ la ragione è, e può solo
essere, schiava delle passioni” ( D. Hume, Trattato sulla natura umana, Libro secondo, Parte terza,
Sez. terza).
Non c’ è nulla di piú comune in
filosofia, e anche nella vita quotidiana, che parlare del conflitto tra
passione e ragione per dare la palma alla
ragione, e per affermare che gli uomini sono virtuosi
solo nella misura in cui obbediscono ai suoi
comandi. Si sostiene che ogni creatura razionale ha
l’obbligo di regolare le proprie azioni
secondo i dettami della ragione, e che nel caso in cui ci sia
qualche altro motivo o principio che
pretenda di determinare la sua condotta, deve opporsi a esso
finché non sia completamente domato o
almeno conciliato con quel principio superiore. La
maggior parte della filosofia morale,
antica e moderna, sembra fondarsi su questo modo di
pensare; e non c’ è nulla che offra
maggior spazio sia alle disquisizioni metafisiche, come alle
declamazioni popolari, quanto questa
presunta superiorità della ragione sulla passione. Si sono
poste nella miglior luce l’ eternità, l’
invariabilità e l’origine divina della prima; mentre si è
continuamente insistito sulla cecità,
incostanza e falsità della seconda. Per dimostrare come tutta
questa filosofia sia erronea, cercherò di
dimostrare in primo luogo che la ragione, da sola, non può
mai essere motivo di una qualsiasi azione
della volontà; e in secondo luogo che la ragione non può
mai contrapporsi alla passione nella
guida della volontà.
(...) Ma se la ragione non ha questa
influenza originaria è impossibile che possa ostacolare un
principio che invece possiede tale
capacità, o che riesca a fare esitare la nostra mente sia pure per
un attimo. Risulta quindi chiaro che il
principio che si contrappone alla passione non può
coincidere con la ragione e solo
impropriamente lo si chiama cosí. Non parliamo né con rigore né
filosoficamente quando parliamo di una
lotta tra la passione e la ragione. La ragione è, e può solo
essere, schiava delle passioni e non può
rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella
di servire e obbedire a esse.
(D. Hume, Opere, Laterza, Bari, 1971, vol. I, pagg. 433-436)
Per Hume la fonte del conoscere umano è la percezione
sensibile (empirismo).
Quando l’ individuo si rapporta all’ oggetto esterno
riceve un’ impressione vivida e immediata di
questo. Tuttavia, con il trascorrere del tempo, l’
impressione sbiadisce e il ricordo della percezione si
affievolisce: in tal modo si viene a formare l’ idea.
Le idee però sono necessariamente meno fedeli
alla realtà di quanto non lo siano le impressioni
immediate da cui derivano. Secondo Hume non
esistono idee innate e ogni idea varia anche in
piccola parte per ogni individuo. I concetti generali
nascono quindi da un’ astrazione dei tratti comuni di
più oggetti e questo processo è finalizzato
esclusivamente alla necessità linguistica di
comunicare con altri individui e con il nostro stesso
intelletto. Senza la facoltà di astrazione non si
darebbe un ordine alle idee e quindi non si darebbe
neppure pensiero. Nell’ intelletto umano esiste
inoltre una facoltà sufficientemente libera e
svincolata che è l’ immaginazione. Questa è regolata da un’ istanza direttiva che è il principio di
associazione, che risponde a tre criteri: somiglianza,
contiguità e causalità. L’ associazione di idee
semplici e individuali con altre idee dà origine a
idee più complesse e ulteriormente astratte, come i
concetti di spazio e tempo. Hume riconduce i processi
conoscitivi a facoltà mentali basse,che non
appaiono legate ad una razionalità pura, ma che sono
vincolate da necessità antropologiche, quali il
bisogno di comunicare. La conoscenza dell’ uomo si basa
su concetti estremamente astratti e lontani
dalla realtà e su idee filtrate dal ricordo.
Il sapere scientifico si forma a partire da
proposizioni che concernono relazioni fra idee e si
sviluppa su un piano che è esclusivamente quello del
pensiero e può anche logicamente e
razionalmente essere ritenuto vero anche senza un
effettivo riscontro con la realtà esterna. Ad
esempio, le scienze matematiche, basandosi sul
principio di non contraddizione, hanno regole
proprie, leggi valide che tuttavia non hanno una
necessaria validità anche al di fuori dell’ ambito
dell’ astrazione, del pensiero.
Hume critica anche le cosiddette materie di fatto (fisica e scienze naturali) che studiano
gli enti
della natura e le cui nozioni si ricavano a partire
dall’ esperienza. Perché le leggi “ è probabile che
il sole domani sorga” ). Il nesso causa-effetto però non può
essere assunto a priori; la causalità
infatti è pensata dall’ uomo soltanto dopo aver avuto
esperienza di un dato fenomeno, cioè soltanto
dopo l’ assimilazione, il ricordo di un dato e l’
accostamento di idee. Ma l’ associazione è un
processo esclusivamente mentale: non è detto che nella
realtà due eventi siano necessariamente
collegati come ci suggeriscono i nostri sensi e la
nostra esperienza.
Le leggi delle materie di fatto non si basano quindi
sulla ragione ma sono vincolate da un
sentimento: l’abitudine, per cui l’ uomo è portato a credere che ciò che si è verificato
ripetutamente
continuerà a verificarsi nelle stesse modalità.
Attraverso questi presupposti, Hume arriva a essere
scettico sulla possibilità di conoscere
effettivamente il mondo esterno e la reale esistenza
di questo.
Kant
Kant si occupa della ragione umana attraverso tre
critiche, nelle quali si esplica il suo indirizzo
filosofico del “ criticismo” ; ciascuna di esse
risponde ad una precisa domanda:
1. Critica della ragion pura ( prima edizione 1781 e seconda edizione 1787): “ cosa posso
sapere ?”
2. Critica della ragion pratica (1788): “ cosa devo fare ?”
3. Critica del giudizio (1790): “ cosa posso sperare ?”
Con la filosofia kantiana viene introdotta la
cosiddetta “ rivoluzione copernicana” in ambito
conoscitivo in quanto il rapporto gnoseologico tra
soggetto ed oggetto si complica perché si
aggiunge un elemento che è il fenomeno, ossia l’ oggetto “ come a me appare” ,
mentre il noumeno,
ossia l’ oggetto “ com’ è in sé” , è definito come “ x
sconosciuta” . Inoltre il baricentro del conoscere,
che nella gnoseologia tradizionale risiedeva nell’
oggetto, si sposta nel soggetto che ordina e
disciplina il fenomeno.
Nella Critica della ragion pura (che abbreviamo con le iniziali C.R.P.) Kant definisce la ragione
almeno in tre diverse accezioni:
- in senso lato: come la facoltà di conoscere in
generale
- pura: in quanto facoltà divisa in sensibilità ed intelletto che fornisce le forme pure a priori,
ossia spazio e tempo (sensibilità), 12 categorie o concetti puri (intelletto).
- in senso stretto: facoltà tramite la quale si cerca
di spiegare globalmente la realtà con le tre
idee innate di anima, mondo e Dio.
Nella ragion pura la sensibilità si sviluppa tramite le forme pure a priori di spazio e tempo
che
collocano nel qui ed ora (hic et nunc), tramite intuizioni sensibili, l’ oggetto
fenomenico. L’ estetica
trascendentale è la sezione della C.R.P. che esamina la sensibilità al fine di dimostrare come
su
questa si costruiscano le matematiche. La sezione dell’analitica trascendentale invece esamina la
facoltà dell’ intelletto e le sue forme pure a priori (categorie o concetti puri) affinché si dimostri che
su di essa si fonda la scienza della fisica. Le categorie sono i concetti puri basilari
della mente, che
rappresentano le supreme funzioni unificatrici dell’
intelletto; le categorie sono infatti le varie
maniere con cui l’ intelletto unifica a priori, nei
giudizi, le molteplici intuizioni empiriche della
sensibilità.
Pensare per concetti e giudicare sono, per Kant, la
stessa cosa. Giudicare significa attribuire un
predicato ad un soggetto. Le dodici categorie sono
quindi le maniere universali e necessarie tramite
cui un concetto sussume diverse rappresentazioni sotto
una rappresentazione comune; in altri
termini, significa sussumere un certo soggetto sotto
un predicato dell’ intelletto. La connessione fra
giudizi e categorie comporta per Kant che ci saranno
tante categorie quante sono le modalità di
giudizio. Il filosofo, partendo da tale presupposto,
elabora la sua tavola delle
categorie riprendendo
con un principio sistematico la tavola dei giudizi in
uso presso le scuole del suo tempo. La tavola
kantiana raggruppa quindi quattro gruppi di categorie
secondo la quantità, la
qualità, la relazione e
la modalità; poiché ciascun gruppo di categorie è
costituito da tre concetti puri, in tutto le categorie
risultano 12. Infine Kant fa corrispondere ad ogni
tipo di giudizio un tipo di categorie.
Egli inoltre giustifica razionalmente l’ applicazione
delle categorie ai fenomeni introducendo la
“ deduzione trascendentale” . Il filosofo trae il
termine “ deduzione” dal linguaggio giuridico, per il
quale “ dedurre” significa dimostrare la legittimità di diritto di una pretesa di fatto. Per analogia,
Kant chiama “ deduzione trascendentale” delle
categorie la giustificazione della loro pretesa di
valere per degli oggetti che non sono prodotti dall’
intelletto medesimo. La soluzione kantiana
consiste nel mostrare come gli oggetti dell’
esperienza non sarebbero tali se non fossero pensati dalle
forme pure a priori dell’ intelletto e dalla sua opera
unificatrice. Il che equivale a dire che la natura
fenomenica obbedisce necessariamente alle categorie.
Didatticamente, la deduzione trascendentale può essere
esposta distinguendo al suo interno cinque
fasi, inoltre essa necessita dell’ introduzione di un
altro elemento formale a priori dell’ intelletto che
coordina le categorie, l’ io penso. Nella prima fase si considera il pensare
come l’ azione di
unificazione del molteplice; nella seconda entra in
scena l’ io penso, centro mentale unificatore,
appercezione trascendentale, che è attività logica di pensiero sempre
in atto, universale e
necessaria. Nella terza fase si considera che l’ io
penso agisce tramite le categorie in 12 modi
diversi; nella quarta si vede come l’ io penso
estrinsechi la sua funzione solo quando ha a
disposizione intuizioni empiriche. In questo caso abbiamo un uso empirico e legittimo delle
categorie. Nell’ ultima fase l’ io penso si attiva e
unifica ulteriormente le molteplici intuizioni
empiriche già unificate dalle categorie. Pertanto è
legittimo solo l’ uso empirico (e non trascendente)
delle categorie, cioè la loro applicazione su
materiale conoscitivo derivato dai sensi. Iin caso
contrario, si incorrerebbe nell’ errore ossia nella metafisica (che dipende dalla ragione in senso
stretto), la quale viene sottoposta a sistematica indagine
nella Dialettica
trascendentale.
La dialettica trascendentale costituisce la seconda
parte della Logica
trascendentale, in cui si
illustrano e si confutano gli errori in cui incorre la
ragione in senso stretto, della quale tuttavia
l’ uomo non può fare a meno in quanto essa si
caratterizza come una tensione naturale verso la
totalità espressa mediante le idee di anima, mondo e Dio. Tali idee danno luogo a tre pseudoscienze:
psicologia razionale, cosmologia razionale e teologia razionale. Ciascuna di esse contiene
procedimenti errati che Kant singolarmente individua.
La prima si fonda sul “ paralogisma” ossia un
ragionamento errato che implica un utilizzo
illegittimo della categoria di sostanza; la seconda sulle
“ antinomie” ossia su procedimenti in cui la ragione
entra in conflitto con se stessa e la terza sulle
prove dell’ esistenza di Dio delle quali Kant fa
emergere le contraddizioni di fondo. Dopo questa
analisi il filosofo può concludere che le tre idee di
totalità non hanno funzione conoscitiva, bensì
regolativa e che la metafisica non è una scienza.
Se nella C.R.P. la razionalità umana è stata esaminata/criticata nella sua funzione
teoretica, nella
Critica della ragion pratica (C.R.Pr) emerge la sua funzione morale o etica,
ossia regolativa
dell’ agire umano. Mentre la prima opera sottoponeva
al criticismo kantiano la ragion pura (che, se
non viene tenuta a bada, può sconfinare nella
metafisica) ed esaltava invece l’ aspetto empirico; la
seconda critica presuppone un rovesciamento: la
moralità, infatti, risiede nella purezza della ragione
non nella sua empiricità, pertanto sarà la ragion empirica pratica (fondata sulla sensibilità e sugli
istinti) e non quella pura pratica ad essere sottoposta alla critica.
Se, dunque, l’ eticità kantiana risiede nell’ aspetto
puro della razionalità pratica, quest’ ultimo dovrà
agire in modo perentorio ed imperativo, imponendosi
con un comando nei confronti della sensibilità
dell’ aspetto empirico-pratico. La ragione in ambito
etico si esplica dunque con un imperativo, la
cosiddetta legge morale, che è assoluto ed incondizionato in quanto autonomo rispetto alla
sensibilità. Tali caratteristiche presuppongono, però,
la libertà da parte dell’ individuo di affrancarsi
dalla sua corporeità e di raggiungere una dimensione noumenica che, in ambito gnoseologico (prima
critica), gli era preclusa (la scienza risulta infatti
circoscritta nell’ ambito del qui e ora spaziotemporale
mentre la moralità supera queste barriere di natura
fisica). La moralità assume dunque
caratteri analoghi alle tre idee di totalità della
ragione in senso stretto.
Stante la bidimensionalità dell’ uomo, che si connota
per essere ragion pura pratica ed istinti, l’ etica
kantiana presuppone una lotta incessante fra la legge
morale e la sensibilità. Il soggetto morale è
colui che esercita la virtù, ossia l’ intenzione morale in lotta e che, nel momento in cui agisce, pone
al proprio posto l’ intero universo (dimensione
noumenica dell’ imperativo categorico). L’ uomo etico
non cade nel fanatismo, né crede di esercitare la santità, cioè la perfetta adeguazione della volontà
alla legge.
Kant definisce quindi il comando etico tramite principi pratici che si dividono in massime, intese
come prescrizioni pratiche con valore soggettivo, e imperativi, ossia prescrizioni pratiche con valore
oggettivo. Gli imperativi a loro volta si dipartono in
imperativi ipotetici, con cui ci si riferisce alla
prescrizione di mezzi in vista di specifici fini, e nell’ imperativo categorico,il tu devi, che costituisce
l’ essenza della legge morale e che comanda in modo
assoluto, prescindendo da qualunque scopo.
L’ eticità kantiana risulta pertanto avulsa da
qualsiasi tipo di sentimento che non sia il rispetto verso
la legge morale stessa. Essa inoltre si caratterizza
per i seguenti attributi: è formale (la forma
sopravanza il contenuto, in quanto la legge morale non
ci dice cosa dobbiamo fare, ma indica
costantemente come dobbiamo fare ciò che facciamo), antiutilitaristica e rigoristica (coincide
con il
senso del dovere). Essa si differenzia dalla mera
legalità ed è congiunta all’ intenzione, in quanto
non è sufficiente che un’ azione sia fatta
esteriormente secondo la legge, ma si richiede una effettiva
partecipazione interiore.
Nel momento in cui l’ individuo agisce moralmente,
egli entra nel cosiddetto regno dei fini, “ luogo
etico” che rende l’ uomo partecipe del mondo
noumenico. Si giunge pertanto ad una dimensione
etica più elevata: quella dei “ valori” . Nell’ ultima
parte della C.R.Pr., la dialettica della ragion pura
pratica, Kant si dedica al controverso tema del sommo bene ossia il bene più compiuto e perfetto al
quale mira ogni comportamento che voglia definirsi
etico e che, secondo il filosofo, risulta essere
l’ esito di una metaforica addizione tra virtù e felicità. In questo caso, però, si rischia di
incorrere in
un’antinomia in quanto, se la
virtù persegue la morale che si esplica nel tu devi e che non prevede
che si pongano fini al proprio agire (ecco il senso
profondo dell’ antiutilitarismo ma anche
l’ antiedonismo e l’ antieudaimonismo kantiani), l’
individuo che persegua la felicità non risulterà
virtuoso, cioè conforme all’ imperativo morale.
Allo scopo di risolvere tale contraddizione, Kant
introduce la teoria dei postulati, ossia postula, per
poter giustificare la validità della legge morale, l’
esistenza di un mondo altro da questo nel quale il
sommo bene possa trovare realizzazione. I postulati
sono tre: i primi due sono detti “ tipici o
religiosi” e il terzo è definito “ atipico” . Il primo
riguarda l’ immortalità dell’anima, il secondo
l’ esistenza di Dio e il terzo la libertà, principio cardine dell’ etica kantiana. In questo
modo Kant
finisce per ammettere, in sede pratica, proposizioni
che la ragione teoretica non avrebbe mai potuto
accogliere. E’ in questo che si traduce il primato della ragion pratica, ma è pur vero che i tre
postulati non hanno valore conoscitivo, né riguardano “
certezze razionali” . Come sostiene Pietro
Chiodi (vd. Kant, Scritti morali, Utet. Torino 1986, p. 13) il primato della ragion pratica rispetto
alla ragion pura non significa che essa ci può dare
ciò che questa ci nega, ma semplicemente che le
sue condizioni di validità comportano la ragionevole speranza dell’ esistenza di Dio e
dell’ immortalità dell’ anima. Se questa ragionevole
speranza venisse accolta come verità teoretica,
allora l’ intera dimensione morale kantiana, fondata
sulla libertà e l’ autonomia, ne risulterebbe
distrutta.
Nella Critica del giudizio (C.R.) quella che nella C.R.P. veniva chiamata come ragione in senso
stretto gioca un ruolo fondamentale. Tramite la facoltà del Giudizio, ovvero il Sentimento, l’ uomo
cerca di trovare una corrispondenza, un accordo tra la
necessità che governa il mondo fenomenico
(esito della prima critica) e la libertà del mondo
morale interiore noumenico (esito della seconda
critica).
Infatti, in questa terza critica Kant introduce la
riflessione sul rapporto tra l’ essere umano e la natura
che lo circonda attraverso quelli che chiama giudizi riflettenti. Tali giudizi si riferiscono ad una
natura già costituita mediante i giudizi determinanti. Questi sono i giudizi che Kant, nella C.R.P.,
definiva sintetici a priori e sui quali aveva sostenuto che si costruisse la
scienza (matematiche e
fisica). Essi “ determinano” gli oggetti fenomenici in
correlazione alle forme pure a priori. I giudizi
estetici invece si limitano a “ riflettere” sulla
natura che è già stata definita mediante i giudizi
determinanti e la interpretano attraverso l’ esigenza
umana universale della finalità. I giudizi
riflettenti possono essere estetici o teleologici. Il giudizio estetico permette di intuire
immediatamente la finalità della natura come se essa
dovesse “ venire incontro” alle aspettative
estetiche del soggetto in termini di bellezza. Col
giudizio teleologico, invece, l’ uomo pensa
concettualmente la finalità della natura, come se essa
fosse un carattere proprio dell’ oggetto.
I giudizi estetici esaminano i valori del bello e del sublime. Il bello è ciò che piace nel giudizio di
gusto ed è riconosciuto, secondo la qualità, come
oggetto di piacere senza alcun interesse, secondo
la quantità come oggetto di piacere universale senza
concetto; tramite la relazione in quanto finalità
senza scopo e, secondo la modalità, come oggetto di un
piacere necessario.
Il sublime invece è un valore
estetico che rappresenta l’ infinita forza della natura nelle dimensioni
fisiche (sublime matematico) e nella potenza (sublime dinamico). Il sublime matematico produce
nell’ uomo una netta dialettica emotiva: dapprima una
sorta di dispiacere nell’ immaginazione, che
poi dialetticamente si trasforma in piacere proprio
quando la ragione in senso stretto produce l’ idea
di infinito. Questa idea ci permette di cogliere l‘incommensurabile
e ci rende superiori alla natura
stessa. Il sublime dinamico suscita dapprima in noi
debolezza, spavento e impotenza che
successivamente, sempre in base ad un processo
dialettico,si mutano nel sentimento opposto di
potenza, in virtù della consapevolezza umana di essere
di essere portatori delle idee della ragione e
della legge morale, di contro alla natura, che non sa
di essere infinitamente grande forte.
Quindi il giudizio estetico del bello nasce dall’
equilibrio e dall’ armonia tra fantasia ed intelletto,
mentre il giudizio del sublime è frutto di un
contrasto, della dialettica emotiva tra immaginazione e
ragione e produce commozione.
Il giudizio teleologico riflette concettualmente il mondo il principio (idea) di finalità pensato dalla
ragione umana. La nostra mente, però, quando riflette
finalisticamente sul mondo, non conosce in
termini di scienza, perché non elabora un sapere con
il supporto di categorie dell’ intelletto, ma ha
una spontanea tendenza a pensare la natura come dotata
di un suo senso interno, di un fine. Pertanto
il giudizio teleologico può essere formulato ed inteso
su vari livelli: 1) esso riferisce il concetto di
finalità della natura ad un singolo organismo vivente;
2) ad un livello più ampio, riferisce l’ idea di
fine ad un intero sistema vivente, nel quale fa
coesistere, in accordo tra loro, le differenti parti che
lo compongono e le pensa in funzione di un obiettivo
ultimo comune; 3) se la natura è concepita
come un enorme organismo, l’ uomo può pensarsi dentro
la natura, come parte del grande sistema
naturale. Ed è in accordo con la natura tutta che l’
uomo comprende il senso del suo esistere; 4) si
considera infine la stessa natura come un tutto
organico che rimanda alla causa finale ultima, allo
scopo supremo: che è Dio.
Hegel
Hegel rappresenta l’ ultima e la più matura
espressione dell’ idealismo tedesco. Si tratta
dell’ idealismo assoluto. Esso si definisce come la
dottrina che riconosce la idealità (non realtà) del
finito e che, come tale, implica perciò la realtà
assoluta dell’ infinito che risolve in sé tutti i finiti.
Si può esemplificare questo aspetto con la prima tesi
di fondo hegeliana della “ risoluzione del finito
nell’ infinito” , in base alla quale il finito, di per
sé preso, non ha senso se non in misura meramente
ipotetica, perché esso esiste sempre e solo in
funzione del tutto.
Per Hegel il tutto è compenetrazione di due aspetti,
razionalità e realtà, come egli asserisce nella
prefazione ai Lineamenti della Filosofia del diritto del 1821. La seconda tesi di fondo del suo
pensiero consiste infatti nella “ identità di ragione
e realtà” . Hegel esprime la compenetrabilità di
questi due aspetti del tutto attraverso l’ aforisma: “
Ciò che è razionale è reale e ciò che è reale è
razionale” . La razionalità non è mero pensiero,
idealità, pura teoria ma è quella ratio, immanente
alla realtà stessa, che fa sì che quest’ ultima non
sia materia caotica: essa è il reticolato concettuale
del reale.
La realtà, a sua volta, non è mero caos, pura
accidentalità ma, ordinata dalla ragione immanente del
tutto, essa è razionalità dispiegata. Questa
coincidenza di razionalità e realtà sancisce, in Hegel, la
perfetta identità tra dover essere ed essere,
determinando la necessita stessa della realtà la quale,
perciò, è tale da non poter essere diversa da così
come è. In riferimento a questo punto, si possono
indicare quelle che risultano essere le due linee di
sviluppo del pensiero di Hegel: la Destra e la
Sinistra hegeliana. Gli esponenti della Destra dell’
aforisma “ Ciò che è razionale è reale e ciò che è
reale e razionale” assumono la seconda parte (l’
identità di realtà e razionalità) sostenendo che ciò
che è, è come deve essere, quindi esaltano la politica
vigente secondo una visione più conservativa
Al contrario, i filosofi della Sinistra prediligono
dell’ aforisma la prima parte (ossia l’ identità di
razionalità e realtà), sostenendo che tutto ciò che è
non risponde a criteri di coerenza e razionalità,
non è nei fatti come deve essere; pertanto dovrà
diventare reale, potrà realizzarsi soltanto nel futuro.
Essi interpretano quindi in modo critico il presente,
assumendo una visione più progressista e
un’ istanza volta alla prassi, nel tentativo di
destabilizzare la realtà.
Il tutto, ossia la realtà, per Hegel è una totalità
processuale e necessaria, un soggetto spirituale in
divenire che procede non solo in senso sincronico, ma
anche diacronico, secondo la legge della
dialettica. Essa, dunque, ha una duplice valenza: è,
in quanto logica, legge di sviluppo del pensiero
e, in quanto ontologia, legge di sviluppo della
realtà.
Hegel, nel paragrafo 79 dell’Enciclopedia delle Scienze
Filosofiche in compendio, testo la cui
ultima edizione è del 1830, riflette analiticamente
sulla dialettica determinandone i tre momenti:
- astratto o intellettuale
- dialettico o negativo razionale
- speculativo o positivo razionale
Nel primo momento, quello astratto o intellettuale, la
facoltà dell’ intelletto compie un’ astrazione,
questa è una modalità di pensiero provvisoria che
comporta, letteralmente, il “ trarre” una parte dal
tutto. In questo primo momento, Hegel definisce compiutamente
l’ esito dell’ astrazione della parte
dal tutto attraverso due principi ereditati dalla
tradizione: il principio di identità, per cui l’ elemento
astratto è uguale a sé stesso, e il principio di non
contraddizione, per cui è impossibile che
l’ elemento astratto sia e insieme nello stesso tempo
non sia ciò che è. Da questi due principi si
ricava l’ assoluta diversità e si conferma la rigida
separatezza di una determinazione rispetto ad ogni
altra.
Nel secondo momento, quello dialettico o negativo razionale,
si definisce ancora la parte come
indipendentemente dal tutto ma, per fare ciò, la si
pone in contrasto con tutto il resto (omnis
determinatio est negatio, sosteneva a proposito Spinoza). Si
chiama dialettico perché con esso si
pone in relazione, anche se in termini di negazione,
la parte con tutto il resto ed e razionale perché,
a differenza del primo momento, non è l’
intelletto-statico ma la ragione-dinamica che agisce come
movimento, rapportando la singola parte al tutto.
Nel terzo momento, quello speculativo o positivo
razionale, la ragione esercita una capacità più
complessa: la speculazione. Rapporta in maniera
positiva l’ elemento (ossia la parte finita) a tutto
ciò che nel secondo momento gli era stato opposto,
individuandone ed affermandone i legami.
Questo terzo momento si chiama Aufhebung, in quanto compresenza di conservare e
togliere: si
toglie la negazione del secondo momento e si conserva
la relazione, cioè l’ aspetto dialettico.
Questi tre momenti sono chiamati tesi (affermazione),
antitesi (negazione) e sintesi (riaffermazione
potenziata del positivo, mediante la negazione del
negativo). Lo sviluppo di tesi antitesi e sintesi
tende a ripetersi, la sintesi diventa la tesi di una
successiva triade e così via.
Questa successione ha posto il problema se la
dialettica sia un processo che si conclude oppure se
resta aperto ad uno sviluppo infinito. In realtà a
questa domanda risulta complesso rispondere in
maniera univoca. Da un lato si potrebbe ritenere che
la dialettica, come processo evolutivo, non
abbia una fine. Dall’ altro, però, la Destra hegeliana
sostiene che la dialettica sia un processo finito,
mentre la maggior parte degli esponenti della Sinistra
la considera un processo infinito (ad
esclusione dell’ ala giacobina che sostiene che si
concluda subito dopo la rivoluzione).
La filosofia di Hegel è chiamata sistema, in quanto è
un insieme di parti articolate in modo
organico. Il filosofo, nell’ Enciclopedia, ritiene che il farsi dinamico dell’Assoluto
passi attraverso
tre momenti dell’ idea:
- l’ idea in sé e per sé (o Idea pura)
- l’ idea fuori di sé (o Idea nel suo esser altro)
- l’ idea che ritorna in sé (o Spirito)
L’ idea in sé e per sé guarda al tutto considerandone
però la sola intrinseca razionalità, intesa come
la sua ossatura logico-razionale.
L’ idea fuori di sé considera ciò che non si palesa
come razionale, astraendo dal binomio ragione
realtà la mera realtà.
Infine nell’ idea che ritorna in sé si verifica la
composizione del tutto originario, arricchito questa
volta dal pensiero.
A questi tre momenti Hegel fa corrispondere le tre
sezioni in cui, nel sistema, si divide il sapere
filosofico: la Logica o scienza dell’ idea in sé e per
sé, la Natura o scienza dell’ idea fuori di sé e lo
Spirito o scienza dell’ idea che ritorna in sé.
La Logica mette in luce gli aspetti razionali del
tutto essendo costituita essa stessa da concetti che
sono sia leges mentis (leggi del pensiero) che leges entis (leggi della realtà). La logica si tripartisce
in: dottrina dell’ essere, dottrina dell’ essenza e
dottrina del concetto.
La Natura si caratterizza per l’ ambiguità in quanto,
contemporaneamente, appare positiva e
negativa. La sua negatività consiste nell’ essere
spogliata dell’ idea: per questo essa è mero caos,
contingenza e casualità, essendo priva di quella
razionalità che le conferiva ordine e necessità. La
sua positività consiste, invece, nell’ essere
necessaria ai fini del sistema hegeliano. Essa si suddivide
in meccanica, fisica e organica.
La Filosofia dello Spirito per disciplinare la realtà,
si suddivide in spirito soggettivo, oggettivo e
assoluto. Nello spirito soggettivo, in primo luogo, si
guarda agli aspetti biologici e fisiologici
dell’ uomo (antropologia) poi agli aspetti legati alla
formazione, educazione ed dell’ individuo
(fenomenologia) ed infine alla sintesi di questi due
aspetti (psicologia). Nello spirito oggettivo si
guarda, in primo luogo, alle leggi dello Stato che
sono esterne all’ individuo (diritto), poi alla singola
coscienza umana (moralità) e infine alla sintesi di
questi due aspetti (eticità). Al fine di concentrarci
sulla razionalità hegeliana ci dedichiamo in modo
particolare all’ ultima parte della filosofia dello
Spirito: lo spirito assoluto. Esso costituisce il
momento in cui l’ idea si riconosce nella propria
infinità. Tale autosapersi assoluto dell’Assoluto è il
risultato di un processo costituito da tre fasi
successive e progressive: arte, religione e filosofia.
Esse hanno uguale contenuto (l’Assoluto) ma
differenti forme.
L’ arte manifesta l’Assoluto in maniera imperfetta,
attraverso l’ intuizione sensibile. L’ uomo acquista
la consapevolezza di sé e di situazioni che lo
riguardano mediante forme sensibili che, in quanto
tali, sono manchevoli e imperfette. La religione, pur
avendo il medesimo contenuto dell’ arte, lo
esprime in una forma diversa, ovvero tramita la
rappresentazione intellettuale, e guarda alla vita
dello Spirito identificando i suoi aspetti come fra
loro separati. La filosofia dice l’ assoluto e la realtà
processuale attraverso il concetto di ragione. Essa è,
contemporaneamente, il dire l’Assoluto e
l’Assoluto stesso e, come l’Assoluto, anch’ essa
diviene attraverso le tappe della storia della
filosofia, considerata da Hegel come coincidente con
la filosofia stessa. Attraverso queste
successive fasi del pensiero filosofico, poste in
termini di tesi, antitesi e sintesi, l’ assoluto acquista
una sempre e crescente consapevolezza di sé. La
filosofia è perciò l’ idea che pensa a se stessa e, in
quanto tale, per esistere, esige la dimostrazione del
suo contenuto come necessario; essa, perciò,
sancisce la necessità stessa dell’Assoluto, in quanto
suo contenuto.
Diviene necessario, definita la filosofia e il suo
contenuto, esplicitarne anche la “ funzione
giustificatrice” che costituisce la terza ed ultima
tesi di fondo del sistema hegeliano. La filosofia
agisce come “ la nottola di Minerva” che spicca il suo
volo quando il giorno è concluso. Fuor di
metafora, la filosofia prende atto della realtà dopo
che il binomio razionalità-realtà si è costituito, al
fine di esplicitare l’ intrinseca razionalità del
tutto.
Hegel illustra le prime due tesi di fondo del suo
sistema (“ identità di ragione e realtà” e “ risoluzione
del finito nell’ infinito” ) non solo nella Fenomenologia dello Spirito (testo costituito da due parti,
scritto nel 1806 e pubblicato nel 1807) ma anche nell’
Enciclopedia, però in maniera diversa. Nel
primo testo, egli illustra la via, il percorso che la
coscienza umana ha dovuto percorrere per
giungere ad essere consapevole di sé come finito che
si risolve nell’ infinito e razionalità
coincidente con la realtà; la sua prospettiva è
tendenzialmente diacronica. Nel secondo testo, invece,
si sforza di dimostrare come le due tesi di fondo
siano in atto, sussistendo in tutti gli aspetti del
reale; la sua prospettiva in questo caso è soprattutto
sincronica.
Nella prima parte della Fenomenologia, costituita da coscienza, autocoscienza e
ragione, egli
illustra come la coscienza umana diventi consapevole
di sé, cioè autocoscienza, mediante un
conflitto con altre coscienze. Al termine di questa
prima parte della Fenomenologia, l’ autocoscienza
riemerge come ragione ma si tratta ancora di una
ragione limitata, quella di un solo individuo; per
cogliere l’ unione di individuo con la comunità è
necessario giungere alla fine della seconda parte
della Fenomenologia che è costituita da Spirito, Religione e Sapere Assoluto.
Nel sistema, Hegel giunge a dire che il pensiero
razionale maturo coincide con la razionalità che è
nelle cose. Il duplice valore della dialettica, che è
sia legge logica che ontologica, lo si può
evidenziare dicendo che l’ uomo giunge alla conoscenza
della verità solamente nel momento in cui
la verità giunge a prendere coscienza di sé. Questo
fatto è evidenziato dalla frase di Hegel “ Il vero è
l’ intero” , contenuta nella prefazione alla Fenomenologia dello Spirito: essa significa che la verità si
ottiene solamente nel momento in cui si guarda all’Assoluto,
non solo in senso sincronico e quindi
alle sue parti, ma anche nel suo sviluppo in senso
diacronico. Nella Fenomenologia si sottolinea il
fatto che la coscienza di sé nel mondo si ha solo
quando la realtà prende coscienza di sé.
Schopenhauer
Schopenhauer si pone come punto di incontro di
esperienze filosofiche diverse. Le sue radici
culturali sono, da un lato, Kant e Platone e, dall’
altro, il pensiero degli ideologues francesi, filosofi
sensisti e materialisti che tendono a ridurre la
dimensione umana e spirituale alle sue basi
fisiologiche.
Nel suo pensiero possono individuare, inoltre, alcuni
richiami al Romanticismo per quanto riguarda
l’ irrazionalismo e la grande importanza attribuita
all’ arte e alla musica, e numerosi riferimenti al
pensiero orientale soprattutto nella scelta di alcuni
termini come nirvana e velo di maya., che nel
complesso aprono la filosofia occidentale al
contributo di tradizioni diverse.
Da Kant, Schopenhauer eredita alcuni aspetti, mentre
altri li stravolge. Rifacendosi alla 1ª edizione
della Critica della Ragion Pura del 1781, Schopenhauer tratta del fenomeno
non come oggetto
della percezione, ma come mera parvenza. Lo chiama
velo di maya e, in un passo tratto dagli
antichi testi dei Veda e dei Purana, lo paragona ad un
sogno, all’ effetto di un miraggio, come una
corda che, gettata per terra, viene confusa con un
serpente. Mentre per il criticismo il fenomeno è
l’ oggetto della rappresentazione, che esiste fuori
della coscienza e che viene appreso tramite una
serie di forme a priori, per Schopenhauer è una rappresentazione che esiste solo dentro la
coscienza.
La coscienza è chiamata da Schopenhauer
rappresentazione ed essa è costituita da due poli
inscindibili fra loro, il polo soggettivo e il polo
oggettivo: il soggetto rappresentante da un lato e
l’ oggetto rappresentato dall’ altro. Questi due poli
hanno pari importanza e le filosofie che
privilegiano l’ uno o l’ altro polo sbagliano (l’
idealismo privilegia il soggetto e il materialismo
l’ oggetto). Appartiene al polo soggettivo la mente o
cervello che contiene le forme a priori che sono
tre: spazio, tempo e causalità (sono in numero
inferiore rispetto a Kant e Schopenhauer non
propone una suddivisione tra sensibilità e
intelletto). Le forme a priori di spazio e tempo consentono
agli uomini di percepire gli enti nella loro
molteplicità e divisibilità. La causalità è la forma a priori
che ci permette di individuare le relazioni casuali
tra gli oggetti, di dare un senso logico ai fatti che
avvengono e di spazializzare e temporalizzare gli
oggetti. Per quanto riguarda la rappresentazione,
si può concludere dicendo che l’ uomo deve acquisire
la consapevolezza che il mondo non è altro
che l’ insieme delle sue rappresentazioni; il termine
rappresentazione sta proprio ad indicare il fatto
che tutto ciò che esiste, esiste solo per il soggetto
che lo percepisce.
Al fenomeno Schopenhauer contrappone la cosa in sé o noumeno, che non è un concetto-limite che
serve a rammentare i confini della conoscenza, come in
Kant, ma una realtà assoluta che si
nasconde dietro l’ ingannevole trama del fenomeno. A
differenza di Kant, il noumeno è accessibile
ai filosofi ossia a tutti coloro che sono definiti “
animali metafisici” : essi, in quanto dotati di
coscienza, si pongono delle domande sul senso del
mondo.
Schopenhauer chiama il noumeno volontà di vivere e la via di accesso al noumeno è il corpo,
come
sottolinea in un suo noto frammento tratto da Il mondo come volontà e rappresentazione del 1818:
“ se noi fossimo soltanto teste d’angelo alate senza corpo non potremmo mai
accedere alla cosa in
sé” . La volontà di vivere ha alcune caratteristiche fondamentali: è
inconscia, unica, eterna, incausata
e senza scopo. E’ inconscia, in quanto non può
identificarsi con la rappresentazione del mondo; la
volontà di vivere è opposta alla razionalità: è
irrazionale e risponde ad un’ istanza che è unicamente
il “ vivere per vivere” . E’ unica in quanto è la
negazione della molteplicità e della divisibilità, è unità
che va al di là di qualunque principio di
individuazione delle cose. E’ eterna perché si sottrae alla
forma a priori del tempo. E’ incausata, in quanto le
tre forme a priori della rappresentazione sono
negate. E’ senza scopo perché, a differenza della
razionalità che persegue fini ed è quindi dotata di
senso, è negatrice di qualsiasi teleologia. La volontà
di vivere si configura come un cieco ed eterno
impulso, di cui tutto ciò che esiste è manifestazione
od oggettivizzazione. Essa però possiede una
sua astuzia: i fini degli individui, i quali pensano
di agire in vista di scopi ch’ essi stessi si
pongono, in realtà vengono fatti convergere tutti
entro l’ unico obiettivo che la volontà persegue:
voler vivere.
Da Platone, Schopenhauer ricava il concetto di idee;
esse sono la prima e immediata
oggettivizzazione della volontà, ovvero l’ insieme
degli archetipi delle cose. Schopenhauer vuole
dimostrare come dal noumeno si siano definiti tutti
gli enti (piramide cosmica). Egli sostiene che la
volontà di vivere si scinda, ad un primo livello, in idee
o archetipi e, ad un secondo livello, si diano,
con l’ oggettivizzazione della volontà di vivere, i
singoli enti.
Dal pensiero degli ideologues il filosofo eredita l’ utilizzo di alcuni termini legati all’ ambito
scientifico e dall’ Illuminismo lombardo di Pietro
Verri è probabile che tragga la concezione del
dolore come movimento, motore del mondo, contrapposto
al piacere che invece è cessazione del
movimento e quindi del dolore. Ma il piacere non ha
una sua autonomia; per usare dei termini
aristotelici: se il dolore è la sostanza, il piacere è
un suo accidente. La volontà di vivere è brama,
desiderio è percezione di qualcosa che manca, che
genera il bisogno, il senso del vuoto e, infine, il
dolore. Dalla constatazione che essere corrisponde a
dolore, deriva il pessimismo metafisico di
Schopenhauer, secondo il quale l’ universo è solo
volontà inappagata ossia il teatro di una vicenda di
cui la sofferenza costituisce la legge immanente. Essa
coinvolge tutte le forme di vita, in particolare
l’ uomo, che, essendo l’ essere dotato di maggiore
intelligenza, è destinato a soffrire di più.
Schopenhauer indica però le vie di liberazione dal
dolore, le tappe attraverso cui l’ uomo cerca di
liberarsi dalla volontà di vivere: l’ arte, la morale
e l’ ascesi.
L’ arte è la contemplazione delle idee, ossia la
conoscenza pura e disinteressata degli aspetti
universali ed immutabili della realtà. Proprio per
questo suo carattere contemplativo e per questa
sua capacità di dirigersi verso un mondo di forme, l’
arte libera l’ individuo dai desideri e dai bisogni.
La forma artistica più elevata ch’ egli individua è la
musica. Tuttavia, viene spontaneo chiedersi
com’ è possibile liberarsi dalla volontà di vivere
proprio con la musica, che ci pone a diretto
contatto con le radici stesse del vivere, che è pura
sofferenza.
L’ arte costituisce infatti solo un primo livello. Ad
un secondo livello Schopenhauer colloca la
morale, che non fonda sulla ragione ma sul sentimento
di pietà o di compassione nei confronti del
prossimo. La pietà si concretizza in due virtù: la
giustizia e la carità. La giustizia pone l’ accento sul
fatto che non si debbano compiere determinate azioni,
mentre la carità è la spinta verso
l’ edificazione del bene. La compassione mette nella
condizione di sentire insieme agli altri il dolore,
ma questo ancora non basta.
Ad un terzo livello, Schopenhauer colloca l’ ascesi.
Essa è l’ esperienza per la quale l’ individuo,
cessando di volere la vita e il volere stesso, si
propone di estirpare il proprio desiderio di esistere, di
godere e di volere mediante una serie di accorgimenti,
al culmine dei quali sta il nirvana.
Ne Il mondo come volontà e rappresentazione Schopenhauer riflette dunque sull’ irrazionalità che
governa noumenicamente le cose e che si cela al di
sotto del fragile ed ingannevole velo della
rappresentazione razionale. Scrive infatti che: “ come il mondo è da un lato, in tutto e
per tutto,
rappresentazione, così è, dall’altro
lato, in tutto e per tutto, volontà” .
Dapprima egli demarca con un netto dualismo la ragione
dalla volontà. Quindi risolve il dualismo
tutto a favore dell’ irrazionalità prepotente e cieca
della brama di vivere che soverchia ogni fragile
forma di razionalità. Alla condanna della ragione
giunge nuovamente quando coglie il non senso
della voluntas. A questa stessa negazione del senso dell’ essere conduce, del resto,
anche l’ unica
effettiva modalità per liberarsi dal dolore, che
risiede come si è visto, nell’ azzeramento della
volontà che apre al nulla.
In sintesi, si potrebbe concludere che, con la
negazione della ragione, si dissolve anche la poliedrica
varietà del reale che soltanto la rappresentazione
permette di cogliere. Ciò che resta è il vuoto
ineffabile del non essere. Ed il nulla di senso delle
cose o è accolto (positivamente) tramite l’ ascesi,
oppure è totalmente subito, a conferma dell’
inestirpabile sofferenza universale.
Marx
Il tema della razionalità in Marx affonda le sue
radici in un’ opera giovanile, Critica alla filosofia
hegeliana del diritto pubblico del 1843, ove Marx si contrappone al
giustificazionismo hegeliano.
Hegel, nel cui sistema filosofico pone la coincidenza
di essere e dover essere, inverte l’ ordine che
dal concreto (soggetto) porta all’ astratto
(predicato). Egli perciò fa precedere all’ aspetto concreto e
pratico quello concettuale ed ideale. La filosofia
hegeliana, infatti, svolge una funzione analoga alla
nottola di Minerva, secondo la nota metafora di Hegel: il
suo fine appare soprattutto giustificativo
nei confronti del reale e volto a confermare l’
identità fra ragione e realtà.
Marx, invece, allontanandosi dall’ idealismo
hegeliano, assegna alla filosofia un ruolo attivo, che si
traduce nella prassi politica e rivoluzionaria,
ristabilendo quell’ ordine dal concreto all’ astratto che
Hegel, con il suo misticismo logico, aveva
precedentemente invertito.
Nei Manoscritti economico-filosofici del ’ 44 Marx affronta il tema della
razionalità
concretizzandola nel lavoro, in quanto attività caratterizzante la specie umana. E’ il lavoro infatti
che permette all’ uomo di distinguersi dagli altri
animali, conferendo a lui solo la capacità di
conformare la realtà circostante e di organizzarla in
vista del soddisfacimento dei propri bisogni
materiali.
L’ umanesimo di Marx rifiuta la scissione prodotta dal
capitalismo tra chi progetta ma non produce e
chi produce ma non è al corrente del progetto. Nella
moderna società capitalistica questa scissione
trova conferma nel rapporto di alienazione. L’ alienazione va intesa come
smarrimento dell’ integrità
umana, per cui l’ uomo non è più mani e ragione, ma
soltanto l’ una o l’ altra di queste due
dimensioni.
Alienato è il lavoro che non rinvia all’ uomo che lo
compie come al proprio fine.
Il lavoro ripetitivo, forzato e unilaterale, che
riduce l’ uomo a puro strumento di produzione,
comporta che si dia alienazione anche nei confronti
del wesen, cioè nei confronti del
riconoscimento del tratto specifico della specie
umana, la cui prerogativa è il lavoro libero e
creativo.
Il vero umanesimo si realizzerà soltanto col comunismo
evoluto, di cui Marx parla nei Manoscritti
economico-filosofici e nella Critica al programma di Gotha del 1875, ove prospetta l’ idea di un
uomo onnilaterale e totale, che realizza in modo creativo
l’ insieme delle sue potenzialità, in un
rapporto pluridimensionale con la realtà e gli altri
uomini.
Siamo molto distanti da una razionalità
intellettualistica e astratta.
La razionalità si esemplifica anche nella critica
condotta dal filosofo contro la presunta autonomia
ed indipendenza delle dottrine teoriche e delle
scienze dall’ aspetto economico. Marx infatti,
nell’ Ideologia Tedesca, definisce la struttura economica come quell’ impianto su cui si regge la
società in un dato periodo storico; rapporti
giuridici, politico-istituzionali, l’ etica, la religione e la
cultura altro non sono che una sovrastruttura, prodotto di determinazioni strutturali
date, quindi di
specifiche condizioni economiche. Con il termine sovrastruttura Marx intende sottolineare proprio
questo rapporto di dipendenza dei fenomeni
politico-culturali dalla base economica, pur non
riducendo l’ importanza di questi ultimi.
Non è perciò la coscienza degli uomini che determina l’
essere ma, al contrario, l’ essere sociale che
influisce sulla coscienza stessa.
Da quanto detto, emerge chiaramente come il termine materialismo, introdotto da Marx, denoti una
dottrina in base alla quale le vere forze motrici
della storia non sono date da leggi metafisiche di
stampo idealistico. Il processo storico è mosso da
forze di matrice socio-economica, che risiedono
dunque nella struttura.
Marx sostiene, perciò, che in un’ epoca storica
determinata si dia una netta specularità tra forze
produttive e rapporti di produzione, in base alla legge della corrispondenza. Tuttavia, in certi
momenti, il dinamismo e l’ aggressività delle forze
produttive ha incrinato questo rapporto di
corrispondenza. In questo caso si ha quindi la legge della contraddizione che porta inevitabilmente
ad un cambiamento radicale: la rivoluzione, in cui le
nuove forze produttive impongono le proprie
leggi e la propria visione del mondo ai “ vecchi”
rapporti di proprietà.
Marx ed Engels individuano perciò quattro grandi formazioni economico-sociali in cui il passaggio
dall’ una all’ altra è determinato proprio dalla legge
della contraddizione. Esse sono:
- la società asiatica
- la società antica
- la società feudale
- la società borghese
A queste quattro fasi Marx ed Engels aggiungono,
specularmente, ancora una premessa, il
comunismo originario, ed una conclusione, il comunismo
futuro.
Rispetto ad Hegel, Marx presenta un più articolato
processo dialettico in cui si dà una tesi iniziale (
comunismo originario), un’ antitesi (quattro
formazioni economico-sociali intermedie) ed una sintesi
(comunismo futuro).
A differenza di Hegel, Marx individua il soggetto di
questo processo nelle comunità umane, parla
di fasi storiche empiricamente osservabili (anche se
occorre fare eccezione per il primo e ultimo
comunismo) ed infine attribuisce un diverso valore
alla sintesi, non riconoscendone il carattere
pacificatore e mediatore riscontrabile in Hegel.
Heidegger
Heidegger nella sua riflessione riconosce ampio spazio
alla tecnica, che viene intesa come
metafisica realizzata. In questo senso essa appare la
concretizzazione del nichilismo ossia il
compimento di quella forma di pensiero che riduce l’
essere al nulla.
L’ indagine di Heidegger non verte sulle
manifestazioni della tecnica, ma sulla sua essenza. La
tecnica è “ un modo del disvelamento” dell’ ente ( La questione della tecnica), che toglie il velo alla
verità.
Per Heidegger occorre guardare alla tecnica
distinguendo due diversi momenti storici:
a. L’ età dei greci: in cui essa si poneva come pro-duzione, ossia come mezzo per rendere
manifesto (o dis-velato) ciò che prima non era tale, costituendo una sorta di accelerazione
dei processi che già si davano in natura.
b. L’ età moderna: in cui la tecnica viene vista come pro-vocazione, in quanto è un trarre fuori
dalla natura l’ energia che viene accumulata,
immagazzinata, per essere poi impiegata.
In altri termini, per la tecnica degli antichi si
tratta di pro-durre, quindi assecondare ciò che già in
natura si dà, anche se non in maniera del tutto
visibile: per questo aspetto, il compito della tecnica
si limita a favorire l’ opera della natura e a
seguirla nei suoi autonomi meccanismi
La tecnica dei moderni, invece, si traduce nel
pro-vocare, quindi nell’ operare in maniera
impositiva, forzando ciò che in natura è nascosto: su
questo piano, la tecnica si configura come
un’ accumulazione di energia naturale messa a
disposizione dell’ uomo. Il diverso disvelamento tra
mondo antico e mondo moderno può essere chiarito
considerando, ad esempio, il modo in cui,
nell’ età antica, il contadino che semina compie un
gesto che si limita ad esortare il potenziale di
crescita e di sviluppo di cui è capace la natura. La
provocazione dell’ età moderna, invece, toglie il
segreto da ciò che si è accumulato in natura,
immagazzinandolo o indirizzandolo per altri usi.
A questo proposito scrive Heidegger che: “ Il disvelamento che vige nella tecnica
moderna è una
provocazione (….). Ma questo non vale
anche per l’antico mulino a vento? No. Le sue ali girano sì
spinte dal vento, e rimangono dipendenti
dal suo soffio (…). il mulino a vento non ci mette a
disposizione le energie delle correnti
aeree perché le accumuliamo. All’opposto, una determinata
regione viene provocata a fornire all’attività
estrattiva carbone e minerali. La terra si disvela ora
come bacino carbonifero, il suolo come
riserva di minerali. In modo diverso appare il terreno che
un tempo il contadino coltivava, quando
coltivare voleva ancora dire accudire e curare [ossia
quando l’agricoltura non era ancora
industria meccanizzata]. L’opera del contadino non pro-voca
la terra del campo. Nel seminare il grano
essa affida le sementi alla forza di crescita della natura
e veglia sul loro sviluppo” .
Aggiunge in un passo successivo Heidegger: “ La centrale idroelettrica non è costruita
nel Reno
come l’antico ponte di legno che da
secoli unisce una riva all’altra. Qui è il fiume invece, che è
incorporato nella costruzione della
centrale. Esso è ciò che ora, come fiume, è, cioè produttore di
forza idrica in base all’ essere della
centrale. Per misurare sia pur approssimativamente tutta
l’ enormità inquietante che qui domina,
prestiamo attenzione per un momento al contrasto che si
rivela tra le espressioni ‘Il Reno?
Inteso come fiume incorporato nella centrale, e ‘Il Reno’ detto di
un’opera d’arte, l’ inno di Hölderlin che
porta questo titolo. Si obietterà che il Reno rimane pur
sempre il fiume di quella regione. Può
darsi, ma come? Solo come oggetto ‘impiegabile’ per le
escursioni organizzate da una società di
viaggi che vi ha messo su una industria delle vacanze” ( La
questione della tecnica).
In questa citazione, Heidegger usa il termine “
accumulare” , ma a cosa fa riferimento? Nell’ età
antica non si parla assolutamente di “ accumulare” ,
bensì di “ disvelare” ciò che prima non era tale;
questo termine infatti viene usato nell’ età moderna
dove, egli afferma, vi è un suolo che è diverso in
quanto non è più ciò che appare, ma è riserva di
minerali, è fondo. La natura, con la tecnica, diventa
così fondo, cioè riserva. Heidegger afferma quindi che la natura tutta è fondo utile per far fruttare
altro da sé. Possiamo dire quindi che la phýsis è assoggettata al principio di utilizzabilità totale.
Questo diverso approccio al problema porta Heidegger a
capovolgere il tradizionale rapporto fra
scienza e tecnica: “ Il modo corrente di rappresentarsi il rapporto tra
scienza della natura e tecnica
dovrebbe essere capovolto: non è la
scienza della natura il fondamento della tecnica, bensì è la
tecnica moderna il tratto fondamentale (…)
della scienza moderna della natura” (Linguaggio
tramandato e linguaggio tecnico).
Scienza e tecnica appaiono come due aspetti
interdipendenti e strettamente correlati di quell’ unico
fenomeno globale che è la pro-vocazione: “Questo capovolgimento, tuttavia, sebbene
si avvicini
alla cosa, non ne coglie il nucleo” (Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico).
Persino l’ uomo, attraverso la tecnica, ha smarrito la
sua essenza; perciò egli non è più l’ essere che
entifica l’ ente perchè è quest’ ultimo che assoggetta
l’ essere dell’ uomo. Infatti l’ uomo, che da
sempre ha avuto il compito di svelare l’ essere, nel
mondo trasformato della tecnica ha esaurito il
senso più profondo di sé. Ciò è avvenuto nel momento
in cui l’ ente ha operato sull’ essere dell’ uomo
che, allora, è divenuto nulla. L’ oggettività dell’
ente soverchia la facoltà che l’ essere ha di
trascendere l’ ente stesso.
Heidegger parla della tecnica come d’ un processo su
cui l’ uomo, tuttavia, non ha alcun potere. Il
filosofo sentenzia che: “ La tecnica nella sua essenza è di per sé
qualcosa che l’uomo non è in
grado di dominare” (Ormai solo un dio ci può salvare). In maniera ancor più incisiva egli
afferma
inoltre che: “ L’uomo non ha in mano la tecnica. Egli è giocattolo di
quest’ultima” (Seminari).
Nel mondo della tecnica alberga un pericolo, che non
proviene dagli effetti mortali che possono
avere le macchine, ma dal fatto che, a causa della
tecnica, può andare smarrita sia l’ essenza
dell’ uomo sia l’ essenza della verità. L’ essenza
dell’ uomo, come tale, non è più nulla in quanto la
sua funzione di pastore dell’ essere e di custode della verità si riduce ad una sola modalità di
svelamento. L’ uomo limita la sua essenza all’
esclusivo compito di impiegare e di amministrare il
fondo, ossia l’ energia che precedentemente ha
accumulato, trasformato e ripartito. Ovunque
procede, egli pensa di non incontrare che se stesso
ma: “ in realtà, tuttavia,
proprio se stesso l’uomo
di oggi non incontra più in alcun luogo;
non incontra più, cioè, la propria essenza” (La questione
della tecnica). L’ uomo, che ha ridimensionato il suo
compito al padroneggiamento totale dell’ ente,
sconfina nella dimenticanza dell’ essere. L’ oblio
dell’ essere assume l’ aspetto dell’ incontrastato
dominio della volontà di potenza. Quando essa si afferma, e ciò avviene – come si è
detto- con la
tecnica, allora l’ uomo nullifica l’ essere. E’ questo
il motivo per cui si dice che la tecnica, in quanto
metafisica realizzata, coincide col nichilismo.
“Ma là dove c’ è il pericolo, cresce anche ciò che salva” (La questione della tecnica).
Con queste parole Heidegger relaziona l’ avvento dell’
estremo pericolo con il palesarsi d’ una
possibile salvezza. Egli pare intenda sostenere che la
tecnica, in quanto pericolo supremo, contiene
in se stessa anche una possibilità suprema di salvezza
per l’ uomo. Si afferma la necessità che
l’ uomo si ponga in uno stato di attesa: solo così può per riacquistare la facoltà
di arginare
nuovamente il nichilismo. Si tratta infatti di
permettere che sgorghino nuovamente le domande
fondamentali della filosofia, quelle che hanno dato
inizio alla metafisica. Sono le domande che
nascono quando il pensiero esprime una qualità di
pensare diversa: “ perché il domandare
è la pietà
del pensiero” (La questione della tecnica). E’ un pensiero che esprime l’
insofferenza verso la
razionalità strumentale della scienza e delle sue applicazioni in
campo tecnico.
Di contro al pensiero calcolante, Heidegger manifesta
l’ esigenza d’ una riflessione dalla quale
emerga l’ istanza di mantenere vivo il problema dell’
essere, di coltivare la memoria di ciò che va
considerato prima d’ ogni altra cosa.
A questo proposito Heidegger evoca la poesia: essa
declina il linguaggio con immagini che non
sono solo schemi prevedibili e facili, ma che
contengono in sé un modello implicito e diverso di
ratio, un altro modo di fare filosofia. Il pensiero
filosofico esplicito si interrompe per lasciare spazio
alla forza della poesia, al sentimento che pure è
compreso nella ragione che conosce. Scrive
Heidegger nel testo In cammino verso il linguaggio che: “Ogni meditante pensare è poetare, ogni
poetare è un pensare. Pensiero e poesia
si coappartengono” .
Entro questa luce, si intuiscono i molteplici
riferimenti all’ uso del mito, della poesia e dell’ arte. Essi
offrono una possibilità di soluzione a chi abbia
incontrato ostacoli lungo il proprio cammino. I
sentieri interrotti a causa delle insufficienze del linguaggio
logico-matematico sono oltrepassati dal
linguaggio poetico. Se la razionalità filosofica all’
improvviso s’ interrompe, “ ciò che resta, lo
istituiscono i poeti” perché “ il destino del mondo si annuncia nella
poesia” (Lettera
sull’umanesimo). E’ la parola poetica che permette di
approssimare l’ essenza delle cose e di dare
espressione alle intuizioni originarie di un popolo,
tramite quel linguaggio che in passato veniva
posto al di fuori della riflessione razionale.
La razionalità, da sola, non arriva a cogliere l’
essere, perché si limita a spogliarlo ed a smembrarlo
nelle singole scienze in cui si specifica. Soltanto il
linguaggio poetico è l’ autentica dimora
dell’ essere. L’ interpretazione filosofica della
natura infatti non si identifica più con il metodo
razionale e strumentale della scienza, perché essa ha
perso il carattere di eccellenza che la tradizione
le aveva affidato. Per il secondo Heidegger, dunque, “
la poesia è
istituzione in parola dell’ essere”
(La poesia di Hölderlin). Il compito del pensiero consiste allora nell’ ascoltare il linguaggio, che
diventa il centro dell’ intera ricerca filosofica.
Jonas
La tipologia di ragione a cui il filosofo tedesco
Jonas fa riferimento può essere esaminata
soprattutto nel suo testo più noto, intitolato Il principio responsabilità. Ricerca di
un’ etica per la
civiltà tecnologica del 1979. In questo studio, la razionalità
è strettamente legata ad un fenomeno
dell’ età moderna: il “ prometeismo” , ovvero quell’
atteggiamento tipico dell’ uomo occidentale, che
in virtù dell’ equivalenza baconiana tra sapere e
potere, scopre, promuove e utilizza le innovazioni
tecniche e scientifiche che elabora nel corso del
tempo.
Il “ prometeo scatenato” (da intendersi come l’
irresistibile ascesa della tecnica, rafforzata dal
pensiero scientifico e sostenuta dagli investimenti
dell’ economia) si connota mediante una
razionalità aggressiva e imponente, che abbisogna di
essere limitata attraverso un’ etica mirata. Il
compito di questa nuova etica consiste nel regolare l
'utilizzo della tecnica, affinché questa non si
trasformi in una forma di autodistruzione e non
produca sventure irreversibili per l’ uomo stesso, il
quale crede invece, grazie ad essa, di dominare
totalmente la natura ed ogni altro essere vivente per
piegarli a proprio vantaggio.
Inoltre, secondo Jonas, la tecnica moderna costituisce
una minaccia non solo per il mondo fisico,
ma anche per lo stesso corpo umano, poiché essa appare
interamente tesa al raggiungimento ad ogni
costo della felicità dell’ uomo. Scrive infatti il
filosofo che: “ Il Prometeo
irresistibilmente
scatenato, al quale la scienza conferisce
forze senza precedenti e l’ economia imprime un impulso
incessante, esige un’ etica che mediante
auto -restrizioni impedisca alla sua potenza di diventare
una sventura per l’uomo. (…) La
sottomissione della natura finalizzata alla felicità umana ha
lanciato con il suo smisurato successo,
che coinvolge ora anche la natura stessa dell’uomo, la più
grande sfida che sia mai venuta all’
essere umano dal suo stesso agire” (Prefazione a Il principio
responsabilità ).
La nuova etica proposta da Jonas prende le distanza
dalle etiche tradizionali. Fra queste, le più note
e storicamente significative sono quelle
coscienzialistiche, in cui la scelta dell’ agire è legata alla
coscienza del singolo individuo, e la morale kantiana,
il cui ambito d’ azione è a sua volta ridotto
all’ imperativo categorico ed appare pertanto
circoscritto all’ agire del singolo ed alle sue immediate
conseguenze. Pertanto, anche l’ etica kantiana risulta
inadeguata, limitando la sua efficacia al campo
soggettivo e ridimensionando la sua “ eventuale”
universalità nel tempo e nello spazio della singola
azione compiuta.
Il nuovo modello etico di Jonas si pone come il
completamento di quelli precedenti in forza del
principio responsabilità. Si tratta di un principio che deve essere
valido sempre e per tutti gli
uomini e che deve tener conto del rapporto che l’
umanità ha con l’ ambiente in cui vive, compresi
gli animali che in esso dimorano. Inoltre, è
necessario che il principio responsabilità contempli
anche gli effetti dell’ agire umano, proiettandosi
fortemente verso il futuro.
Questa etica deve essere fondata sulla metafisica,
perché il senso del pericolo per gli esseri viventi e
l’ ambiente nasce proprio da domande di tipo
metafisico, come queste: “ che cosa posso sperare?” ,
“ quale sarà il corso storico futuro?” , “ a quale
destino è volta l’ umanità?” , “ perché esiste il mondo?” ,
“ che funzione hanno gli uomini nel mondo?” ed ancora,
nuovamente, “ da dove veniamo e dove
siamo diretti?” .
Scrive Jonas che: “La fondazione di una tale etica, non più legata alla
sfera direttamente
interpersonale del presente, deve
estendersi alla metafisica, a partire dalla quale soltanto si potrà
porre la questione del perché gli uomini
debbano esistere nel mondo, del perché quindi valga
l’ imperativo incondizionato di
assicurare la loro esistenza futura” (Prefazione a Il principio
responsabilità ).
E’ principalmente per queste ragioni che l’ etica di
Jonas poggia su una base extrafenomenica. Il
filosofo recupera infatti il lessico della metafisica
e dell’ ontologia aristotelica.
Jonas formalizza il suo “ imperativo ecologico” in
quattro enunciati:
1. “ Agisci in modo che le conseguenze della tua
azione siano compatibili con la permanenza
di un’ autentica vita umana sulla terra” .
2. “Agisci in modo che le conseguenze della tua azione
non distruggano la possibilità futura di
tale vita” .
3. “Non mettere in pericolo le condizioni della
sopravvivenza indefinita dell’ umanità sulla
terra” .
4. “ Includi nella tua scelta attuale l’ integrità
futura dell’ uomo come oggetto della tua volontà” .
Questo imperativo morale presuppone dunque il ricorso
ad un principio di equilibrio che risulta
vitale per l’ intero pianeta. Ogni ente, in quanto
esistente, possiede infatti, insito in sé, il fine
imprescindibile di conservarsi e sopravvivere. In
questo senso, essere e dover essere allora
coincidono e Jonas pone immediatamente il salto dal
piano ontologico a quello etico.
L’ etica quindi, fondata su un principio di tipo
ontologico e non su un accordo o una convenzione, si
orienta verso la cura ed il mantenimento di tutte le specie viventi.
Tuttavia un tale precetto, di fatto, può anche non
trovare una puntuale o perfetta applicazione. In
questo caso, però, secondo Jonas può intervenire la paura: si tratta dello stato d’ animo che emerge
improvviso, a fronte di urgenze. Il sentimento di
paura che “ non dissuade dall’azione,
ma (…) che
esorta a compierla” funge da istanza euristica: spinge l’
uomo alla ricerca di nuovi e concreti
principi etici che conducano verso il meglio il suo
agire, circoscrivendo la propria volontà di
potenza. Su questo punto, così si esprime Hans Jonas: “La terra vergine della prassi
collettiva, in
cui ci siamo addentrati con l’alta
tecnologia, è per la teoria etica ancora terra di nessuno. In
questo vuoto (che è nel contempo anche il
vuoto dell’odierno relativismo dei valori ) si colloca
l’ indagine qui presentata. Che cosa può
fornire un criterio? Lo stesso pericolo prefigurato dal
pensiero! In questo suo balenarci
incontro dal futuro, nella prefigurazione delle sue estensioni
planetarie e delle sue durevoli
conseguenze sull’uomo, è possibile scoprire alfine i principi etici da
cui sono desumibili i nuovi doveri del
nuovo potere. Definisco ciò ‘euristica della paura’ ”
(Prefazione a Il principio responsabilità ).
Per questo il principio responsabilità, via di mezzo
tra eccesso di speranza ed eccesso di paura, si
pone anche in contrasto con gli “ utopismi prometeici”
posteriori alla rivoluzione scientifica
(“ sapientia est potentia” ) e alla rivoluzione industriale ( “ utopia marxiana” ), che rappresentano
la
massima enfatizzazione della tecnica. “ La dinamica del progresso tecnologico
mondiale in quanto
tale racchiude in sé, tendenzialmente se
non programmaticamente, un utopismo implicito. (…).
Questo impone una critica approfondita
dell’ ideale utopico. Poiché esso ha dalla sua i più antichi
sogni dell’umanità ed ora sembra trovare
nella tecnica anche i mezzi per tradurre in pratica il
sogno, l’utopismo un tempo innocuo è
diventato la tentazione più pericolosa – proprio perché
idealistica – per l’umanità odierna” ( Prefazione a Il principio responsabilità).
Benché critico nelle istituzioni storiche del nostro
tempo e rispetto al livello di discussione ed alle
soluzioni che esse vanno elaborando, Jonas non cade
tuttavia in catastrofismi o nell’ irrazionalismo.
Piuttosto egli mantiene una moderata fiducia nella
razionalità occidentale e nella libertà del
pensiero umano, collocando così il principio
responsabilità nel punto di equilibrio fra gli estremi del
principio speranza Ernst Bloch e dei frequenti rimandi
al pessimismo e alla disperazione di molti
degli apocalittici contemporanei.
La riflessione sulla razionalità in Jonas si può
quindi sintetizzare con le efficaci parole ch’ egli
scrisse nella Scienza come esperienza personale del 1987: “Malgrado tutto la mia speranza poggia
in ultima analisi sulla ragione umana,
quella ragione che si è già dimostrata così straordinaria
nell’ottenere il nostro potere e che ora
deve assumere la guida circoscrivendolo. Dubitare di essa
sarebbe irresponsabile” .
3.PRIME
CONCLUSIONI
Le varie immagini della ragione emerse nella storia
del pensiero appaiono sempre determinate: si
configurano quindi come il prodotto di differenti
visioni del sapere e di concezioni del reale relative
a contesti storico/politici concreti.
Alla ragione, intesa come “ arma della critica” , ci
si appella ad esempio nell’ età dell’ Illuminismo,
quando l’ istanza razionale progetta e costruisce il
sistema del sapere, orienta l’ agire e riconduce
rigorosamente entro i suoi limiti ogni dimensione dell’
umano. Nell’ epoca contemporanea la ragione
ha spesso assunto un volto “ totalitario” , coltivando
l’ ambizione di afferrare e stringere la verità in
senso definitivo. Nel Novecento, infatti, quando la
razionalità ha preteso d’ aver colto il senso e la
direzione della storia, essa ha trovato espressione in
ideologie tanto potenti quanto distruttive.
Ora, di contro a questa concezione che ha perseguito
un modello universale ed unitario di
razionalità, si guarda piuttosto ad alcuni dei suoi
tratti maggiormente distintivi, come l’ esercizio
della critica e la tolleranze verso le tradizioni e le
credenze altrui, che nel passato assai raramente
sono risultati indiscussi e pacifici.
Spogliata della sua presunzione d’ onnipotenza e
infallibilità, la ragione umana resta comunque la
forza di cui l’ uomo dispone per sottrarsi al
disordine e per provvedere alla sua sopravvivenza.
Costantemente condizionata da rapporti sociali,
criteri di scelta e di decisione e da atteggiamenti
ideologici storicamente determinati, la ragione, così
ridimensionata, tende a caratterizzarsi in un
duplice senso.
Da un lato, si riconosce in modelli di razionalità che
entrano in funzione in situazioni date, per
trasformarle o modificarle, permettendo di conseguire
la risoluzione di problemi. Dall’ altro lato, la
ragione, consapevole di non presentarsi mai in “
condizioni di purezza” , si esprime in un linguaggio
particolare, operando in dipendenza di un orizzonte determinato.
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