Albert Camus, une valse à trois temps.
Milosz, Micromega e Berardinelli (primo tempo)
“Tu che hai offeso l’uomo semplice
ridendo sguaiatamente sulla sua sventura
con intorno una corte di buffoni
per confondere bene e male
ridendo sguaiatamente sulla sua sventura
con intorno una corte di buffoni
per confondere bene e male
(…)
non sentirti al sicuro. Il poeta ricorda.
puoi ucciderlo – ne nascerà un altro.
Saranno messi a verbale atti e parole”.
puoi ucciderlo – ne nascerà un altro.
Saranno messi a verbale atti e parole”.
Czeslaw Milosz (1911-2004)
Questo valse à trois temps comincia con un testo di Milosz che ho a lungo inseguito e finalmente trovato in rete e tradotto in questi giorni.
Il secondo passo sarà una lettura ragionata del nuovo numero di Micromega consacrato all’intellettuale Albert Camus.
Il terzo, assai critico, lo dedicherò alla stroncatura che ne ha fatto Alfonso Berardinelli sul Foglio, qualche giorno fa. effeffe
Albert Camus e Il coraggio di dire delle cose elementari
di Czeslaw Milosz
traduzione di Francesco Forlani
Erano forse le spiagge dell’Africa, le sue origini popolari che lo preservavano dalla “cattiva coscienza” borghese? In ogni caso, trattava gli idoli del momento, con una diffidenza di cui pagava il prezzo, perché gli intellettuali non perdonano una tale mancanza di rispetto per speculazioni post-hegeliane .
Camus non sghignazzava. La moda è in quello scherno, ormai tradizionale, diretto contro le buone maniere delle classi irrigidite nella loro stretta morale [...] Per quanto mi riguarda, il sogghigno mi ha sempre infastidito . [...] Al contrario, avevamo bisogno di entusiasmo e slancio [...] Camus non scherniva, il che lo rendeva estremamente vulnerabile agli attacchi applauditi da un pubblico ben addestrato . [...] È per questo motivo che sono sempre stato dalla parte di Camus.
Quel che mi stupisce degli intellettuali francesi è questa loro fede nelle idee generali : basta, credono loro, che un uomo si chiuda a chiave nella sua cameretta e pensi a rigor di logica, per giungere a una comprensione assoluta di ogni cosa, per esempio dei conflitti che si verificano in Ghana, Ungheria, Polonia o in Russia. I risultati mi hanno quasi sempre fatto ridere [ ... ] ho imparato, e non senza difficoltà, che è rischioso pronunciarsi sugli affari interni di un paese di cui non si parla la lingua [...] Mi sorprendevano la facilità e la cosiddetta competenza con cui si discuteva della Cina a Parigi [...]
Avevo l’impressione che Camus appartenesse a una razza ben diversa da quella dei grandi specialisti con scienza infusa che tagliano corto sui problemi del Texas o dell’Indonesia , come se si trattasse di piccoli comuni di periferia. Questo tratto distintivo di Camus, considerato a Parigi come un difetto, lo si motivava con una mancanza di esercizio filosofico . [...]
Questo ci porta dritti alla questione algerina. Io non approvavo del tutto la posizione che aveva preso a riguardo. [...] La posizione di Camus mi ricordava certi strappi interiori che in tanti da noi avevano provato prima dell’ultima guerra . [ L'evocazione dei massacri di popolazioni polacche ad opera dei distaccamenti ucraini armati dai tedeschi ] Anche nel peggiore dei casi, e da entrambe le parti , esseri umani erano disperati dall’intensità dell’odio [...] l’imbroglio (in italiano nel testo) etnico dell’Europa orientale mi è servito a capire le difficoltà di Camus .
Lo stile e i temi di Camus. Per quanto riguarda la sua opera letteraria , confesso che non ho mai amato il suo stile . [Note sul carattere concreto della lingua polacca e la sua tendenza a "un lirismo inquietante"] Ma già al primo contatto, l’opera di Camus aveva per me qualcosa di familiare. [...] Camus era affascinato da Dostoevskij, l’erede delle sette della cristianità orientale. E proprio come Dostoevskij, ha avuto il coraggio di affrontare temi di “cattivo gusto”. [...] La peste è il miglior libro sulle attitudini che si possono avere verso la piaga totalitaria dei tempi moderni. Ma in prima istanza è una meditazione sul dolore degli innocenti. [...] “Lui si prende gioco del dolore delle persone innocenti.” Chi? Jéhovah, il cattivo demiurgo dei manichei [...]
In gioventù, presso l’Università di Algeri, Camus ha presentato una tesi di laurea su Sant’Agostino e mi chiedo se tutto il suo lavoro non fosse, in fondo, teologico. Volentieri interpreterei La caduta come un trattato sulla Grazia ( assente), la cui chiave sarebbe in questa frase : “Le colombe aspettano lassù, aspettano tutto l’anno. Volteggiano sopra la terra, guardano, vorrebbero scendere . [...] Ma non c’è nulla tranne mare e canali [...] ” Credo anche che l’attaccamento commovente di Camus alla memoria di Simone Weil , che lui chiamava ” l’unico grande spirito del nostro tempo ” sorga dal fervore albigese dell’eretica .
La vergogna dell’impotenza. Non era facile per me accettare l’Occidente. [...] Mi dicevo, dopo la guerra: “Probabilmente non hanno imparato nulla, [...] ricominciano il loro stupido gioco, come se non fosse successo niente.” [...] Solo uomini come Albert Camus pesavano sull’ago della bilancia , perché si percepiva in loro un vero e proprio dolore . Nessuno di noi che siamo sopravvissuti alla vergogna dell’ impotenza non ha potuto affrancarsi da quel senso di colpa espresso da un personaggio di Camus : ” Ah ! chi avrebbe mai pensato che il crimine non fosse tanto quello di uccidere quanto quello di non morire per mano propria! ”
Scopro solo ora cosa permettesse allo scrittore Camus di accogliere la sfida dell’epoca dei forni crematori e dei campi di concentramento. Aveva il coraggio di dire cose elementari .
Camus era uno di quegli intellettuali occidentali, poco numerosi, che mi hanno teso la mano quando ho lasciato la Polonia stalinista , nel 1951 , mentre altri mi evitavano come la peste [...] Abbastanza triste per un povero diavolo come me [...] venire presentato dalla stampa come un panciuto borghese in fuga dalla sua patria socialista. Non mi sono stati risparmiati complimenti di questo tipo [...] A destra, nessun linguaggio comune; a sinistra, un grosso equivoco, perché le mie idee politiche erano in anticipo di qualche anno su quella che sarebbe diventata moneta corrente dopo il 1956 .
In una tale situazione tanto scomoda, l’ amicizia riscalda e dà quel minimo di rassicurazione, senza cui ci si esporrebbe da soli a tentazioni nichiliste . Mai gli intellettuali hegeliani capiranno quali conseguenze hanno potuto avere i loro cavilli in termini di rapporti umani , e quale abisso scavavano tra di essi e gli abitanti dell’Est europeo, conoscitori di Marx o meno . La filosofia è una cosa molto carnale : raffredda gli occhi o, come in Camus, introduce nell’uomo la cordialità di un fratello. [...]
1. (Milosz «L’interlocuteur fraternel» in Preuves. Une revue européenne à Paris, n° 110, avril 1960, et Julliard, 1989, p. 385. Repris dans Philosophie Magazine, pp.139-141)
Albert Camus, une valse à trois temps. Milosz, Micromega e Berardinelli (secondo tempo)
di Francesco Forlani
(la prima parte è qui )
Guardo la copertina e penso come abbiano fatto a pubblicarla senza incorrere nella censura dei non fumatori. A Sartre la sigaretta l’avevano tolta da un manifesto, in Francia, qualche tempo fa e a Camus sarà di certo successa la stessa cosa, in questi anni. Et pourtant, ceci n’est pas une pipe, questo non è una pipa, per dirla con Magritte. Quanta intolleranza degli ex fumatori nei nostri confronti, simile a quella degli ex intellettuali di sinistra verso quelli che si ostinano a definirsi, ancora e malgrado tutto, tali!
Quando ho avuto notizia del numero 6 di Micromega, intitolato L’intellettuale e l’impegno, mi sono subito immaginato il fuoco di fila che avrebbe suscitato, l’impazienza compiaciuta con cui i soliti franchi tiratori, ex fumatori, si sarebbero sfregati le mani prima di imbracciare la penna e sistemare il mirino ad altezza bocca. Ne ero certo perchè la mia generazione, ovvero quella degli anni ottanta, nel suo autodafè linguistico, la prima parola che ha eliminato è stata proprio quella: impegno. Alla parola intellettuale ci avevano pensato quelli prima, molto prima.
A tal proposito vorrei riprendere un passaggio di un post scritto qualche tempo fa proprio su Nazione Indiana a proposito dell’incontro tra Albert Camus e Dino Buzzati.
L’unico ad aver colto l’anima di Albert Camus in una fulminante quanto appropriata descrizione è stato Dino Buzzati, quando raccontando (in Cronache terrestri) l’incontro con lo scrittore francese, lo descrive così:
“Grazie a Dio non aveva una testa da intellettuale, ma da sportivo, chiaro, da uomo del popolo, solido, ironico, con bonomia, in un certo senso un viso da garagista.”
che nella traduzione francese diventa:
“Grâce à Dieu, n’était pas celui d’un intellectuel pourri, mais plutôt celui d’un sportif, clair, populaire, solide, ironique et plein de bonhomie, peut-être: une tête de garagiste”
Cherchez l’erreur
Mi soffermo su un particolare, un dettaglio assolutamente non trascurabile. L’italiano intellettuale viene tradotto con intellectuel pourri (marcio), e mai come in questo caso il traduttore ha centrato in pieno il significato. Perché il significato che la parola intellettuale ha in italiano è proprio quello. Dire intellettuale a qualcuno, in Italia, equivale a dire ladro, anzi peggio, perché almeno un ladro se le sporca le mani! In Francia la parola intellectuel incute rispetto, trasmette un valore, e forse da un dettaglio del genere si possono spiegare tante cose sulla differenza tra noi e loro, sul fatto, per esempio che lì, Riforma e Rivoluzione ci sono state mentre da noi soltanto Controriforma e Restaurazione. Tanto per dire.
Questa premessa mi sembra necessaria per capire come e perché l’attenzione rivolta da una delle storiche riviste della sinistra italiana all’affaire non può che essere salutata con entusiasmo e insieme preoccupazione. Entusiasmo perché nella Novlingua contemporanea del nostro paese di queste parole non ne esiste nemmeno più la traccia, figurarsi allora le pratiche che le due sottintendono, intellettuale e impegno. O forse esistono e nessuno lo sa?
E preoccupazione perché in realtà sembra che quelle due parole si siano tramutate e fissate nella loro forma plurale: intellettuali e impegni, tantissimi tra un convegno e l’altro, un festival e un assegno di ricerca spesso scoperto. Preoccupazione perchè si ha come l’impressione che non solo ci si debba rivendicare come intellettuali ma che addirittura si debba ricordare l’impegno come se si potesse essere tali senza “onorare il debito” l’in – pegno che l’etimologia ricorda. In francese non cambia molto la cosa. Engagé significa mis en gage, dato in pegno appunto au mont-de-piété e qui vi risparmio la traduzione. L’impegno allora è un debito verso qualcuno, qualcosa e un altro motivo per cui vale la pena procurarsi questo numero è nell’identificazione di quel chi, di quel cosa, che di volta in volta ognuno degli interventi prova a mettere in chiaro.
Ho chiesto allora a Micromega l’autorizzazione a rendere disponibile l’editoriale di Paolo Flores d’Arcais (dal link è possibile scaricare il pdf ) per i nostri lettori. Editoriale che pur non condividendone alcuni passaggi mi è apparso illuminante. Nei commenti spero possa nascere una discussione, un dibattito, (ah il dibattito, surtout pas, tradotto, per carità) e insieme l’occasione anche per me di spiegare perché abbia letto con grande interesse gli interventi di Stuart Hall, La nascita della New Left, (magnificamente tradotto da Jamila Mascat), quello di Gianni Vattimo, di Carlo Freccero , Il creativo, intellettuale del futuro, Ermanno Rea L’intellettuale cittadino, Camilleri e Adriano Prosperi, Intellettuali o clown. Quest’ultimo lo cito anche perché, facendo di recente una ricerca proprio su Albert Camus di cui esiste un bel dossier con inediti dell‘intellettuale e un’intervista a sua figlia Catherine, a cura di Andrea Bianchi, sono incappato in una nota che Hannah Arendt scrisse proprio a proposito di Sartre e Camus.
S’intitola, L’esistenzialismo spiegato agli Americani (mia la traduzione dal francese)
(Nel 1946, Hannah Arendt (1906-1975) offre ai lettori del settimanale The Nationn la presentazione di una filosofia che fa furore oltre oceano: l’esistenzialismo francese. )
[...] I filosofi diventano giornalisti, drammaturghi, romanzieri. Non si tratta di universitari, ma “saltimbanchi“ che vivono negli alberghi e trascorrono il loro tempo nei caffè, conducendo una vita a tal punto pubblica da rinunciare a qualsiasi privacy. [...] Se la Resistenza non ha provocato la rivoluzione in Europa, sembra avere innescato, almeno in Francia, una vera e propria ribellione intellettuale, il cui sottomettersi alle regole della società moderna è stato uno degli aspetti più tristi di quel triste spettacolo che ha offerto l’Europa tra le due guerre. [...]
per poi concludere, poco dopo, scrivendo:
Pour Camus, l’amour est une tentative maladroite et désespérée de briser l’isolement de l’individu. […]
Per Camus, l’amore è un tentativo maldestro e disperato di infrangere l’isolamento dell’individuo.
Albert Camus, une valse à trois temps. Milosz, Micromega e Berardinelli (terzo tempo)
di Francesco ForlaniE così eccomi giunto alla terza ed ultima puntata di questa incursione su Camus. Le puntate precedenti qui e lì, e una considerazione che devo subito fare e che potrei riassumere con questa formula: ma per essere intellettuali bisogna per forza essere stronzi?
Le pluriel ne vaut rien à l’homme et sitôt qu’on
Est plus de quatre on est une bande de cons.
Il plurale non vale niente per l’uomo e non appena si
è più di quattro si diventa (subito) un branco di stronzi
Est plus de quatre on est une bande de cons.
Il plurale non vale niente per l’uomo e non appena si
è più di quattro si diventa (subito) un branco di stronzi
Georges Brassens, le pluriel
Leggere dapprima l’editoriale di Paolo Flores d’Arcais uscito sull’ultimo numero di Micromega consacrato alla figura dell’intellettuale e, subito dopo, la mite, argomentata, frontale stroncatura di Berardinelli apparsa sul Foglio , permette a mio parere di capirci un po’ di più su questa benedetta faccenda degli intellettuali e proverò a dirvi perchè.
Innanzitutto cercherò di mettere in relazione le due voci attraverso la figura del contenzioso, Camus in persona, proponendo una piccola scoperta fatta proprio mentre studiavo più a fondo la questione.
In una conferenza di Albert Camus al McMillin Theater Columbia University (New-York) il 28 marzo 1946, intitolata, la crisi dell’uomo (la crise de l’homme camus è possibile leggerla tutta, in francese) c’è un passaggio su cui vale la pena soffermarsi.
Camus si rivolge a degli studenti americani, la sala sicuramente piena, molta emozione e a un certo punto dopo avere parlato di sè come di una generazione confrontata a fatti storici notevoli, due guerre, il nazismo, dice:
“Et que justement, il sera plus intéressant pour vous que je parle, plutôt qu’en mon nom personnel, au nom d’un certain nombre de Français qui ont aujourd’hui 30 ans et qui ont formé leur intelligence et leur Coeur pendant les années terribles où, avec leur pays, ils se sont nourris de honte et ont vécu de révolte. Albert Camus ha trentatrè anni (Mondovi, 7 novembre 1913) e parla a nome di giovani che si sono nutriti di vergogna e che hanno vissuto di rivolta.
Poi aggiunge: Après quoi, il leur a fallu s’occuper de la terreur ou plutôt la terreur s’est occupée d’eux. Et ils se sont trouvés devant une situation que, plutôt que de caractériser dans le général, je voudrais illustrer par quatre histoires courtes d’un temps que le monde a commencé d’oublier mais qui nous brûle encore le coeur.
(Al che, hanno dovuto farsi carico del terrore o piuttosto il terrore si è fatto carico di essi e si sono trovati davanti a una situazione che piuttosto che caratterizzarla su un piano generale, vorrei illustrare attraverso quattro brevi storie di un tempo che il mondo ha cominciato a dimenticare, ma che ci brucia ancora il cuore”)
A questo punto Albert Camus ( avrà chiesto il permesso di accendersi una sigaretta? Gli sarà stato accordato? Fumavano in aula all’epoca? Ma Berardinelli fuma? ) traccia le sue quattro storie ( sembrano affreschi, c’è qualcosa dell’ordine del pittorico più che del cinematografico nei racconti)
1) Dans l’immeuble de la Gestapo d’une capitale européenne, après une nuit d’interrogatoire, deux inculpés encore sanglants se trouvent ligotés et la concierge de l’immeuble [fait soigneusement le ménage], le coeur en paix puisqu’elle a pris sans doute son petit déjeuner. Au reproche d’un des torturés, elle répond avec indignation une phrase qui, traduite en français, donnerait à peu près ceci : « Je ne m’occupe jamais de ce que font mes locataires. »
2) À Lyon, un de mes camarades est tiré de sa cellule pour un troisième interrogatoire. Comme on lui a déchiré les oreilles, lors d’un interrogatoire précédent il porte un pansement autour de la tête. L’officier allemand qui le conduit est le même qui a assisté déjà aux premières séances et c’est pourtant lui qui demande avec une nuance d’affection et de sollicitude dans la voix : « Alors,comment vont ces oreilles ? »
3) En Grèce, à la suite d’une opération des Maquis, un officier allemand se prépare à faire fusiller trois frères qu’il a pris comme otages. La vieille mère se jette à ses pieds et il consent à en épargner un seul, mais à condition qu’elle le désigne elle-même. Comme elle ne peut se décider, on les met en joue. Elle a choisi l’aîné, parce qu’il était chargé de famille, mais du même coup, elle a condamné les deux autres comme le voulait l’officier allemand.
4) Un groupe de femmes déportées parmi lesquelles se trouve une de nos camarades, est rapatrié en France par la Suisse. À peine entrées sur le territoire suisse, elles aperçoivent un enterrement civil. Et ce seul spectacle les jette dans un fou rire hystérique :« C’est comme cela qu’on traite les morts ici », disent-elles.
Tralascio le ultime tre e mi concentro sulla prima.
Dans l’immeuble de la Gestapo d’une capitale européenne, nel palazzo di una città europea, après une nuit d’interrogatoire, dopo una notte d’interrogatori i due prigionieri ancora sanguinanti deux inculpés encore sanglants se trouvent ligotés sono legati e la portiera del palazzo et la concierge de l’immeuble [fait soigneusement le ménage sta facendo meticolosamente le pulizie], il cuore in pace le coeur en paix puisqu’elle a pris sans doute son petit déjeuner. dal momento che, (e qui Camus ci va pesante), ha fatto certamente colazione. Au reproche d’un des torturés, al rimprovero di uno dei due torurati, elle répond avec indignation risponde indignata con una frase che tradotta in francese suonerebbe all’incirca così: une phrase qui, traduite en français, donnerait à peu près ceci :
« Je ne m’occupe jamais de ce que font mes locataires. » « Non bado mai a quello che fanno i miei inquilini »
La stessa storia, ma con alcune modifiche che reputo non inessenziali, la troviamo nei Carnets II,(janvier 1942 – mars 1951) e più precisamente nella sezione che reca come data il 1943; tre anni prima della citata conferenza.
La concierge de la Gestapo installée dans deux étages d’un immeuble rue de la Pompe. Au matin, elle fait le ménage au milieu des tortures. « Je ne m’occupe jamais de ce que font mes locataires. »
Se nella versione americana si parla di un palazzo di una città europea, in questa, precedente, non solo veniamo a sapere che la scena si svolge in Francia, a Parigi, ma conosciamo perfino l’indirizzo, Rue de la Pompe. (quartiere molto borghese, si noti) E ovviamente la portiera non esprime qualcosa che in francese suonerebbe più o meno così, ma dice esattamente la frase che dice:
« Je ne m’occupe jamais de ce que font mes locataires. » « Non bado mai a quello che fanno i miei inquilini »
Perché questa dislocazione? Camus di certo non mente quando dice nella conferenza che si tratta di una città europea, però generalizza un racconto che nella prima stesura, senza la drammatizzazione della seconda, riempie il vuoto del dialogo tra la donna delle pulizie e il torturato, dialogo che la battuta della donna lascia intendere.
Riprendendo i Carnets ci accorgiamo di un altro dettaglio per nulla insignificante. La pagina comincia infatti con un titoletto: Création corrigée. Il riferimento è a un episodio riveduto e corretto? Ma più avanti troviamo una riflessione che rende questa nostra analisi ancora più interessante, se vogliamo. Proprio verso il finale, Camus scrive:
“Démonstration. Que l’abstraction est le mal. Elle fait les guerres, les tortures, la violence, etc.
Problème : comment la vue abstraite se maintient en face du mal charnel – l’idéologie face à la torture infligée au nom de cette idéologie.”
Dimostrazione, Che l’astrazione è il male. Fa le guerre, le torture, la violenza, ecc
Problema: come la vista astratta si regge di fronte al male carnale – l’ideologia di fronte alla tortura inflitta in nome di questa ideologia
consclusions
Bene. Per tornare alla querelle Berardinelli vs Micromega, la questione non è tanto quella di sapere se è stronzo Berardinelli a dire che stronzi sono quelli di Micromega per il semplice fatto di mettersi in quattro ( il riferimento è alla canzone pluriel di Brassens che tra l’altro, nel video che ho postato sembra insieme a Ferrat tener testa al sosia di Giuliano Ferrara sulla questione degli intellettuali.) o che più generalmente è da stronzi fare gli impegnati sia che si tratti dell’impegno intellettuale o degli impegni di regime.
Berardinelli per esempio insiste molto sulla dimensione “solidaire solitaire” di Albert Camus e tradita dagli intellettuali italiani, attribuendo però alla felice formula un senso completamente diverso da quello originario, e riducendola a intellettuale in solitaria, che in qualche modo, altrove, lo stesso Berardinelli si attribuisce. D’accord, però Camus si definiva solidale della gente comune.
La querelle si gioca, ce ne rendiamo subito conto, sul piano della concretezza.
Facciamo astrazione dell’infelice sottotitolo dell’articolo: Tra Sartre e Camus, Vattimo e Heidegger, meglio la sentenza di Pasolini ( più in là nel testo: “Niente è più ridicolo dell’impegno di uno stronzo”.) Ma soprattutto del titolo dell’articolo di Berardinelli: Intellò, ridicoli e stronzi. Fare astrazione del giornale su cui scrive Berardinelli quello, però, non si può.
Come non sottoscrivere certi passaggi di Berardinelli, come quando per esempio, proprio a proposito dell’editoriale di Flores d’Arcais, scrive:
La democrazia è una bella cosa. Credo che sia l’ultima vera utopia.Ma la democrazia culturale ha riempito l’ambiente di prodotti di quart’ordine, ha lavorato a diffondere consumi culturali quotidiani che minano e tendono a vanificare la cosiddetta libertà di pensiero e di coscienza dei cittadini. E poi: quali scontri filosofici e culturali si sono visti fra intellettuali schierati a sinistra? Si discute, ci si scontra su Repubblica o anche su MicroMega? Non mi pare.
L’intellettuale che si ribella lo fa per ragioni sue e lo fa anche se è solo. Ma se lo fa da solo può succedere che sia accusato, come è avvenuto con Orwell e Camus, di essere un individualista irresponsabile e di essere di destra. Paolo Flores delinea un modello di intellettuale impegnato, ma un modello non c’è, o è meglio evitarlo. Eccezionali critici della società moderna, borghese e mercantile, o delle dittature, sono stati cristiani, liberali, individualisti, conservatori, scrittori e poeti del tutto antipolitici. E’ un impegno anche non avere nessuno interesse a quello che i ricchi e i potenti possono regalarti e mostrare, in privato e in pubblico, questo disinteresse.
Riprendendo la storia delle due versioni del racconto fatto da Camus, sull’origine del male, l’impressione che si ha è che l’editoriale di Paolo Flores d’Arcais sia in qualche modo la versione americana, quella rivolta agli studenti, narrativizzata per quanto meno concreta, mentre la riflessione di Berardinelli più restìa all’astratto, succinta, diretta come nella versione dei Carnets. In una Camus parlava agli studenti e nell’altra a se stesso. Questo ho pensato. Poi però rileggendo la recensione di Berardinelli, un passaggio attira la mia attenzione, la imprigiona, la soffoca:
Fare bene il proprio lavoro non è un ripiego, come dice Flores. Farlo bene significa farlo secondo l’etica che quel lavoro prevede e anche contro le condizioni sociali, istituzionali in cui lo si fa.
« Je ne m’occupe jamais de ce que font mes locataires. » Risuona la frase della donna delle pulizie che rifiuta di dare un bicchiere d’acqua a un torturato. Sembra dire proprio così anche se a rigor di logica, e stando a quanto lo stesso afferma da qualche anno sulla libertà che gli è data in certi giornali, sembra piuttosto la frase del suo direttore, magari leggermente parafrasata: « Je ne m’occupe jamais de ce que font mes rédacteurs. »
Da "http://www.ilfoglio.it/soloqui/19792" :
Intellò, ridicoli e stronzi
Mite e argomentato frontale di un critico letterario solitario contro la logica del branco engagé rilanciata da Flores & Co. su MicroMega. Tra Sartre e Camus, Vattimo e Heidegger, meglio la sentenza di Pasolini
Chi come me ha cominciato, da liceale, a discutere con gli amici di Sartre e Camus (“Sartre o Camus?”)Non resiste a una copertina come l’ultima di MicroMega con le immagini dei due filosofi-scrittori e con il titolo: “L’intellettuale e l’impegno”. Da un po’ di tempo non riesco a pensare niente su questo tema. Non so bene che cos’è un intellettuale (quello che so mi piace poco) e quanto all’impegno mi chiedo subito “quale impegno, come, perché, con chi ecc.”.
Gli intellettuali oggi sono massa più che élite, sono un ceto, una corporazione, una serie di corporazioni, più che degli individui. Si schierano dalla parte giusta, sbandierano valori, ma soprattutto si schierano, fanno schiera lungo steccati precostituiti: destra e sinistra politica. Se per caso uno di loro si allontana dalla schiera e dallo steccato e fa di testa sua non esiste più per gli engagés, viene trattato come un reprobo e ci si impegna a diffidare di lui.
Apro MicroMega e guardo l’indice.
Ho davanti a me l’elenco degli abituali collaboratori della rivista, con qualche assenza (Angelo Bolaffi, Massimo Cacciari…). Pensavo di informarmi, di approfondire, o almeno di rinfrescare anche nostalgicamente (perché no?) le mie passioni problematiche, e mi trovo davanti che cosa? Gli scritti di Andrea Camilleri (autore noioso e vanitoso), Dario Fo (un premio Nobel più autore di smorfie che di opere), Furio Colombo (lo associo ancora, non so perché, a Gianni Agnelli e al Gruppo 63, cose che mi respingono), Carlo Freccero (un televisivo creativo?), Ascanio Celestini (attore penoso che piace a tutti), Moni Ovadia (idem).
Il solo testo seriamente impegnato e interessante è un ampio saggio di Stuart Hall in cui si racconta la nascita a Oxford della New Left, che “non divenne mai culturalmente né politicamente omogenea” e in cui le divergenze venivano quasi sempre “gestite in maniera umana e generosa” (bella formula). I dieci anni prima del ’68 furono in effetti piuttosto straordinari: meno militanza di massa e un po’ più di studio e di onestà intellettuale.
Dell’intervento di Gianni Vattimo è difficile dire. Vattimo non l’ho mai capito.
Fa il democratico, ma i suoi autori di sempre sono Nietzsche e Heidegger, senza dubbio non due campioni di pensiero democratico né di sensibile comprensione per i più deboli. In questo suo intervento, incontro poi una trovata inaccettabile, che ha già avuto fortuna presso altri pensatori (è piaciuta a Calasso, Agamben, Cacciari) ma che secondo me è un abuso: per concludere sul problema degli intellettuali e dell’impegno Vattimo inventa un’alleanza fra Martin Heidegger e Walter Benjamin, quando è noto che il secondo detestava il primo per ragioni molto precise, sia politiche sia filosofiche. Scrive Vattimo: “Io non vedo altra via che non sia quella di mettere insieme Heidegger e Benjamin: l’intellettuale non funzionale all’esistente è quello che sa ascoltare il silenzio dell’essere” (sic!).
Professor Vattimo, ora mi dica per cortesia che cos’è l’essere e come mai tace, se tace. Risposta di Vattimo: “Il silenzio dell’essere a cui pensa Heidegger non è altro (anche per lui, non ha mai voluto essere un puro mistico) che il silenzio di chi è stato silenziato nella storia, il silenzio dei vinti, dei senza potere”.
Professor Vattimo, obietto:
(1) da due secoli i vinti si fanno sentire, come testimoniano le sommosse, le rivoluzioni e la storia del movimento operaio; (2) Heidegger in realtà non è mai riuscito a essere un mistico, ma ha recitato da mistico, ha capito che l’Essere in filosofia è veramente “una gallina dalle uova d’oro”, frutta bene, frutta molto, produce un’infinità di rumori e di parole; (3) ma dov’è finito Benjamin? Credo che abbia voltato le spalle e se ne sia andato: stringere la mano a Martin, l’orco della Selva Nera, è certo che gli ripugna.
Naturalmente il pezzo forte del numero, per chiarezza e persuasione è l’editoriale di Paolo Flores d’Arcais. Lo leggo con molta attenzione e mi sembra di condividere tutto. Poi mi alzo, esco a fare un po’ di spesa, torno a casa e sento invece che qualcosa non mi convince. Forse il tono: troppo vibrato e combattivo, come se nella vita di un intellettuale non ci fosse altro che lotta e impegno, non evasione, nessuna svogliatezza né perplessità. Come se ci fossero solo valori e princìpi e non avversioni, preferenze, idiosincrasie, antipatie culturali e umane.
Paolo Flores ama molto Camus, come me.
Ma nel suo Camus e nella sua famosa formula “solitarie-solidaire” mi sembra che la solitudine sia sottovalutata come una premessa da scavalcare. L’idea, secondo me, è invece che la solitudine, se è reale, fa capire non dico più cose, ma qualcosa di più e di diverso: e cioè che la società non è tutto. Paolo Flores dice che l’intellettuale non deve mettersi al sicuro fiancheggiando un partito. Ma non esiste solo il partito come organizzazione, c’è anche il partito che si ha nella testa. Una rivista, un giornale, un movimento possono essere un partito che non ammette diversità di giudizio, o fa finta che diversità non ce ne siano.
L’impegno politico può prendere varie vie: la via della critica culturale e delle élite di destra e di sinistra, la critica della cultura di massa e della cultura politica, la critica delle mode e delle idee dominanti. Mi sembra che queste cose Paolo Flores le sottovaluti. Crea squadre, schiera scrittori e artisti. In nome della lotta a Berlusconi ha ingaggiato da vari anni scrittori, artisti e filosofi che una volta non avrebbe giudicato benevolmente. Li ha ingaggiati purché dichiarassero, mettendosi al sicuro: “Io odio Berlusconi”. Tutto qui? Ma Berlusconi vince perché la sinistra perde. Non è lapalissiano?
Paolo Flores ce l’ha con la chiesa e la teologia. Ma non vede che tra i filosofi suoi amici c’è molta cattiva teologia e metafisica?
La democrazia è una bella cosa. Credo che sia l’ultima vera utopia.
Ma la democrazia culturale ha riempito l’ambiente di prodotti di quart’ordine, ha lavorato a diffondere consumi culturali quotidiani che minano e tendono a vanificare la cosiddetta libertà di pensiero e di coscienza dei cittadini. E poi: quali scontri filosofici e culturali si sono visti fra intellettuali schierati a sinistra? Si discute, ci si scontra su Repubblica o anche su MicroMega? Non mi pare.
L’intellettuale che si ribella lo fa per ragioni sue e lo fa anche se è solo. Ma se lo fa da solo può succedere che sia accusato, come è avvenuto con Orwell e Camus, di essere un individualista irresponsabile e di essere di destra. Paolo Flores delinea un modello di intellettuale impegnato, ma un modello non c’è, o è meglio evitarlo. Eccezionali critici della società moderna, borghese e mercantile, o delle dittature, sono stati cristiani, liberali, individualisti, conservatori, scrittori e poeti del tutto antipolitici. E’ un impegno anche non avere nessuno interesse a quello che i ricchi e i potenti possono regalarti e mostrare, in privato e in pubblico, questo disinteresse.
La democrazia per funzionare deve essere fatta di pluralismi e di varietà di comportamenti.
Io parteggio per l’intellettuale singolo e singolare. Non mi piacciono i gruppi. Le logiche del branco si formano anche tra i più intelligenti e succede che anche gli intelligenti patiscano di una loro ottusità. Per citare un epigramma di Pasolini: “Niente è più ridicolo dell’impegno di uno stronzo”.
Il modello del ’68 non era, come vuole Flores, mettere il proprio privilegio acquisito di intellettuale al servizio della buona causa: era invece agire dentro i luoghi di lavoro e nell’esercizio delle professioni mettendo i valori dichiarati contro la prassi convezionale: nella ricerca scientifica, nella medicina, nell’insegnamento religioso, nella scuola e nell’università, e perfino nell’esercito e nella polizia. Fare bene il proprio lavoro non è un ripiego, come dice Flores. Farlo bene significa farlo secondo l’etica che quel lavoro prevede e anche contro le condizioni sociali, istituzionali in cui lo si fa.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Alfonso Berardinelli
Da "http://www.nazioneindiana.com/2008/11/30/oggi-e-morta-mia-madre-o-forse-ieri-non-so/" :
Quando ho telefonato ai miei fratelli e sorelle per chiedere com’era andata la cosa, già alla prima chiamata non riuscivo a ricordare se il fatto era successo l’otto, il nove o il dieci novembre, di un anno fa. Ma non ho detto niente, se non che quanto loro, forse di più, mi rammaricavo del non esserci stato, causa di forza maggiore – il lavoro prima di tutto, lo sai, mi aveva ripetuto alla vigilia la sorella più grande, mamma lo diceva sempre – e che mi faceva piacere saperli tutti e cinque insieme.
E’ stato con mio fratello Geppi che ho potuto esternare il dubbio che ormai oltre al fastidio che ogni dubbio porta con sé si accompagnava al dolore di una consapevolezza, ovvero di non essere all’altezza di quel dolore, di non governarlo, gestirlo, appropriarmene come se in quella distrazione, incertezza del ricordo, si annidasse un piano di fuga. E mi ha leggermente confortato il fatto che nemmeno lui si ricordasse, immediatamente, precisamente, la data del decesso.
Se non esiste un quando, non potrà gioco forza nemmeno esistere un dove. Ecco allora che nel caso di mia madre un solo aggettivo prevaleva sugli altri; non defunta, morta, spenta, estinta, ma scomparsa. Ora si sa che le cose che scompaiono un giorno potranno riapparire un altro e per quanto non ci sia nulla di più doloroso di una inutile speranza, pur di speranza si tratta.
In francese lutto si dice deuil. Deuil ricorda l’italiano doglie, come le doglie di un parto, e basta tirare una linea tra queste due parole, un tratto in treno da Bardonecchia a Modane, per scorgere d’un colpo un unico filo tra nascere e morire. Il riferimento alla lingua francese me l’ha suggerita forse l’associazione tra la mia disattenzione e quella del protagonista de l’Étranger, Mersault in uno dei più struggenti incipit letterari.
Scrive Camus: Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall’ospizio: “Madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti.” Questo non dice nulla: è stato forse ieri. L’ospizio dei vecchi è a Marengo, a ottanta chilometri da Algeri. Prenderò l’autobus delle due e arriverò ancora nel pomeriggio. Così potrò vegliarla e essere di ritorno domani sera. Ho chiesto due giorni di libertà al principale e con una scusa simile non poteva dirmi di no. Ma non aveva l’aria contenta. Gli ho persino detto: “Non è colpa mia.” Lui non mi ha risposto. Allora ho pensato che non avrei dovuto dirglielo”
Qualche anno fa mi era capitato di ascoltare alcuni dei capitoli dello Straniero letti dall’autore in persona. In quella voce si trovavano tutte le chiavi dell’opera. Le parole attraverso la voce di Camus avevano quasi un altro significato e comunicavano qualcosa che nemmeno un accurato studio avrebbe potuto rivelare.
Albert Camus legge Lo Straniero.
L’unico, secondo me a esservi riuscito in una fulminante quanto appropriata descrizione è stato Buzzati, quando raccontando (Cronache terrestri) l’incontro con Albert Camus lo descrive così:
Grazie a Dio non aveva una testa da intellettuale, ma da sportivo, chiaro, da uomo del popolo, solido, ironico, con bonomia, in un certo senso un viso da garagista.
che in un’edizione francese diventa:
Grâce à Dieu, n’était pas celui d’un intellectuel pourri, mais plutôt celui d’un sportif, clair, populaire, solide, ironique et plein de bonhomie, peut-être: une tête de garagiste
Cherchez l’erreur
Mi soffermo su un particolare, un dettaglio assolutamente non trascurabile. L’italiano intellettuale viene tradotto con intellectuel pourri (marcio), e mai come in questo caso il traduttore ha centrato in pieno il significato. Perché il significato che la parola intellettuale ha in italiano è proprio quello. Dire intellettuale a qualcuno, in Italia, equivale a dire ladro, anzi peggio, perché almeno un ladro se le sporca le mani! In Francia la parola intellectuel incute rispetto, trasmette un valore, e forse da un dettaglio del genere si possono spiegare tante cose sulla differenza tra noi e loro, sul fatto, per esempio che lì, Riforma e Rivoluzione ci sono state mentre da noi soltanto Controriforma e Restaurazione. Evvai…
Insisto su questa storia delle cattive traduzioni perché proprio un caso del genere mi ha fatto riflettere sul perché non mi ricordassi non dico l’ora ma il giorno in cui è scomparsa mia madre.
Nell’edizione inglese esistono infatti (cito da wikipedia) tre versioni di quell’incipit.
Gilbert translation: “Mother died today. Or, maybe, yesterday; I can’t be sure. The telegram from the Home says: YOUR MOTHER PASSED AWAY. FUNERAL TOMORROW. DEEP SYMPATHY. Which leaves the matter doubtful; it could have been yesterday.”
Ward translation: “Maman died today. Or yesterday maybe, I don’t know. I got a telegram from the home: Mother deceased. Funeral tomorrow. Faithfully yours. That doesn’t mean anything. Maybe it was yesterday.” (“Maman” is an informal French term translating to “Mom.”)
Laredo translation: “Mother died today. Or maybe yesterday, I don’t know. I had a telegram from the home: ‘Mother passed away. Funeral tomorrow. Yours sincerely.’ That doesn’t mean anything. It may have been yesterday.”
Solo una delle tre versioni, restituisce seppure non a fondo, lo slittamento di senso che Albert Camus introduce nella narrazione, passando dal familiare e colloquiale maman del figlio al freddo e burocratico , mother del telegramma.
Aujourd’hui, maman est morte. Ou peut-être hier, je ne sais pas. J’ai reçu un télégramme de l’asile: «Mère décédée. Enterrement demain. Sentiments distingués.» Cela ne veut rien dire. C’était peut-être hier.
Del resto nel primo caso la mamma muore mentre nel secondo decede. Mi dico allora che in quella forma colloquiale, mamma, mà, diremmo oggi, si racchiude un atto di resistenza, all’ineluttabilità della morte. Dico mà come se lei fosse presente e mi rivolgessi a lei – come quando mia madre mi telefonava in Francia e lasciava dei messaggi in segreteria che erano delle domande, ovvero presupponevano un interlocutore che evidentemente era assente. “Tutto a posto? Verrai a Natale? Se devi lavorare non fa nulla…” eh già. E io quando ascoltavo la registrazione le rispondevo – o ero tentato di replicarle – in differita. Ecco perché non riesco a formularmi la parola madre, oggi e più che mai la frase, mia madre è morta. Solo mà mi viene da dire e in certi momenti penso perfino di chiederlo a lei: mà, tu quando ci hai lasciato?”
ps
Quando un anno fa, circa, successe il fatto, al mio ritorno in rete, dopo una quindicina di giorni trovai delle autentiche e spontanee testimonianze d’affetto. Non li ho mai ringraziati né ho detto loro quanto servirono quelle parole. Lo faccio ora.
Da "http://www.nazioneindiana.com/2008/11/30/oggi-e-morta-mia-madre-o-forse-ieri-non-so/" :
Oggi è morta mia madre. O forse ieri, non so
Quando ho telefonato ai miei fratelli e sorelle per chiedere com’era andata la cosa, già alla prima chiamata non riuscivo a ricordare se il fatto era successo l’otto, il nove o il dieci novembre, di un anno fa. Ma non ho detto niente, se non che quanto loro, forse di più, mi rammaricavo del non esserci stato, causa di forza maggiore – il lavoro prima di tutto, lo sai, mi aveva ripetuto alla vigilia la sorella più grande, mamma lo diceva sempre – e che mi faceva piacere saperli tutti e cinque insieme.
E’ stato con mio fratello Geppi che ho potuto esternare il dubbio che ormai oltre al fastidio che ogni dubbio porta con sé si accompagnava al dolore di una consapevolezza, ovvero di non essere all’altezza di quel dolore, di non governarlo, gestirlo, appropriarmene come se in quella distrazione, incertezza del ricordo, si annidasse un piano di fuga. E mi ha leggermente confortato il fatto che nemmeno lui si ricordasse, immediatamente, precisamente, la data del decesso.
Se non esiste un quando, non potrà gioco forza nemmeno esistere un dove. Ecco allora che nel caso di mia madre un solo aggettivo prevaleva sugli altri; non defunta, morta, spenta, estinta, ma scomparsa. Ora si sa che le cose che scompaiono un giorno potranno riapparire un altro e per quanto non ci sia nulla di più doloroso di una inutile speranza, pur di speranza si tratta.
In francese lutto si dice deuil. Deuil ricorda l’italiano doglie, come le doglie di un parto, e basta tirare una linea tra queste due parole, un tratto in treno da Bardonecchia a Modane, per scorgere d’un colpo un unico filo tra nascere e morire. Il riferimento alla lingua francese me l’ha suggerita forse l’associazione tra la mia disattenzione e quella del protagonista de l’Étranger, Mersault in uno dei più struggenti incipit letterari.
Scrive Camus: Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall’ospizio: “Madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti.” Questo non dice nulla: è stato forse ieri. L’ospizio dei vecchi è a Marengo, a ottanta chilometri da Algeri. Prenderò l’autobus delle due e arriverò ancora nel pomeriggio. Così potrò vegliarla e essere di ritorno domani sera. Ho chiesto due giorni di libertà al principale e con una scusa simile non poteva dirmi di no. Ma non aveva l’aria contenta. Gli ho persino detto: “Non è colpa mia.” Lui non mi ha risposto. Allora ho pensato che non avrei dovuto dirglielo”
Qualche anno fa mi era capitato di ascoltare alcuni dei capitoli dello Straniero letti dall’autore in persona. In quella voce si trovavano tutte le chiavi dell’opera. Le parole attraverso la voce di Camus avevano quasi un altro significato e comunicavano qualcosa che nemmeno un accurato studio avrebbe potuto rivelare.
Albert Camus legge Lo Straniero.
L’unico, secondo me a esservi riuscito in una fulminante quanto appropriata descrizione è stato Buzzati, quando raccontando (Cronache terrestri) l’incontro con Albert Camus lo descrive così:
Grazie a Dio non aveva una testa da intellettuale, ma da sportivo, chiaro, da uomo del popolo, solido, ironico, con bonomia, in un certo senso un viso da garagista.
che in un’edizione francese diventa:
Grâce à Dieu, n’était pas celui d’un intellectuel pourri, mais plutôt celui d’un sportif, clair, populaire, solide, ironique et plein de bonhomie, peut-être: une tête de garagiste
Cherchez l’erreur
Mi soffermo su un particolare, un dettaglio assolutamente non trascurabile. L’italiano intellettuale viene tradotto con intellectuel pourri (marcio), e mai come in questo caso il traduttore ha centrato in pieno il significato. Perché il significato che la parola intellettuale ha in italiano è proprio quello. Dire intellettuale a qualcuno, in Italia, equivale a dire ladro, anzi peggio, perché almeno un ladro se le sporca le mani! In Francia la parola intellectuel incute rispetto, trasmette un valore, e forse da un dettaglio del genere si possono spiegare tante cose sulla differenza tra noi e loro, sul fatto, per esempio che lì, Riforma e Rivoluzione ci sono state mentre da noi soltanto Controriforma e Restaurazione. Evvai…
Insisto su questa storia delle cattive traduzioni perché proprio un caso del genere mi ha fatto riflettere sul perché non mi ricordassi non dico l’ora ma il giorno in cui è scomparsa mia madre.
Nell’edizione inglese esistono infatti (cito da wikipedia) tre versioni di quell’incipit.
Gilbert translation: “Mother died today. Or, maybe, yesterday; I can’t be sure. The telegram from the Home says: YOUR MOTHER PASSED AWAY. FUNERAL TOMORROW. DEEP SYMPATHY. Which leaves the matter doubtful; it could have been yesterday.”
Ward translation: “Maman died today. Or yesterday maybe, I don’t know. I got a telegram from the home: Mother deceased. Funeral tomorrow. Faithfully yours. That doesn’t mean anything. Maybe it was yesterday.” (“Maman” is an informal French term translating to “Mom.”)
Laredo translation: “Mother died today. Or maybe yesterday, I don’t know. I had a telegram from the home: ‘Mother passed away. Funeral tomorrow. Yours sincerely.’ That doesn’t mean anything. It may have been yesterday.”
Solo una delle tre versioni, restituisce seppure non a fondo, lo slittamento di senso che Albert Camus introduce nella narrazione, passando dal familiare e colloquiale maman del figlio al freddo e burocratico , mother del telegramma.
Aujourd’hui, maman est morte. Ou peut-être hier, je ne sais pas. J’ai reçu un télégramme de l’asile: «Mère décédée. Enterrement demain. Sentiments distingués.» Cela ne veut rien dire. C’était peut-être hier.
Del resto nel primo caso la mamma muore mentre nel secondo decede. Mi dico allora che in quella forma colloquiale, mamma, mà, diremmo oggi, si racchiude un atto di resistenza, all’ineluttabilità della morte. Dico mà come se lei fosse presente e mi rivolgessi a lei – come quando mia madre mi telefonava in Francia e lasciava dei messaggi in segreteria che erano delle domande, ovvero presupponevano un interlocutore che evidentemente era assente. “Tutto a posto? Verrai a Natale? Se devi lavorare non fa nulla…” eh già. E io quando ascoltavo la registrazione le rispondevo – o ero tentato di replicarle – in differita. Ecco perché non riesco a formularmi la parola madre, oggi e più che mai la frase, mia madre è morta. Solo mà mi viene da dire e in certi momenti penso perfino di chiederlo a lei: mà, tu quando ci hai lasciato?”
ps
Quando un anno fa, circa, successe il fatto, al mio ritorno in rete, dopo una quindicina di giorni trovai delle autentiche e spontanee testimonianze d’affetto. Non li ho mai ringraziati né ho detto loro quanto servirono quelle parole. Lo faccio ora.
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