Il cammino della filosofiaHans-Georg GadamerDa Eraclito a Socrate
È
davvero una cosa insolita ripercorrere le fasi iniziali del pensiero greco (la
"filosofia dei Presocratici", come si dice comunemente), evitando di adottare i
criteri e i punti di vista della tradizione successiva, vale a dire quelli
dell’Accademia platonica e della scuola aristotelica, in particolare. In queste
interpretazioni si riassume l’intero destino che la storia ha assegnato a due
imponenti figure, quali furono Parmenide ed Eraclito. Costoro, infatti, non rappresentano,
in verità, dei semplici elementi di un edificio della storia del pensiero, che Aristotele stesso cercò di progettare e costruire; e che, naturalmente, era architettato secondo una ben precisa intenzione filosofica. Vedremo in seguito che Aristotele – nel tentativo di prendere le distanze dall’infinita superiorità e anche dal carisma del suo grande maestro, Platone, e di reperire una via autonoma – fu costretto a muoversi fra la tradizione da cui proveniva e la sua predilezione per la natura vivente, senza indirizzarsi al mistero dei numeri e dei loro rapporti. Per Aristotele questa fu, per così dire, una attrazione impellente, che lo spinse a interpretare tutti i pensatori precedenti come una propedeutica alla sua stessa fisica e alla sua filosofia della natura. Perciò, già parlando di Talete, ho voluto mostrare che in realtà vi si nasconde ben altro che il solo elemento - acqua. In età moderna questa filosofia è stata persino chiamata ilozoìsmo, intendendo con ciò l’ipotesi di una materia piena di vita; ma il termine hyle, "materia", è appunto una categoria aristotelica e non coglie affatto ciò che si aveva di mira fin dal principio, cioè il mistero della totalità dell’essere, (dove sia, come si regga, quale ordine abbia, come diventi cosmo). Ne abbiamo già trattato, e abbiamo visto che fu Parmenide a sollevare una prima obiezione nei confronti di questo modo di pensare, e la sua critica fu ripresa, in seguito, più da Platone che da Aristotele. Ma lo stesso Eraclito non può essere a sua volta inquadrato in queste categorie. Ho riportato solo un paio dei suoi enunciati più avvincenti, poiché nel suo caso la citazione è, per così dire, quasi la forma più adeguata per avvicinarsi a questo pensatore. Eraclito non fu una figura di maestro, quale magari si può supporre, e in parte anche ritrovare, in altre tradizioni; già nell’antichità ebbe fama di essere l’oscuro, cioè colui che pronuncia massime misteriose e profonde. Un aneddoto che ci è stato tramandato racconta che a Socrate fu sottoposto il libro delle massime di Eraclito, perché lo leggesse; di esso Socrate avrebbe detto: "Quello che ho capito è eccellente; sono convinto che quello che non ho capito sia altrettanto eccellente. Ma ci vorrebbe un bravissimo pescatore per riportare alla luce tali prelibatezze dal fondo del mare". Le quotidiane aspettative di tutti vanno in frantumi, e si dischiudono così nuovi orizzonti di pensiero. Si tratta, in realtà, di quello che nel linguaggio attuale chiamiamo lo "speculativo", e tale uso linguistico – lo speculativo – è quello proposto da Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Quest’ultimo grande – "greco", starei per dire (sebbene Hegel fosse uno svevo che consolidò a Berlino la sua fama mondiale) disse, in effetti, dei frammenti di Eraclito: "Non conosco alcuna proposizione di Eraclito che non avrei potuto accogliere nella mia logica, nel testo fondamentale in cui espongo le mie dottrine filosofiche". Comunque sia, neanche Eraclito si inserisce adeguatamente nello schema col quale Aristotele ha voluto reperire i passaggi che hanno preceduto e preparato il suo proprio pensiero. Eraclito fu il primo a compiere il passo da gigante di separare il concetto di anima, di psychè, dall’intimo legame con la vitalità in quanto tale. La potenza vitale è in effetti qualcosa che ha a che fare con il calore e con la vita, ma tutti questi enunciati che Eraclito ripetutamente azzarda, laddove hanno di mira l’anima non si riferiscono alla vitalità, quanto piuttosto a ciò che noi chiameremmo "coscienza". Che cosa intendiamo, infatti, dicendo "non è più in sé" oppure "è di nuovo in sé", o, di chi si risveglia: "ha ripreso coscienza"? È grosso modo in questi termini che Eraclito pensa l’autentico mistero. L’anima non è soltanto il respiro del vivente, bensì è proprio l’elemento pensante, che nella sua ampiezza porta già in sé tanti enigmi e tante verità. C’è un bellissimo detto di Eraclito che recita: Mai raggiungerai i confini dell’anima, per quanto lontano tu possa andare. Questo è il nuovo universo. Si può immaginare che, stando così le cose, si possa spiccare il salto, assai rapidamente, fino magari all’idealismo tedesco, per il quale l’autocoscienza, con la sua estensione, con la sua portata universale, è al tempo stesso fondamento di ogni verità, della realtà e del mondo. Però, in realtà, si proietterebbe troppo falso modernismo nel pensiero di Eraclito, se davvero lo si mettesse in relazione con l’autocoscienza del pensiero moderno. Si potrebbe anche mostrare – e credo che nel corso di questa panoramica sulla storia della filosofia ciò apparirà abbastanza chiaramente – che questo concetto moderno di autocoscienza è inseparabile dal pensiero del metodo della scienza moderna. In fin dei conti questi scritti di Eraclito pongono compiti del tutto diversi al pensiero filosofico e all’esame scientifico della tradizione. Comunque stiano le cose, è sorprendente il fatto che, stando alle interpretazioni correnti, si dica questo: Parmenide ha pensato l’essere statico, immutabile, mentre Eraclito ha avuto di mira il flusso sempre mutevole delle cose, e perciò avrebbe preparato il campo, per così dire, alla scepsi. Penso che gli esempi qui proposti di frasi eraclitee insegnino una cosa migliore: questi paradossi sono appunto paradossi: non vogliono dire che non si possa conoscere la verità. Al contrario! Essa è solo nascosta, e nella forma del paradosso viene allo scoperto, come quando si dice che il passaggio dalla fame alla sazietà è, appunto, un attimo improvviso. E allora si riconosce che in realtà entrambe testimoniano la stessa cosa, cioè il bisogno dell’organismo di nutrirsi. E così, naturalmente, Eraclito può essere per molti aspetti considerato in modo assai diverso da come è stato finora. Ma egli fu anche un incomparabile stilista: ancora oggi ritengo che il sistema migliore per scovare autentici detti di Eraclito, o anche solo per interpretarli, sia il metodo che io stesso ho usato: fare analisi stilistiche, cercare una sorta di morfologia delle proposizioni paradossali. Se si procede così, si può essere abbastanza certi nel dire: questo è un autentico Eraclito. Ma, quanto al significato, occorre liberare queste frasi dalle incrostazioni sovrapposte da tradizioni successive. Ogni citazione è in realtà una forma di appropriazione di qualcos’altro. Anche quando noi stessi ci serviamo di citazioni, vogliamo dire qualcosa che valga per questo momento preciso, ma con l’aiuto di versi preconfezionati, di proverbi, di affermazioni o di altro ancora.
Ecco dunque la
straordinaria difficoltà di fronte alla quale stanno questi due pensatori, e la cosa che
stupisce in loro è questa: nella totale diversità sono profondamente concordi, unanimi
nel parlare entrambi dell’Uno. Eraclito dice: hén tò sophòn, uno è il
saggio, e con ciò egli intende l’unità dietro le differenze e fra gli opposti,
cioè questa unità speculativa. E, analogamente, Parmenide afferma: l’essere è
l’Uno e non i molti. Ebbene, si può immaginare: se questa dottrina è da un lato
l’insegnamento, il lògos della dea ispiratrice del poema didascalico di
Parmenide, e se d’altro canto è la verità provocatoria della profonda meditazione
di Eraclito, allora verrà naturale chiedersi: Ma come è possibile parlare di questo
Uno, avere un lògos, formulare un discorso che sappia cogliere ciò che l’Uno dice
di se stesso? È chiaro che questo sarà appunto il problema – e doveva essere il
problema – che emerge dalla critica profonda rivolta alla curiosità del mondo e alle
arditezze di pensiero dei filosofi di Mileto.
Possiamo dire senz’altro, che questi due pensatori furono più o
meno contemporanei. L’uno
visse a Efeso e, con intuizione profetica, colse il pericolo di un predominio straniero
(da parte del regno persiano) su queste città portuali, e ammonì i suoi concittadini
più volte in tal senso. L’altro visse ad Elea (Velia), a sud di Napoli. Erano dunque
separati da distanze enormi. Si è cercato di trovare nell’uno allusioni
all’altro: certo si può giocare con queste fantasie, quando le testimonianze sono
così poche da non poter confutare tali finzioni. Ma io ne sono convinto: è probabile che
non si conobbero affatto. Hanno avuto entrambi lo stesso retroterra. Il loro background
comune fu appunto questa insorgenza di un pensiero razionale orientato al lògos,
di fronte alla nuova apertura al mondo maturata dalla "Scuola di Mileto" –
dai filosofi di Mileto – nel corso di varie generazioni di filosofi importanti.
Purtroppo non posso proporre, come vorrei, altri grandi nomi di
esponenti del pensiero greco degli albori, chiamati solitamente presocratici, così
come ho fatto con gli autori già trattati. Sono nomi certamente noti, il cui fascino non
è minore. Uno di questi è Empedocle. Tutti lo conoscono dalla storia della letteratura,
e in particolare i Tedeschi ricordano la ripresa dell’immagine esemplare di Empedocle
nella poesia di Hölderlin. Si sa, comunque, che Empedocle fu una figura mitica, come lo
fu la sua morte, che egli cercò nell’Etna (nel cratere dell’Etna, a quanto si
dice) al pari di tutte le storie legate alla sua vita, ai suoi poteri prodigiosi e infine
alla sua discesa nell’abisso. Ha lasciato una quantità di canti poetici di taglio
filosofico, nei quali già si prepara e si sviluppa la teoria degli atomi e la dottrina
dei quattro elementi, che appunto, secondo la tradizione greca, fu lui a proporre per
la prima volta: acqua, aria, terra e fuoco. Potrei parlare anche – anzi devo
certamente farlo – del rapporto davvero molto stretto che vi fu, a Elea, tra
Parmenide e il suo allievo Zenone. Più avanti, trattando di Platone, torneremo a dire che
Zenone e Parmenide sono considerati come un unico indirizzo o scuola di pensiero, e ciò
è dovuto al fatto che Zenone fa proprio l’asserto: C’è soltanto l’Uno,
l’essere è l’Uno, e intende corroborarlo – o, se si vuole, dimostrarlo
– facendo vedere che l’ipotesi della molteplicità conduce a contraddizioni
insolubili. Riteniamo che quest’arte della confutazione, introdotta da Zenone per
rinvigorire la dottrina eleatica, sia proprio l’invenzione della dialettica. Perciò,
anche da questo punto di vista, è evidente l’intima affinità tra
Parmenide, da un
lato, ed Eraclito dall’altro: Parmenide, il cui allievo ha operato questa
confutazione indiretta evidenziando le contraddizioni; ed Eraclito, fra i cui seguaci
nasce l’unificazione delle contraddizioni, quella dialettica speculativa che Hegel ha
ravvisato nei suoi frammenti.
In effetti potrei fornire ancora un lungo elenco di pensatori
successivi, per esempio potrei ricordare ancora una volta che la teoria atomistica di
Democrito è stata sviluppata nella sua forma, non già matematica, ma fisica, con
profonda radicalità. Quando si parla di teoria atomistica occorre guardarsi bene
dal confonderla con il concetto di atomo, fondato matematicamente e fisicamente nella
teoria atomica della scienza moderna. C’è un frammento di Democrito che descrive le
forme degli atomi, grazie alle quali essi si aggregano l’uno all’altro,
generando infine la materia coesa e compatta, il corpo solido; ma ci sono poi altre
affermazioni, ne ricordo una solo per mostrare la differenza: L’atomo è ciò che
non si può più suddividere ulteriormente; tutto qui! – non si dice "è la
più piccola particella". Democrito dice infatti: "Potrebbe esserci un atomo
grande quanto l’universo". A parte il fatto che anche Democrito muove da questa
dottrina eleatica dell’essere-uno per giungere al pensiero degli atomi, non possiamo
purtroppo aggiungere molto sul suo conto senza rifarci a Epicuro e a Lucrezio, cioè ai
suoi seguaci della tarda antichità.
Ci stiamo, infine, avvicinando al periodo di Socrate, all’epoca,
cioè, in cui le arti della dialettica si diffusero come una sorta di epidemia fra i
giovani di Atene. In realtà non si può trattare della filosofia senza considerare anche
il concetto che le si oppone, la sofistica. "Sofistica" è, per così
dire, far girare a vuoto l’arte della dialettica, evidenziare contraddizioni solo per
il gusto di ottenere ragione. Lo slogan dei sofisti era: far sì che la cosa più
debole, grazie a ingegnosissime argomentazioni, diventi la più forte, in tribunale e
soprattutto nelle dispute. Questo aspetto della dialettica fu, ai tempi di Socrate, senza
alcun dubbio il fenomeno dominante nella coscienza pubblica ateniese. E poiché così
stavano le cose, Socrate (una figura decisamente singolare) divenne infine la vittima
dell’indignazione popolare contro questi virtuosi dell’argomentazione e del
discorso che erano i sofisti. Egli fu condannato appunto come sofista. Certo, sono tutte
cose note. Ma per noi la figura di Socrate è un’altra, di nuovo una figura epocale,
che indica una svolta. Qui forse si può ricordare quello che Cicerone disse, in seguito,
di Socrate: Egli ha portato la filosofia giù dal cielo per farla abitare nelle strade
di Atene. In altre parole, quelle discusse con i suoi concittadini, nei Ginnasi, nelle
palestre, nelle riunioni politiche e nelle strade sono le questioni pratiche della vita,
che egli ha portato con sé tra gli uomini. Socrate fu, per così dire, l’uomo
scomodo che poteva fermare chiunque andasse per strada gonfio della propria boria,
sottoponendogli questioni insidiose alle quali costui non sapeva rispondere. Pare che lo
abbia fatto soprattutto con i grandi del suo tempo: lo fece con gli ammiragli e con gli
strateghi, per sapere che cosa fosse il coraggio; lo fece con i giudici, per sapere che
cosa fosse la giustizia; lo fece infine persino coi veggenti e gli indovini, per mostrare
loro che di questioni divine, sacerdotali e religiose non sapevano proprio nulla.
Questa è la celebre figura di Socrate, ma da quali fonti la conosciamo? Certo egli ebbe tutta una serie di imitatori, ma tutti questi emuli impallidiscono al cospetto del solo Platone. E proprio a questo punto devo considerare, qui, lo specifico intervento di Platone, e precisamente, il compito che divenne per Platone la missione della sua vita, come gli fu presto chiaro. L’intenzione di Platone era quella di affrancare Socrate, da lui tanto ammirato, dall’errore giudiziario della democrazia ateniese, che lo aveva creduto un sofista, solo perché anch’egli sapeva argomentare in modo acuto, servendosi di ragionamenti dialettici.
L’intera opera di Platone consta di due parti, ne conosciamo
però soltanto una, non l’altra. Ciò che possediamo è la missione di tutta la sua
vita di scrittore, con cui Platone si proponeva di mostrare che Socrate non era un
sofista. È per questo motivo che scrisse i dialoghi socratici, nei quali l’ethos,
per così dire, la potenza morale della dialettica di Socrate vengono messi in luce in
maniera convincente, con il risultato che alla fine persino le figure importanti di quel
tempo avevano dovuto dargli più o meno ragione, riconoscendo di non sapere nulla, e che
pertanto Socrate era più saggio di tutti loro. Queste stesse cose valgono poi non solo
per costoro: c’è infatti un altro arditissimo pensiero di Platone, vale a dire
l’idea di un Socrate che discute con i sofisti, quelli con i quali fu sempre confuso.
Un’invenzione: possiamo infatti dire, con una certa sicurezza, anche in base ad altre
fonti, che egli non ha scambiato con nessuno di loro mai neanche una parola e che
probabilmente non incontrò mai Protagora o Gorgia, o altri sofisti come loro. Piuttosto
egli colse le conseguenze di questa dottrina sofistica sulla gioventù ateniese e sulla
moralità pubblica, e ne fece oggetto della sua critica. Pertanto, se consideriamo
l’opera dialogica di Platone, possiamo essere sicuri intanto che anche laddove
Socrate vi compare come virtuoso della confutazione, Platone intenda dimostrare che non fu
un sofista. Ed è per questo che lo pone in un confronto vincente con i sofisti:
Protagora, Gorgia e gli altri.
Ma, oltre a questo, nell’evoluzione degli scritti platonici,
troviamo qualcosa di assolutamente inconsueto: che cioè un pensatore di enorme potenza
concettuale, capace di essere in campo matematico, se non proprio lo scienziato di punta,
per lo meno l’ispiratore di nuove vie (a Platone risalgono certi problemi di
astronomia matematica, da lui sottoposti ai suoi contemporanei, e altro ancora) –
insomma che un uomo siffatto, che ha concepito calcoli astratti sulle variazioni e ha
anticipato computazioni complicatissime sulla probabilità matematica e altri rompicapi
del genere, al tempo stesso sia stato uno dei massimi talenti poetici della letteratura
universale.
Credo sia un evento unico e forse irripetibile nella storia della
filosofia, che uno dei massimi pensatori sia stato al tempo stesso anche un grande
scrittore. E del resto è cosa nota, grazie anche all’incredibile spessore di cui
Platone ha dotato la figura di Socrate nelle diverse circostanze di vita, molto al di là
della semplice arte confutatoria, dotandolo delle capacità di un
visionario.
E poi c’è, come tutti sanno, questo Stato ideale l’idea di
una città ideale organizzata in modo tale che in essa vi sia solo la giustizia e nessuna
iniquità, che vi sia fatto soltanto il bene e mai niente di male, e questo viene
presentato come un ideale, che naturalmente possiamo qualificare solo col concetto di
utopia. Credo che però dovremmo seguire l’esempio di Aristotele, che per primo si
divertì a criticare chiunque prendesse sul serio, anzi troppo sul serio questa utopia
platonica.
LA REALIZZAZIONE DI UN IDEALE
Tutti
conoscono le singolari proposte che Platone avanza per la realizzazione di questa città
ideale: la promiscuità delle donne, la comunanza dei figli e cose simili, per poi
discutere in tutta serietà, se sia anche possibile realizzare effettivamente tutto ciò.
E allora si dice: "Ah, questa non è certo una difficoltà; basta prendere tutti
quelli che hanno più di dieci anni, allontanarli dalla città e tenere solo i bambini per
costruire questo nuovo tipo di comunità". Ebbene! Bisogna davvero essere degli
eruditi accecati da troppa erudizione per prendere sul serio una proposta del genere! Qui
però bisogna vedere che si tratta di una considerazione critica, concernente i pericoli
dei legami familiari per la sussistenza dello Stato, le insidie del nepotismo e della
protezione che deriva dall’appartenenza a certi gruppi familiari o clan di
affiliati, tutte cose che per la sana vita comune, per il sano senso dello Stato,
rappresentano una minaccia. Perciò si può leggere in realtà la Repubblica di
Platone piuttosto come uno scritto critico, pensato per una opinione pubblica alquanto
estesa, e volto a mostrare quanto sia assurda, in fin dei conti, quella "cosa
pubblica" di cui, fra gli altri, anche il venerato maestro Socrate fu a suo tempo
vittima. Dunque, non c’è da stupirsi che ciò avvenga anche in altri dialoghi, nel
celebre Simposio, oppure nel Fedro, nei quali Platone ci mostra un Socrate
che addirittura si delizia di grandi fantasie mitiche, mentre con tutta la maestria di un
artista rende anche credibile questo mondo di miti come una fantastica trasvolata al di
sopra di una ben più modesta verità logica. Ebbene, tutto questo c’è senza dubbio
nell’opera platonica, ma quello che più di tutto ci deve interessare è il modo in
cui, in Platone, prende forma una sintesi filosofica del pensiero greco che lo ha
preceduto. Sarà poi Aristotele a richiamarvisi, e su ciò dovremo soffermarci, poiché si
tratta di uno dei capitoli più controversi della filosofia greca.
L’iniziatore della dottrina delle idee sarà criticato dal suo allievo
più importante, Aristotele (se consideriamo a fondo i dialoghi platonici, ne troviamo
già qualche traccia), giacché Platone avrebbe formulato una teoria dualistica in cui due
mondi non potrebbero però coesistere, e perciò dovrebbe essere considerata, per così
dire, come una deviazione del pensiero. E per la verità tutto ciò è già presente nel Parmenide
di Platone – dove si critica il pensiero dualistico. Questa è la più grande di
tutte le difficoltà nella teoria delle idee: pensare che le idee siano per gli dèi e che
il nostro sapere empirico sia per noi, uomini mortali. È Parmenide a dirlo, di fronte al
giovane Socrate, affermando che questa è l’aporia più seria, il più grave errore
nella comprensione delle idee.
Sono problemi che dovremo affrontare: che cosa ha affermato Platone, in
realtà, a proposito delle idee? E perché Aristotele ha operato un tale rovesciamento,
tanto da essere considerato da tutta la storia della filosofia come un critico esasperato
di Platone? Naturalmente le cose non stanno proprio in questi termini. C’è infatti
un celebre passo di Aristotele che dice: "Sono amico di Platone, ma più ancora amo
la verità". Quindi la sua critica, le sue modifiche, si legano sempre a ininterrotta
amicizia e ammirazione per Platone. Sono tutte questioni alle quali ci dedicheremo nei
prossimi incontri.
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Il Tao della physis:
Eraclito e il taoismo
da
Il Tao della filosofia
di Giangiorgio Pasqualotto
L'Associazione Italia-Cina è
lieta di pubblicare il primo capitolo per gentile concessione dell'autore e
della casa editrice Il Saggiatore
Capitolo primo
Di Eraclito si narra che attaccò gli Efesii
che avevano mandato in esilio l'amico Ermodoro dicendo loro: "Gli Efesii,
dai giovani in su, dovrebbero tutti impiccarsi per quello che è il loro merito e
lasciare la città ai fanciulli" 1.
Si racconta poi che "alla fine, preso dal
fastidio degli uomini, se ne andò a vivere sui monti nutrendosi d'erba e
di piante selvatiche" 2. Antistene, inoltre, ricorda che Eraclito rinunciò
al regno in favore del fratello 3.
Questi tre fatti: apologia della fanciullezza,
ritiro dalla vita pubblica, rinuncia al potere, segnano anche la vita e i
discorsi dei saggi taoisti. Nel Tao Tê Ching la figura del bambino come
prototipo di saggezza viene usata più volte e viene ripresa anche nel Chuang
Tzu 4.
Nel Chuang Tzu troviamo anche
un'indicazione per il ritiro dalla vita sociale: "Per chi vuole evitare di
prendersi cura della forma nulla di meglio che rinunciare al mondo. Rinunciando
al mondo è privo di legami, essendo privo di legami è corretto ed equilibrato,
essendo corretto ed equilibrato consente alla forma di rinnovarsi, rinnovandosi
tocca il limite dei suoi giorni" 5. In questo passo emerge anche il senso
profondo della fuga dal vivere "civile": essa infatti non è un puro e
semplice abbandono, una rinuncia dettata soltanto dal risentimento, ma è un
movimento di purificazione, un esercizio di áskesis, al fine di spezzare
i legami della "forma", ossia le catene imposte da ruoli stereotipati,
da rapporti di valore e di potere prestabiliti, da convenzioni valide solo perché
iterate. Il quadro generale, in cui questa rinuncia alla vita comunitaria va
inserita, è pertanto definito dalle parole: "Per l'uomo sommo non esiste
l'io, per l'uomo sovrannaturale non esiste il merito, per l'uomo santo non
esistono nomi". E’ chiaro allora il motivo per cui Chuang Tzu può
affermare che "gli uomini santi si vergognano di governare" 7 : non
perché in generale "la politica è sporca", ma perché in alcune
circostanze storiche essa è praticata da uomini per i quali esiste solo il loro
io, da persone che agiscono solo per acquistare "meriti" in forma di
denaro o di gloria, ossia da individui che vivono "in nome di"
qualcosa o qualcuno, e che considerano i nomi, le forme, le etichette delle cose
come la verità delle cose. I saggi taoisti, al pari di Eraclito, non
abbandonano la convivenza sociale e la vita politica sulla base di una
motivazione ontologica o metafisica, ma perché, ad un certo punto, quando
dominano i signori dell'io, i fanatici del merito, i drogati dai nomi, la
socialità e la politica diventano invivibili: Eraclito, allora, va al tempio a
giocare agli astragali coi bambini perché i suoi concittadini, gli Efesii,
hanno esiliato Ermodoro, il Migliore; e i saggi taoisti si ritirano sui monti o
in luoghi apportati quando la violenza feudale uccide la "Virtù della Vita
comune" (shih wei thung tê) 8. Tuttavia Chuang Tzu mette in guardia
contro un pericolo assai comune, per il quale chi si ritira a vita nascosta
rischia sempre di comportarsi ancora in base ai valori dell'io, del merito, del
nome: "Aguzzare l'ingegno per rendere nobili le azioni, abbandonare il
mondo per diversificarsi dal volgo, parlar alto per disapprovare astiosamente:
lo si fa solo per mettersi al di sopra. Questo è quel che amano i letterati che
si ritirano sui monti e nelle forre, gli uomini che disapprovano il mondo;
destinati agli alberi secchi e alla corsa verso l'abisso" 9.
Vi è infine un'altra analogia tra il
comportamento di Eraclito e quello dei saggi taoisti: l'esercizio del consumo
minimo, l'áskesis contro lo spreco. Narra Temistio che gli Efesii, pur
assediati dai Persiani, non riuscivano a por freno ai loro sprechi: a
testimoniare che si può vivere con poco, Eraclito prese un.po' di farina
d'orzo, la intrise d'acqua e si mise a mangiarla 10. E Chuang Tzu racconta che
il saggio taoista Shih nan tzu visse conforme a queste parole: "Rendi
minimi i tuoi consumi e scarse le tue brame ed anche senza provviste avrai a
sufficienza" 11.
Il confronto tra Eraclito e i saggi taoisti non
interessa tuttavia né soltanto né in primo luogo gli aspetti biografici: anzi,
interessa soprattutto i contenuti filosofici degli scritti che il pensatore
greco e i saggi cinesi ci hanno lasciato. Un primo confronto riguarda i concetti
di physis e di Tao. Contro la legittimità di questa prima e
fondamentale analogia si potrebbe obiettare che, propriamente, Tao non significa
"Natura", che in cinese si rende piuttosto con Tzu jan. Si può
rispondere ricordando che Tzu jan significa letteralmente "ordine
spontaneo" e che, proprio in tale accezione, si avvicina molto al
significato di Tao che di solito viene tradotto con "via", ma
che, con maggior rigore, andrebbe tradotto con "ordine della natura",
come ha suggerito Needham 12. "Ordine della natura" che, però, non va
inteso quale sinonimo di "struttura statica", di "schema" d
ella natura, né come insieme delle leggi di natura, ma piuttosto come ciò che
fa essere ciascuna cosa, ciascun fenomeno e le infinite combinazioni di cose e
fenomeni, così come sono. In questo "fa essere" non v'è traccia di
un rapporto creazionistico: il Tao "veste e nutre le creature ma non se ne
fa signore" 13 e "le fa vivere ma non le tiene come sue" 14. Il
Tao è dunque l'ordine immanente della natura, l'infinita forza
creativa/distruttiva, ossia trasformatrice, della natura: si potrebbe dire
sinteticamente che esso si identifica con la potenza generale della
natura, assumendo "potenza" nell'accezione più vicina al senso
etimologico originario di potentia, derivato da potis esse, esser
capace. Ma Tao è termine che indica anche la natura propria, specifica,
di ogni ente o insieme di enti, ovvero la qualità intrinseca di ogni fatto o
insieme di fatti. In tal senso si potrebbe dir e che Tao si identifica
con Tê che indica "virtù" non secondo un'accezione
moralistica di "comportamento adeguato ad una norma etica", ma secondo
un'accezione "biologica" che rende meglio il significato originario di
virtus, di "capacità". Pertanto il Tao non è soltanto ciò
che fa essere ogni cosa quella che è, ma anche il modo d'essere di
ogni cosa: esso non è soltanto "il grande Tao" 15, il Tao come
potenza generale, ma è, contemporaneamente, il Tao come potenza particolare,
quello che fa sì che il cielo non si squarci, che la terra non si fenda, che la
valle non si inaridisca, che le creature non si spengano, 16, quello che fa sì
che "un trave può aprire una breccia, ma non può otturare un buco"
17. Usando una terminologia cara alla più vieta scolastica filosofica si
dovrebbe dire a questo punto che il Tao è contempor aneamente - ergo
paradossalmente - Uno e molti, Universale e particolare, Generico e specifico,
Trascendente e immanente. Ma, proprio dove la scolastica filosofica occidentale
separa e definisce sulla base di opposizioni, sono da cercare, nelle differenze,
le ragioni e le forze delle connessioni: per quanto riguarda il Tao, allora,
appare chiaro che ogni cosa, realizzando se stessa, segue il proprio Tao e,
seguendo il proprio Tao, realizza il "grande Tao". In un famoso
aneddoto taoista il cuoco Ting dice al principe Wen-hui che si meraviglia per la
sua abilità nello squartare un bue: "Ciò che il suddito ama è la via [
...] La preferisce all'abilità. Quando il suddito cominciò a squartare buoi
non vedeva altro che il bue, dopo tre anni già non vedeva più il bue intero,
oggi lo considera con lo spirito non lo guarda cogli occhi. Mi astraggo dalla
conoscenza dei sensi e procedo secondo la volontà dello spirito, attenendomi ai
principi natural i: attacco i grandi interstizi e m'apro una via nelle grandi
cavità, seguendone il corso naturale" 18. Ciò significa che seguendo
quello che, malamente, si potrebbe definire "Tao dell'oggetto", ossia
seguendo "il corso naturale" degli interstizi e delle cavità, il
cuoco realizza il "grande Tao"; non solo: nel momento in cui realizza
il "Tao dell'oggetto" e il "grande Tao", il cuoco realizza
anche la propria natura, estrinseca la propria potentia, pratica
la propria virtus o Tê , realizza, insomma, il proprio Tao. In effetti,
col tagliare nel migliore dei modi ossia seguendo la "natura della
cosa" il cuoco realizza anche la propria natura, e, nell'eseguire queste
due "operazioni", ne esegue in realtà una sola: realizza il grande
Tao, cioè "è nella Via". La grande via non è infatti separata dalle
"vie" particolari: queste non si danno se non c ome segni di quella,
ma quella non esiste se non nell'infinita varietà di queste. Usando una
terminologia tratta dalla migliore tradizione filosofica occidentale, si
potrebbe dire che il "grande Tao" è la condizione di possibilità per
ciascun Tao particolare: che la grande Via è il trascendentale di ogni
"via" individuale. Nel Lieh Tzu ciò viene spiegato molto bene,
anche senza l'aiuto dei concetti kantiani. L'autore elenca venti tipi di
comportamento umano, divisi in cinque gruppi di quattro; per ciascun gruppo
dice: "passano insieme nel mondo, ciascuno seguendo la propria inclinazione
e conclude dicendo: "Questi sono i comportamenti della generalità degli
uomini. Non sono identici per l'apparenza ma sono eguali nella Via, che si
riconduce al decreto celeste" 19.
Ora, di per sé, il grande Tao non può
essere detto o indicato: ciò che appare e che può essere detto o indicato è
il Tao particolare di una cosa o di un fatto. Il grande Tao, per mantenere la
sua qualità di "condizione di possibilità" per ogni Tao particolare,
deve tenersi nascosto 20 e vuoto 21. Se il grande Tao si potesse
indicare o dire diverrebbe immediatamente un "piccolo Tao", il Tao di
una cosa o di un evento particolare, il Tao di una parola o di un gesto
individuale. D'altra parte si è visto con l'aneddoto del cuoco Ting che una
cosa e un evento, realizzando il proprio Tao, ossia essendo se stessi in
condizioni di spontaneità, realizzano anche il grande Tao: ciò significa che
quest'ultimo non può esistere se non nella costellazione infinita delle
determinazioni; ciò comporta che può essere considerato nascosto solo
"astrattamente", cioè solo come deno minatore comune ricavato dalla
molteplicità infinita delle determinazioni. Quindi il grande Tao: a) non può
essere assolutamente palese perché, per esserlo, dovrebbe determinarsi in
qualcosa di particolare; b) non può essere assolutamente nascosto perché, se
così fosse, non se ne potrebbe parlare e non si potrebbe nemmeno pensarlo.
Riprendendo le famose metafore del vaso, della finestra e del mozzo contenute
nel capitolo XI dei Tao Tê Ching, si può dire allora che se il Tao come
vuoto fosse assoluto, ossia separato dalle funzioni dei vaso, della
finestra e del mozzo, non esisterebbero né vaso, né finestra né mozzo;
d'altra parte, se il Tao come vuoto si determinasse completamente nel vaso,
nella finestra e nel mozzo, al punto da identificarsi con questi oggetti e con
le loro funzioni, esso non esisterebbe. E Tao come vuoto è invece condizione
di possibilità di questi oggetti e delle loro funzioni, &e grave; il
loro "trascendentale": in tal senso esso è simultaneamente
universale-trascendente e individuale-immanente, proprio come l'aria è diffusa,
comune, "universale" e, contemporaneamente, propria del respiro di
ogni essere vivente 22. Il Tao non è dunque nascosto come se fosse un Assoluto
trascendente o una divinità separata dal mondo, ma nel senso che non è
immediatamente manifesta la connessione tra universale e particolare che
lo costituisce.
Analogo ragionamento può esser fatto a
proposito del concetto di physis usato da Eraclito. Per cogliere
l'analogia è tuttavia necessario innanzi tutto sgombrare il campo dagli
equivoci che potrebbero sorgere dalla etimologia privilegiata da Heidegger
secondo la quale il termine physis deriverebbe dalla radice pha- e
sarebbe da ricondursi nell'area semantica di pháino e pháinomai e
dunque ai significati di "mostrare" e "mostrarsi" 23. Il
termine physis deriva in realtà dalla radice phy- che rimanda ai
significati concentrati attorno al verbo phyo che indica,
transitivamente, l'azione di "nutrire", "far crescere
(qualcosa)" e, intransitivamente, l'attività di "nutrirsi",
"crescere" 24. La Natura, dunque, è ciò che nutre le cose, che le fa
crescere, ma, contemporaneamente, è anche il modo in cui le cose, nutrendosi,
crescono; ossia, in altri termi ni, essa è anche la "natura propria"
di ciascuna cosa, il suo proprio modo d'essere che coincide come si vedrà
meglio più avanti col proprio modo di divenire, di trasformarsi, di
crescere. Ora, venendo ad Eraclito, abbiamo un solo frammento in cui esplicítamente
si parla di physis, ed è un frammento tra i più enigmatici: "La
natura ama nascondersi (physis kryptesthai philéi) 25. Alla luce della
precisazione etimologica appena ricordata viene da chiedersi: quale natura
ama nascondersi? Quella generale che nutre ogni cosa, o quella propria a
ciascuna cosa, a cui accenna lo stesso Eraclito nel frammento n. 1? 26. Non
troppo nascosta deve essere questa seconda, dato che la "natura propria di
ciascuna cosa" per lo più appare chiaramente nell'essere una cosa quella
che è e non un'altra . Più incline a nascondersi in particolare ai tempi di
Eraclito in cui le scienze naturali non avevano fatto grandi passi oltre la
soglia dell'animismo appare la natura in generale, quella Natura universale che
prenderà poi vari nomi: "Leggi di Natura", "Ordine
universale", "Principi di Natura", ecc. Tuttavia ciò che da
sempre risulta più nascosto, più segreto, più difficile da cogliere e da
studiare, è il fatto che la Natura universale e le nature particolari, ossia ciò
che fa crescere e i modi di ciò che cresce non sono disgiungibili: ciò che fa
crescere non potrebbe darsi senza le infinite cose che fa crescere, né queste
potrebbero esistere senza quello. Ciò che la natura nasconde non è la sua
essenza universale né i suoi modi particolari, ma il nesso che lega
quella a questi, proprio come, a proposito dei Tao, ciò che si nasconde non è
il grande Tao né il Tao di ciascuna cosa, ma il nesso tra il primo e il secondo.E’
un frammento di Eraclito che aiuta a compre ndere il carattere connettivo della physis:
"Connessioni: intero e non intero, convergente divergente, consonante
dissonante: e da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose" (syllápsies
óla kai óla, sympherómenon diapherómenon, synádon diádon, kai ek pánton
én kai ex enós pánta) 28. L'interessante di questo frammento non
sta tanto nella presentazione del concetto di syllápsis già di per sé
interessante perché, come si vedrà, è assimilabile a quelli di lógos xunós
e di armoníe aphanés ma sta nel fatto che la connessione è relativa a
coppie di contrari: ciò significa, alla. luce di quanto abbiamo detto finora,
che la Natura universale non è una sostanza semplice che si determina secondo
un andarnento "verticale", come se essa stesse sotto o sopra
e, in ogni caso, pr ima delle nature particolari, ma si dispiega
"orizzontalmente" nella molteplicità infinita dei contrari, delle
differenze, delle opposizioni. Physis non è dunque ente metafisico che
si incarna ora in questa ora in quella creatura dell'universo, ma è energia
diffusa in quanto forza che fa crescere, presente in ogni essere vivente: ed
è forza che fa crescere mediante una dinamica differenziale, attraverso
connessioni di contrari.
La forma della syllápsis interessa la
Natura anche per un secondo aspetto o, per meglio dire, ad un secondo livello:
infatti la Natura non è solo energia che produce enti o eventi mediante
connessioni di contrari ma è la condizione d'esistenza di ogni possibile
connessione. La syllápsis, cioè, non si stabilisce soltanto tra le
singole cose contrarie o tra aspetti contrari di ciascuna cosa, ma anche tra le
cose e ciò che rende possibile ogni syllápsis. Il frammento di
Eraclito, infatti, per spiegare dove agisce la connessione indica innanzitutto
una serie di contrari ("intero non intero, convergente divergente"
ecc.) e specifica poi la relazione tra le cose e l'Uno ("e da tutte le cose
l'uno e dall'uno tutte le cose"): ciò che la Natura ama nascondere di sé
è la capacità di produrre cose ed eventi secondo la regola dei contrari, ma è
anche la relazione intrinseca tra sé e le co se. Ciò che, in definitiva, la
natura ama nascondere è costituito proprio da queste due modalità di syllápsis:
le connessioni tra le cose che essa continuamente produce, e la
connessione tra le infinite connessioni e se stessa come energia infinitamente
producente. A questo riguardo è importante che Eraclito affermi "da tutte
le cose l'uno", perché ciò significa che l'uno, la Natura, non è un ente
metafisico che esiste separato dalle cose, nelle quali, in un secondo momento,
si manífesta, ma è un universo costituito dalle cose stesse.
Tuttavia la Natura non è riducibile alla somma
di tutte le cose: non solo perché non si dà somma di infinite cose, ma
perché la Natura è condizione d'esistenza delle infinite cose, così
come il numero uno è condizione d'esistenza degli infiniti numeri. Il
"mistero" della connessione di primo livello (tra le cose) e di
secondo livello (tra la Natura e le cose) si chiarisce ulteriormente se ci si
rifà alla metafora taoista del vuoto usata nel racconto del cuoco Ting: la
realizzazione del Tao nell'arte della macellazione consiste nel saper utilizzare
il contrasto pieno-vuoto, ma anche nel sapere che il vuoto è uno, comune tanto
all'oggetto (il bue) quanto al soggetto (il cuoco) che si fa vuoto per
meglio cogliere e percorrere i vuoti dell'oggetto. Parimenti la funzione e,
quindi, l'esistenza del vaso, della finestra, del mozzo, è data dalla relazione
di contrasto, dalla syllápsis tra pieno e vuot o, ma, nel contempo, il
vuoto è uno nel senso che è comune condizione di funzionalità, ossia di
esistenza, di ogni cosa. Analogamente al Tao, la physis è "natura
propria" di ciascuna cosa secondo il modo della syllápsis dei
contrari e, contemporaneamente, è Natura universale in quanto condizione
d'esistenza comune alle infinite cose. Quel "contemporaneamente" ha
evidentemente un valore radicale: significa che il grande Tao, la natura
universale, non è causa degli infiniti Tao particolari, delle singole
"nature proprie", ma è costituito da essi; d'altra parte i
singoli Tao, le "nature proprie", non sarebbero senza il grande Tao,
senza la Natura universale che le "nutre". E’ questo il senso delle
parole di Eraclito "da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose";
senso che si ritrova, identico, nel Chuang Tzu: "le diecimila
creature ed io siamo l'Uno" 29.
Ora, se si prende il capitolo II del Tao Tê
Ching, si può trovare un discorso assai simile a quello contenuto nel
frammento 19 di Eraclito: "essere e non essere si danno nascita fra loro/
facile e difficile si danno compimento fra loro/ lungo e corto si danno misura
fra loro/ alto e basso si fanno dislivello fra loro/ tono e nota si danno
armonia fra loro/ prima e dopo si fanno seguito fra loro" 30. Ciò che
importa qui, come nel caso delle opposizioni indicate da Eraclito (intero-non
intero ecc.), non è la natura dei termini delle opposizioni, ma la qualità del
rapporto di opposizione, ossia la natura della syllápsis: non si
tratta infatti di un contrasto statico, dove i contrari si fronteggiano nella
loro reciproca estraneità, ma di un contrasto dialettica dove un termine
sussiste solo perché sussiste il termine opposto, dove, cioè, si realizza
dinamicamente una complementarità ontologica. E questo, evidente, il
senso dei verso "essere e non essere si danno nascita fra loro"; senso
che diventa chiarissimo da questo passo del Chuang Tzu che anticipa di
quasi un millennio il centro della dialettica hegeliana:
Si chiarisce allora, alla luce di questo passo
straordinario, anche l'apparente contraddizione tra il fatto che il Tao è
"madre delle diecimila creature" 32 e il fatto che "sembra il
progenitore delle diecimila creature" 33 : il Tao è, certo, ciò che fa
nascere le diecimila creature, ma non come appare superficialmente ai più
secondo il modo di un Sommo Creatore diverso per natura e superiore per valore
rispetto alle creature, ma come è chiaro al saggio che ne coglie la dinamica
nascosta secondo il modo in cui le "creature" stesse si danno
reciproca nascita, che è il modo della connessione dinamica tra opposti
complementari. Il Tao, come la physis, non è trascendente rispetto alle
cose: è invece la "via ", il modo in cui le cose esistono e,
contemporaneamente, la condizione per cui esistono; questa "via",
questo modo è, in Eraclito, quello della syllápsis dei contrari e, nel
taoismo, quello della "nascita reciproca" 34. Nulla meglio della
polarità Yin/Yang prototipo di ogni polarità indica l'impossibilità di
intendere il Tao come qualcosa di trascendente 35. Com'è noto Yin e Yang
in origine designavano, rispettivamente, la parte in ombra e la parte al
sole di una montagna. Ora niente di meglio di questa esemplificazione empirica
mostra che la connessione di complementarità tra contrari non è disgiungibile
dall'"oggetto" a cui si riferisce: il lato in ombra e il lato al sole
sono inseparabili non soltanto tra loro, poiché appartengono alla
medesima montagna, ma anche dalla montagna stessa, la quale non può darsi se
non avendo un lato in ombra e uno al sole, così come una giornata non può
esistere senza avere una parte cli giorno e una di notte 36. Quindi Yin e
Yang non sono derivazioni del Tao, ma suoi costitutivi modi
d'essere: anzi, a rigore, si dovrebbe dire "suo costitutivo modo
d'essere", dato che il Tao non si dà mai soltanto nella forma Yin o
soltanto in quella Yang, ma, sempre, in un nesso di polarità reciproca
di Yin e Yang. Parimenti, i contrari eraclitei non derivano dalla physis
come sue "creature", ma costituiscono, nella loro reciproca
tensione dinamica, il modo di funzionamento della physis, ossia il suo lógos.
Ora proprio il termine 1ógos denota il modo d'essere e di operare
della physis non soltanto in senso generico, ma in quel senso specifico
che emerge grazie alla mediazione del concetto di syllápsis: infatti il
modo d'essere e di operare della Natura è connotato, come si è visto, da una
serie infinita di connessioni, e il significato a cui rimanda il termine lógos
è proprio "rapporto", "nesso" 37. Quindi lógos, al
pari di syll ápsis, è termine e concetto che sta ad indicare il modo
d'essere e di operare della physis. Lo stesso Eraclito sembra voler
ribadire un'analogia di fondo tra lógos e syllápsis, tra
l'attività dei emettere insieme", "legare" (léghein) e
quella del "raccogliere", "riunire" (syllambánein):
nel frammento 6, infatti, sostiene che, dando ascolto al lógos, "è
saggio dire che tutte le cose sono una" 38 ; ciò equivale a dire che, non
appena si comprende il nesso che lega tutte le cose, si comprende che
"da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose" (fr. 19). Nel
frammento 7, poi, Eraclito rafforza ulteriormente il carattere connettivo dei lógos,
dicendo che esso è xynós, "comune" nel senso di
"appartenente ad ogni cosa" 39. Quindi il lógos, proprio in
quanto ness o, connessione, syllápsis, è xynós, comune a
tutte le cose, ossia è ciò che garantisce la relazione tra tutte le cose. Si
è visto peraltro che tale relazione non è accidentale, non si instaura tra
cose che già esistono indipendentemente da essa, ma è sostanziale, nel senso
che le cose esistono solo perché sono in relazione di contrasto
complementare 40; si è visto anche che questa relazione di contrasto
complementare è il modo d'essere e di operare della physis. Quindi
risulta evidente che la realtà a cui rimandano i concetti di lógos, xynós,
syllápsis è quella di un operare secondo connessioni che è proprio
della physis.
Se alla Natura è proprio il connettere che si
ritrova al fondo dei léghein, dello xynéin e del syllambánein,
ad essa appartiene anche l'armózein che sta alla base dell'armoníe
di cui parla Eraclito nei frammenti 26 e 27. Ed è proprio nel frammento 27
che si trova il miglior commento alle parole "la natura ama
nascondersi": "Armonia invisibile della visibile è migliore".
Ora, ricordando che alla base di armoníe sta
il verbo armózein che significa "connettere",
"collegare", e che la modalità costitutiva dell'essere e dell'operare
della Natura è proprio il connettere che si ritrova al fondo di lógos,
di xynós e di syllápsis, si può dire che ciò che la Natura ama
nascondere è la propria struttura e la propria funzione connettiva.
A questo punto potrebbe sorgere un problema: se
syllápsis, lógos e armoníe indicano tutti la funzione
della Natura di connettere, collegare, riunire, come si può sostenere che anche
il contrario, ossia pólemos, il conflitto, il contrasto, sia xynós, comune,
secondo quanto Eraclito dice al frammento 15? 41 Innanzitutto si dovrebbe
osservare che, in generale, il conflitto non è che una forma specifica di
relazione, di connessione; ma, in particolare, si deve far notare che in
Eraclito è proprio la tensione che caratterizza il conflitto a produrre armoníe,
come risulta chiaramente dal frammento 20 ("Non intendono come da sé
discordando seco stesso concordi") e, ancor più chiaramente, dal frammento
26 ("Armonia che da un estremo ritorna all'altro estremo come nell'arco e
nella lira") e dal frammento 24: "Ciò che contrasta concorre e da
elementi che discordano si ha la più bella armonia" 42. Il contrasto, pólemos,
tra le estremità che vengono tenute insieme nella lira e nell'arco, è
proprio ciò che consente non solo il realizzarsi della forma di questi
due strumenti, ma anche e soprattutto il dispiegarsi della loro funzione: senza
contrasto le due estremità non potrebbero stare assieme,
"armonizzarsi", e senza questa "armonizzazione" di contrari
lira e arco semplicemente non esisterebbero 43. Questa armonìa, proprio perché
si fonda sul conflitto, è invisibile (afanés): l'armonia visibile si
fonda invece su un'omogeneità statica, come nel caso della simmetria. E proprio
perché possiede un carattere conflittuale è migliore, "più forte" (kréisson):
l'armonia visibile, fondata sull'identità e sull'immobiiítà degli elementi
che essa tiene assieme, non produce nulla, si dà come puro oggetto di
contemplazione; al contrario l'armonia invisibile, in quanto fondata sulla
differenza e, quindi, sulle tensioni da questa prodotte, genera azione, dà
origine a movimenti molteplici, siano essi i diversi tiri dell'arco o le varie
note della lira.
A questo punto, allora, si può ribadire che ciò
che la Natura "ama nascondere è la propria struttura e funzione connettiva
denotata dai concetti di lógos, xynós, syllápsis, armoníe;
ma si deve anche aggiungere che tale struttura e funzione connettiva ha come
carattere fondamentale, costitutivo, il conflitto, pólemos: esso è alla
base dei léghein, dello xynéin, del syllambánein, dell'armózein;
ed è esso che rende migliore l'armonia invisibile rispetto a quella visibile.
Si può dunque affermare che ciò che la Natura "ama nasconderei non è
solo la propria capacità di produrre connessione, ma anche la qualità conflittuale
di tali connessioni 44.
La logica che presiede al discorso di Eraclito,
contenuto dei frammenti 20, 24, 26, si ritrova, pressoché identica, non solo ai
vv. 7-12, già ricordati, dei capitolo II del Tao Tê Ching ("essere
e non-essere si danno nascita tra loro", ecc.), ma anche ai vv. 1-6 del
capitolo LXXVII: "La Via dei cielo/ com'è simile all'armar l'arco/ Quel
ch'è alto viene abbassato/ quel ch'è basso viene innalzato/ Quel che eccede
viene ridotto/ quel che difetta viene accresciuto/ La Via del Cielo/ è di
diminuire a chi ha in eccedenza e di aggiungere a chi non ha a
sufficienza". Con l'operazione di armare l'arco, nella quale si esplicita
la tensione che tiene legate le due opposte estrernicà, si produce "da più
bella armonia" di cui parla Eraclito al frammento 24: mediante una
"discordia" si produce quella "concordanza" a cui si allude
nel frammento 20. Per Eraclito questa connessione dialettica che produce a
rmonia mediante conflitto non è un modo tra i tanti con cui opera la Natura, ma
è il modo fondamentale con cui essa si dispiega producendo cose ed eventi:
"il conflitto è padre di tutte le cose e di tutte è re" (frammento
14). Analogamente, per i taoisti, il nesso tra Yin e Yang non è
un nesso tra gli altri, non è uno dei tanti rapporti tra opposti, ma è il
prototipo di ogni rapporto oppositivo, anzi, l'unico nesso in grado di
spiegare la costituzione delle cose e la formazione degli eventi: "Le
creature volgono le spalle allo Yin/ e volgono il volto allo Yang/
il ch’i infuso le rende armoniose" 45. Il Chuang Tzu è
ancora più chiaro al proposito, ed illustra anche le diverse modalità in cui
il nesso fondamentale tra Yin e Yang si dà: "Lo yin e
lo yang si riflettono, si sovrappongono, si regolano l'un l'altro; le
quattro stagioni s'av vicendano, si danno origine e fine l'un l'altra. Da ciò
sorgono potenti l'attrazione e l'odio, da ciò si hanno immutabili la
separazione e l'unione del maschio e della femmina. Sicurezza e pericolo si
danno il cambio a vicenda, prosperità e avversità si originano a vicenda, agio
e disagio si compensano a vicenda. Da essi si formano l'unione e la dispersione.
Questi sono i nomi di cui è riscontrabile la realtà e l'essenza. Regolano
reciprocamente l'ordine del loro susseguirsi, inducono reciprocamente il
volversi dei loro turni. Quando sono giunti au'estremo limite v'è il ritorno,
quando l'uno è giunto alla fine l'altro comincia. Questo è quanto le creature
ottengono, quanto le parole esprimono interamente e quanto la sapienza
raggiunge: è la norma suprema. L'uomo che guarda il Tao non prosegue fin dove
cessano né risale fin dove cominciano. Qui è dove s'arresta ogni
discussione" 46 . Lo Yin e lo Yang operano dunque secondo la
modalità dell'alternanza, come nell'esempio taoista dei giorno e della
notte (CT, VII, XXI, 146), e dei prima e dopo che "si fanno seguito
fra loro" (TTC, II, v. 12); modalità che è presente nel frammento
41 di Eraclito: "Le cose fredde si scaldano e le calde si fanno
fredde".
Lo Yin e lo Yang operano poi
secondo la modalità della complementmtà, come nei casi, già ricordati,
del nesso sé-altro da sé (CT, I, II, 11) e di quello tra oriente e
occidente (CT, VI, XVII, 108), e come nel caso del nesso freddo-caldo:
"Il sommo yin è algore, il sommo yang è calore: l'algore
s'alza verso il cielo, il calore si diffonde verso la Terra. L'intreccio di quei
due forma l'armonia e le creature vengono alla vita" 47; modalità della
complementarità presente anche nei frammenti di Eraclito: nei già citati 24 e
26, e nel frammento 35: "La malattia rende piacevole la salute e di essa fa
un bene, la fame rende piacevole la sazietà, la fatica il riposo".
Yin e Yang operano inoltre
secondo la modalità della continuità; Lieh Tzu, a questo proposito,
afferma: "Il principio è la fine di qualcosa, la fine è il principio di
qualcos'altro" 48 ; ed Eraclito, in consonanza quasi letterale, dice:
"Nel circolo principio e fine fanno uno" 49; ancora più chiara si
manifesta questa modalità nel frammento 22: "La stessa cosa sono il vivo e
il morto, il desto e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi mutando
trapassano in quelli e quelli ritornano a questi" 50 ; queste parole
di Eraclito sembrano ispirare quelle di Chuang Tzu: "Per chi conosce la
gioia celeste la vita è un moto secondo natura, la morte un cambiamento di
forma" 51 ; "Il crescere e il decrescere, il pieno e il vuoto, quando
l'uno ha fíne l'altro ha principio" 52.
A questo punto uno schema fondamentale di
analogie tra il pensiero di Eraclito e quello dei taoisti classici appare
sufficientemente delineato: la physis, al pari del Tao, si configura come
produzione incessante di nessi; il modo di questo produrre è nascosto solo nel
senso che non è immediatamente evidente che la "natura propria",
ovvero il "Tao di ciascuna cosa", sono contemporaneamente la Natura in
generale, ovvero il grande Tao; in ogni caso, sia per la physis che per
il Tao la produzione di nessi avviene attraverso mediazione di contrari che si
alternano, si bilanciano, si rendono complementari.
Per delineare questo schema nel modo più
conciso e coerente possibile sono stati trascurato alcuni punti fondamentali in
cui i due orizzonti di pensiero si incontrano. In particolare è da ricordare
che, tanto per Eraclito che per i taoisti, l'universo è senza inizio e senza
fine: "Questo cosmo né alcuno degli dei lo fece né alcuno degli
uomini, ma fu sempre, ed è e sarà, fuoco di eterna vita, che si accende con
misura e si spegne con misura" 53, secondo le parole di Eraclito; e secondo
le parole di Chuang Tzu, ancora più concise: "Non v'è passato né
presente, non v'è principio né fine" 54 ; o, secondo quelle di Lieh Tzu:
"La vita a cui è stata data vita è mortale, ma quello che dà vita alla
vita non ha mai fine" 55 ; o, secondo quelle del Tao Tê Ching:
"Il Cielo è perpetuo e la Terra perenne" 56 ; "Ad andargli [al
Tao] incontro non ne vedi l'inizio/ ad andargli appresso non ne vedi il
poi" 57.
Notevolissima rilevanza hanno inoltre le
consonanze che riguardano il tema dell'impermanenza di ogni cosa: ad
Eraclito che dice "La stessa cosa sono il vivo e il morto" (E,
22, 1) sembra replicare Chuang Tzu con le parole "non siamo mai morti e non
siamo mai vivi" 58 ; Eraclito, dicendo che "nello stesso fiume
entriamo e non entriamo" (E, 16), che "il fiume in cui entrano
è lo stesso, ma sempre altre sono le acque che scorrono" (E, 52),
che "il sole è nuovo ogni giorno" (E, 49), sembra anticipare
Chuang Tzu: "Sotto il cielo tutto affonda e riemerge senza mai perire"
59, e sembra riprendere il Tao Tê Ching: "un turbine di vento non
dura una mattina/ un rovescio di pioggia, non dura una giornata./ Chi opera
queste cose?/ Il Cielo e la Terra./ Se perfino il Cielo e la Terra non possono
persistere/ tanto più lo potrà l'uomo?" 60.
Infine il tema della relatività, sul
quale Eraclito e Chuang Tzu convergono in maniera quasi letterale. Il primo,
infatti, ci ha lasciato scritto: "Il mare è l'acqua più pura e la più
incontaminata: i pesci la bevono e li tiene in vita, agli uomini è imbevibile e
dà la morte" 61 e il secondo. "I pesci vivono stando nell'acqua, gli
uomini stando nell'acqua muoiono" 62.
Se sul tema dell'infinità dell'universo, su
quello dell'impermanenza di ogni cosa e su quello della relatività il confronto
tra Eraclito e il taoismo classico produce convergenza esplicite che toccano
talvolta i livelli dell'equivalenza, vi è peraltro un tema attorno al quale la
convergenza, pur essendo meno esplicita e radicale, appare ancor più
interessante: il tema della saggezza. Innanzitutto Eraclito e i taoisti classici
si incontrano nella condanna dell'erudizione che scambia il conoscere
molte cose col sapere molto. E’ nota la critica di Eraclito alla polymathía.
"Il sapere molte cose non insegna ad avere intelletto" 63. Ancor più
radicale e insistente la critica taoista ad ogni forma di conoscenza formale e,
in particolare, a quella praticata dai confuciani: nel Tao Tê Ching si
ricorda che "quando apparvero intelligenza e sapienza s'ebbero le grandi
imposture" , e che tralasciando la santità e ripudiando la sapienza
"il popolo si avvantaggerà" 65 per cui "il governo del santo
svuota il cuore al popolo e ne riempie il ventre" 66 ; e Chuang Tzu
proclama con forza: "Grande, invero è il disordine che reca nel mondo
l'amore per la sapienza. […] La sapienza superficiale conturba il mondo"
67. Questa critica alla "sapienza superficiale, alla cultura formale, si
specifica ulteriormente in una critica alla tradizione, alla cultura
intesa solo come patrimonio di conoscenze sacre, immobili e immutabili: questa
critica è rintracciabile in Eraclito, nel frammento 95, dove afferma che
"non bisogna comportarsi come figli dei padri"; e, ancor più, nel
frammento 126, quando, dicendo "ho indagato me stesso", implicitamente
esclude che la propria sapienza si sia costruita sulla base di dottrine
precedenti, di tradizioni consolidate. Una critica ancor più esplicita si trova
in Chuang Tzu, quando chiede: "Sei capace di custodire in te l'unità? di
non smarrirti? di capire la fortuna e la sfortuna senza bisogno di divinazione?
di restare nella tua sorte? di non seguire le antiche tracce?" 68.
Le concordanze tra il pensiero di Eraclito e
quello taoista non si danno tuttavia soltanto in negativo, sul piano critico,
ma, anzi, divengono ancora più forti quando riguardano, in positivo, la
proposta di un comune modello di saggezza. Per quanto sostiene Eraclito al
proposito sono decisivi due frammenti, il 6, dove sta scritto che "è
saggio dire che tutte le cose sono una", e il 13, dove è detto che
"una è la sapienza, conoscere la mente che per il mare del Tutto ha
segnato la rotta del Tutto": la saggezza, dunque, sta nel saper cogliere ciò
che la natura "ama nasconderei di sé, ossia la struttura e la funzione di syllápsis
mediante la quale ogni cosa interagisce con le altre in un sistema infinito di
"armonie conflittuali"; in altri termini, saggezza è capacità (potentia,
virtus, tê) di cogliere il fatto che "tutte le cose sono
una" nel senso che "da tutte l e cose l'uno e dall'uno tutte le
cose" 69: cogliere questo significa conoscere il modo con cui opera
la "mente dei Tutto", ossia il lógos con cui opera la physis.
Analogo il "ragionamento" taoista: "le diecimila creature ed
io siamo l'Uno" 70; questa connessione universale costituisce
"l'orditura dei Tao" 71 ; questa "orditura del Tao" è
prodotta e continua a prodursi secondo la modalità per cui "essere e
non-essere si danno nascita fra loro" 72; sapienza è saper cogliere questa
"orditura" e il modo con cui si produce: perciò "la grande
sapienza tutto abbraccia, la piccola sapienza distingue ; per questo la
"sapienza collega" 74. Ma la physis, al pari dell'orditura del
Tao, non è l'oggetto di contemplazione o di indagine dei saggio che sta,
rispetto ad esso, in una posizione esterna o, addirittura, superiore:
saggezza, infatti, significa anche saper cogliere se stessi come elementi di un
sistema infinito di syllápsies, come "nodi" di
un'"orditura infinita". Questa precisazione sembra chiaramente
implicita nel frammento di Eraclito che dice "Bisogna spegnere la dismisura
(hybrin) più che le fiamme di un incendio" 75 : se la realtà è
costituita cla un insieme infinito di connessioni prodotte dalla physis, l'uomo
in generale, ma anche il saggio, è un elemento particolare di tale insieme, uno
degli infiniti casi di connessione, non il centro di un universo finito che può
formare e dominare a piacere, con "tracotanza" (hybris); anzi:
la saggezza del saggio sta proprio nello "spegnere" questa tracotanza,
questa dismisura che tende a trasformare un caso di connessione nel centro
di tutte le connessioni. Che la saggezza consista nel riconoscere la
connessione tra le cose e nel frenare la hybris è tema cos tante degli
scritti taoisti: "Appaiono separate o unite, perfette o guaste, le creature
non hanno perfezione o guasto, ma sono ancora identiche fra loro. Solo chi ha
un'intelligenza penetrante riconosce che sono identiche fra loro. Pertanto
costui non s'ingegna ma si rimette a ciò che è invariabile: l'invariabilità
è l'utilità, l'utilità è comprensione, la comprensione è ottenimento.
Giunto all'ottenimento ha finito e quindi s'arresta. Arrestarsi senza sapere
perché è così dicesi Tao" 76. Il saggio, colui "che ha un'intelligen
za penetrante, non coltiva l'erudizione, non "s'ingegna" ad apporre
etichette, ad abusare delle parole 77, a perpetuare pregiudizi 78 : non presume
di "sistemare" la realtà una volta per tutte, si limita a
conoscere e seguire "la natura delle cose" 79.
Questa consonanza di fondo tra l'idea di
saggezza presente in Eraclito e quella ribadita dai taoisti non può che
produrre un atteggiamento comune anche nei confronti dell'impossibilità di
comunicarla mediante i semplici strumenti dei sapere concettuale e dei codici
linguistici: pertanto Eraclito che constata come "non intendono gli uomini
questo Discorso che è sempre né prima di uclirlo né quando una volta lo hanno
udito" 80, sembra essere lo stesso che, nel Tao Tê Ching, ha lascia
to scritto: "Le mie parole con assai facilità s'intendono/ e con assai
facilità si attuano, ma nessuno al mondo sa intenderle,/ nessuno al mondo sa
attuarle" 81.
La concordanza di Eraclito e dei taoisti nel
trovare difficoltà a comunicare il loro "facile" discorso non è
casuale né superficiale: essa si radica in un comune modo d'intendere l'origine
e la struttura della saggezza. Eraclito, infatti, nel frammento 76 connette
direttamente la saggezza al conoscere se stessi 82 e, nel frammento 126, dice
"ho indagato me stesso" (edizésamen emeoytón): ciò significa
che il costruire la saggezza coincide con l'indagare se stessi. Considerazioni
analoghe troviamo nei testi taoisti: "Quando il santo governa cura forse
l'esteriore? Si corregge e poi agisce, sicuro di riuscire nelle sue
imprese" 83 ; "Correggere se stessi, null'altro. La pienezza della
felicità sta nel realizzare le proprie aspirazioni" 84 ; "Chi compie
viaggi esteriori cerca la completezza nelle cose, chi si dà alla contemplazione
interiore trova la sufficienza in se stesso" 85 ; "Senza uscir dalla
porta/ conosci il mondo/ senza guardar dalla finestra scorgi la Via del Cielo/
Più lungi te ne vai meno conosci" 86 "Chi ostruisce il suo varco/ e
chiude la sua porta/ per tutta la vita non ha travaglio/ chi spalanca il suo
varco/ ed accresce le sue imprese/ per tutta la vita non ha scampo" 87. A
prima vista le affermazioni eraclitee e l'insistenza taoista sulla necessità di
volgersi au'interiorità sembrano voler suggerire una via solipsistica alla
saggezza 88. Una simile conclusione sarebbe tanto affrettata quanto
insostenibile, a meno di non voler considerare questi passi di Eraclito e dei
taoisti in modo astratto, isolandoli da altri passi che ne completano ed
approfondiscono il significato. Per questo lavoro di completamente e di
approfondimento è sufficiente, nel caso di Eraclito, ricordare il contenuto
della seconda parte del frammento 6: è saggio dire che tutte le cose sono una
89. Ora l'io, il soggetto e la sua interiorità non si sottraggo no alla legge
universale, al lógos xynós in forza del quale "tutte le cose sono
una"; in altri termini, anche il "se stessi" del frammento 76 e
il "me stesso" del frammento 126 si costituiscono, al pari di
"tutte le cose", non come elementi isolati e fissi, ma come risultati
provvisori di syllápsies sempre diverse, come prodotti
"aperti" di connessioni sempre nuove. Analogamente, i passi taoisti
appena citati, apparentemente favorevoli ad una via interiore alla saggezza,
esplicano il loro significato più autentico e integrale se vengono letti e
pensati alla luce dei passi, già ricordati, in cui è detto che "le
diecimila creature ed io siamo l'Uno" 90 e che "ogni essere è altro
da sé, e ogni essere è se stesso"". Anche qui, come nel caso di
Eraclito, il significato è chiaro: la soggettività, come qualsiasi altro
"essere", si costituisce solo in rapporto ad altri "esseri",
in una dialettica di "nascita reciproca". Ciò non entra affatto in
contraddizione col richiamo all'interiorità per la costruzione della saggezza:
l'interiorità è un campo di indagine particolarmente adatto - forse solo perché
più prossimo alla soggettività - per osservare struttura e funzionamento della
realtà. Indagando se stessi non si perviene a un nucleo interiore saldo e puro
- come, per esempio, nel caso del cogito ottenuto da Cartesio mediante
dubbio metodico - ma, al contrario, si giunge a constatare la struttura dinamica
e relazionale (dinamica perché relazionale) dell'io 92. La saggezza, in
definitiva, consiste nel saper cogliere questa struttura: al contrario la polymathía,
per Eraclito, e la "sapienza superficiale", per i taoisti,
concepiscono la realtà come un insieme di cose irrelate e fisse, deserivibile
con qualche sistema di definizioni isolat e e immutabili. Il processo con cui si
diventa saggi non comporta dunque la perdita della soggettività, ma, al
contrario, l'ottenimento di una soggettività che è tanto più ampia
quanto più manifesta di essere costituita e di svilupparsi mediante connessioni
infinite 93. In tal senso si può equiparare, con Eraclito, la saggezza alla mania
94 e, con i taoisti, la saggezza alla condizione di vuoto (wu) 91; con
l'avvertenza, però, che ciò non significa affatto un cedimento a forme di
irrazionalità, ma produzione di una razionalità più complessa, per la
quale non soltanto il mondo ma anche il soggetto umano è solo in quanto si
trasforma mediante infinite connessioni conflittuali: per essa la Natura (physis)
non equivale a Materia (hyle), ma a ciò che cresce e fa crescere
mediante interazioni (syllápsies) di differenze; per essa Tao non
equivale a Nulla, ma al modo con cui ciascuna cosa nasce, vive e muore essendo
sempre, contemporaneamente, sé e altro da sé.
Nota 1: Diogene Laerzio, Raccolta
delle vite e delle dottrine dei filosofi, IX, 1, 2.
Nota 2: Ibid., IX, 1,
3
Nota 3: Ibid., IX, 1, 6.
Nota 4: Cfr. Tao Tê
Ching, XX, v. 13 e LV, v. 2 (in Testi taoisti, a cura di F. Tomassini,
Torino 1977). Cfr. anche Chuang Tzu, VIII, XXIII, 171 (in Testi
taoisti cit., p. 534). D'ora in poi, nelle note, il Tao Tê Ching verrà
indicato con la sigla TTC, il Chuang Tzu con la sigla CT e
il Lieh Tzu con la sigla LT.
Nota 5: CT, VII, XIX,
121. Ma Lieh Tzu mette in guardia contro i due estremi di chi "se ne va
dalla terra del suo villaggio, abbandona i sei parenti, rovina gli affari
familiari, viaggia per ogni dove senza tornare" e di chi, all'opposto,
"dà importanza alla forma e alla vita, esalta l'abilità e la capacità,
cura la fama e la lode" (LT, 1, 9).
Nota 6: CT, I, 1, 3.
Nota 7: CT, V, XII, 85.
Cfr. anche CT VI, XVII, 112; IX, XXVII, 223; IX, XXIX, 230 e l'intero
capitolo XXVIII del libro IX.
Nota 8: Cfr. J. Needham,
Scienza e civiltà in Cina, tr. Torino 1983, vol. 11, p. 125.
Nota 9: CT, VI,
XV, 105.
Nota 10: Themistios, Perí
aretés, 41, "Rheincisches Museum für Philologie", 27, 1872, p.
457.
Nota 11:CT, VII, XX,
136. Cfr. anche TTC, XLVI.
Nota 12: Cfr. J. Needham, op.
cit., p. 47. Per la traduzione dei termine Tzu Jan con
"natura" cfr. A.W. Watts, Il Tao: la via dell'acqua che scorre, tr.
Roma 1977, pp. 58-59.
Nota 13: TTC, XXXIV, vv.
6-7.
Nota 14: TTC, LI, v. 13.
Nota 15: Cfr. TTC, XXV,
Nota 16: Cfr. TTC, XXXIX,
vv. 11-20
Nota 17: CT, VI, XVII,
108.
Nota 18: CT, II, III,
20.
Nota 19: LT, VI, 85.
Nota 10 Cfr. TTC, I e
XIV.
Nota 21: Cfr. TTC, XI.
Nota 22 Cfr. Da Liu, Il Tao
e la cultura cinese, tr. Roma 1981, p. 92: "Il termine ch’i
viene normalmente tradotto "vitalità", ma lo si può rendere anche
con "respiro". Viene considerato un tipo di energia vitale che pervade
il corpo e perfino lo spazio che lo circonda, un'energia che sostiene il
movimento e tutte le attività dell'esistenza quotidiana. Lo si identifica anche
col respiro, poiché la sua funzione corroborante e purificatrice dei tessuti in
tutto il corpo si compie mediante la sua circolazione attraverso i "canali
psíchici", che è coordinata con il ciclo respiratorio". Per la
funzione "spirituale" della respirazione nel taoismo cfr. anche K.
Schipper, Il corpo taoista, tr. Roma 1983, pp. 47- 48; Ch. Luk, 1
segreti della meditazione cinese, tr. Roma 1965, Cap. VI; I. Granet, Il
pensiero.cinese, tr. Milano 1971, pp. 301 sgg.; J. Blofeld, Taoismo. La
ri cerca dell'immor talità, tr. Roma 1979, Cap. 8.
Non è superfluo ricordare che
anche nella lingua e nella cultura greca, originariamente, il termine e il
concetto di psyché designava il "respiro che tiene in vita" (cfr.
B. Snell, La cultura greca e Le origini del pensiero europeo, tr. Torino
1963, pp. 28-30); e che psyché deriva da psycho che significa
"soffio", "respiro". Nessuna connotazione spiritualista del
concetto di psyché si trova nei frammenti di Eraclito: "le anime
sono evaporazioni delle acque" (tr. it. di C. Diano, in Eraclito, 1
frammenti e le testimonianze, Milano 1980, frammento 52, p. 27). Ma anche in
Aristotele restano tracce del significato originario di psyché, in
particolare là dove sostiene l'indissolubilità di anima e corpo (Aristotele, De
anima, 11, 413 a).
L'analogia della psyché di
cui parla Eraelito con la nozione di "respiro vitale" è stata colta
molto bene da C.H. Kahn, The Art and Thought of Heraclitus, Cambridge
1979, pp. 237-242.
Nota 23: Cfr. M. Heidegger, Introduzione
alla metafisica, tr. Milano 1968, p. 81.
Nota 24: Cfr. P. Chantraine, Dictionnaire
éthymologique de la langue grecque, Paris 1968, 11, pp. 1233-1234. Per una
discussione sul termine physis cfr. G.S. Kirk, Heraclitus. The Cosmic
Fragments, Cambridge 1954, pp. 228-231.
Nota 25: Eraclito, I
frammenti e le testimonianze cit., frammento 28, p. 19 (d'ora in poi questa
edizione verrà indicata con la sigla E seguita dal numero del frammento
utilizzato).
Nota 26: E, 1: "Non
intendono gli uomini questo Discorso […] essi che di parole e di opere fanno
pure esperienza, identiche a quelle che io espongo distinguendo secondo la sua
natura e mostrando come è".
Nota 27: Cfr. C. Diano, G.
Serra, Commento a Eraclito, I frammenti e le testimonianze cit.,
p. 137.
Nota 28: E, 19. Su altre
metafore usate da Eraclito per rendere il concetto di syllápsis, cfr. N.
Boussoulas, Essai sur la structure du Mélange dans la pensée présocratique.
Héraclite, "Revue de Métaphysique et de Morale", 3, 1955, pp.
287- 298.
Nota 29: CT, I, 11, 14.
Nota 29:TTC, II, vv.
7-12. Sulla traduzione di hsiang sheng con "nascita reciproca"
o equivalenti espressioni concordano quasi tutti i traduttori italiani: A.
Castegani (Fírenze 1954: "si generan l'un l'altro"); P. Siao Sci-Yi
(Bari 1947: "si producono a vicenda"); L. Lanciotti (Milano 1981:
"reciprocamente si generano").
Nota 31: Zhuang-zi, tr.
it. condotta su quella francese di Liou Kia-hway, Milano 1982, pp. 23-24. Questa
traduzione è da preferire a quella del Tomassini (CT, p. 359) perché più
accessibile a un lettore contemporaneo, sebbene sia meno fedele al testo
originale.
Nota 34: Del tutto fuorviante
appare quindi l'interpretazione di Guénon secondo il quale il Tao è da
intendersi come un "unico principio appartenente in quanto tale ad un
ordine superiore di realtà" (R. Guénon, La Grande Triade, tr.
Milano 1980, p. 25). Guénon non solo intende il rapporto Tao-realtà secondo un
ordine gerarchico che non compare in nessun testo taoista ma, a questa
distorsione, aggiunge anche quella di un antropocentrismo non soltanto assente
ma addirittura messo in crisi dalla visione del mondo taoista (cfr. Ibid.,
p. 3 1).
Nota 35: Sullo Yin e Yang cfr.
in particolare J.C. Cooper, Yin e Yang, tr. Roma 1982; Zheng Wenguang, Xi
Zezong, Le cosmologie cinesi, tr. Roma 1978, pp. 46 sgg.; M. Granet, op.
cit., pp. 87-110; J. Needham, op. cit., pp. 323 sgg., e pp. 552 sgg.;
Capra, Il Tao della fisica, tr. Milano 1982, pp. 165 sgg.
Nota 36: Cfr. E, 36:
"Il divino è giorno-notte" (o theós emére eufronè). E’ da
notare che Eraclito non dice "giorno e notte", quasi a voler
sottolineare la loro complementarità, la loro interdipendenza, ossia, in
termini taoisti, la loro "nascita reciproca". Un'eco quasi letterale
delle parole di Eraclito risuona in questo passo di Chuang Tzu: "Tra giorno
e notte non c'è distacco e non so in qual momento finiscano" (CT, VII, XXI,
146).
Nota 37: Lo stesso Diano che ha
argomentato le ragioni per tradurre lógos con "discorso" (cfr.
Commento cit., pp. 89-109), nel tradurre il frammento 40, è costretto a
renderlo con "rapporto". Heidegger ci sembra sia stato l'unico che ha
ricondotto il significato di lógos all'attività del raccogliere (cfr.
M. Heidegger, Heraklit. Den Anfang des Abendländischen Denkens. Logik.
Heraklits Lehre vom Logos, in Id., Gesamtausgabe (Abt 2: Vorlesungen
1923-1944, LV), Frankfurt am Main 1979, pp. 226-270. Sul concetto di lógos
in Eraclito cfr. anche: E. Kurtz, Interpretationen zu den
Logos-Fragmentem Heraklits, Hildesheim 1971 e G. Neesse, Heraklit Heute, Hildesheim
1982, pp. 59-63. Il Laurenti, per evitare un eccesso di equivoci che può
derivare dal tradurre lógos nelle lingue moderne, preferisce mantenere
il termine greco: cfr. R. Laurenti, Eraclito, Bari 19 74, p. 52. Sul r
apporto Lógos-Tao cfr. P. Woo, Begriffsgeschichter Vergleich zwischen Tao,
odós und logós bei Chuang-tzu, Parmenides und Heraklit, München 1969.
Nota 38: E, 6: "Non
a me ma dando ascolto al Discorso, è saggio dire con esso che tutte le cose
sono una".
Nota 39: E, 7:
"Perciò bisogna seguire ciò che è comune: il Discorso è comune, ma i più
vivono come avendo ciascuno una loro mente".
Nota 40: A partire dal
contenuto del frammento 10 ("Comune a tutti è pensare") si potrebbe
affermare che non solo le cose ma anche i pensieri esistono solo
in quanto si costruiscono attraverso relazioni.
Nota 41: E, 15:
"Bisogna avere alla mente che il conflitto è comune ad ambo le parti e
giustizia è contesa, e tutto accade seguendo la legge della contesa e della
necessità". Ma il conflitto è "comune" anche in un senso più
generale e radicale, come suggerisce l'apertura dei frammento 14: "Il
conflitto è padre di tutte le cose e di tutte è re".
Nota 42: Cfr. CT, VI,
XVII, 108: "Quando sai che l'oriente e l'occidente sono opposti l'uno
all'altro ma l'uno non può essere senza l'altro, ti appare certa l'universalità
dei servigi".
Nota 43: Diano ha giustamente
notato che l'armonia è funzionale e non formale, dinamica e non statica, in
quanto il termine palíntonos implica che la tensione armonica non è, ma
scorre da un'estremità all'altra: essa esiste solo in quanto si muove da
un'estremità a quella opposta e viceversa; ciò vuol dire che senza estremità
in contrasto, essa non sarebbe (cfr. C. Diano, Commento cit., p. 136).
Nota 44: Questo
"nascondimento" non ha nulla a che fare con l'inconoscibilità, e
quindi non autorizza alcuna interpretazione esoterica o irrazionalistica. Lo
stesso Eraclito avverte: "L'io credo è morbo sacro" (E, 62) e
"Trastulli di bimbi sono le credenze degli uomini" (E, 63). Che la natura
ami nascondersi non esime dal compito di studiarla ma, anzi, lo suscita:
"Di molte cose devono acquistare la scienza quelli che dicono di cercare la
sapienza" (E, 81) e "Una è la sapienza, conoscere la mente che
per il mare del Tutto ha segnato la rotta del Tutto" (E, 13), dove
è evidente che "la mente" (ghnóme) non è nient'altro che la Physis
che opera mediante syllápsies, e non una "intelligenza
trascendente" come ha ritenuto Diano (cfr. C. Diano, Commento cít.,
p. 113). Ciò risulta chiaro, tra l'altro, osservando che "la men te che
per il mare del Tutto ha segnato la rotta del Tutto" si identifica con la
"legge della contesa e della necessità" seguendo la quale "tutto
accade" (E, 15): la "mente" del Tutto non è che la Natura
che opera connessioni conflittuali.
Nota 45: TTC, XLII, vv.
5-7.
Nota 46: CT, VIII, XXV,
199.
Nota 47: CT, VII, 21,
147. Cfr. anche CT, VI, XVII, 108.
Nota 48: LT, V, 60; cfr.
anche LT, IV, 54; CT, V, XIV, 99; e TTC, XLV, vv. 8-10.
Nota 49: E, 30; cfr.
anche E, 31: "La via in su e la via in giù sono una e la
medesima".
Nota 50: Cfr. anche E,
21: "Immortali mortali, mortali immortali: viventi la morte di
quelli, morenti la vita di questi"; ma anche E, 40 ("La terra
si fa mare e il mare si spande e nella sua misura conserva il medesimo
rapporto") ed E, 41 ("Le cose fredde si scaldano e le calde si
fanno fredde, le umide si fanno sec- che e le aride molli").
Nota 51: CT, V, XIII,
88.
Nota 52: CT, VI, XVII,
108.
Nota 53: E, 37.
Nota 54: CT, VII, XXII,
165. Cfr. anche CT, VI, XVII, 108: "Nelle creature la dimensione non
ha limite, il tempo non ha sosta, la sorte non ha costanza, il principio e la
fine non hanno motivo"; CT, VII, XXV, 199: "L'origine che
scorgiamo è un andare illimitato, la fine che investighiamo è un venire
incessante"; CT, VII, XXI, 147: " ... il principio e la fine si
confrontano là dove non esiste bandolo, ma nessuno ne conosce i limiti".
Nota 55: LT, I, 3. Cfr.
anche LT, V, 60 e LT, I, 1: "Ciò che vive non può
non vivere, ciò che si trasforma non può non trasformarsi. Eterno vivere ed
eterno trasformarsi significa vivere sempre e sempre trasformarsi, al pari dello
yin e dello yang, al pari delle quattro stagioni".
Nota 56: TTC, VII, v. 1.
Nota 57: TTC, XIV, vv.
16-17. Cfr. anche TTC, IV e VI.
Nota 58: CT, VI, XVIII,
120. Cfr. anche CL, III, VI, 45; VI, XVII, 116 e 117; VII, XXII 159 e 155:
"Le diecimila creature sono una cosa sola, ma ciò che esse trovano bello
è la vitalità e l'individualità, ciò che trovano brutto è il fetore e la
putrefazione. Ma il fetore e la putrefazione si trasformano in vitalità
e individualità, la vitalità e l'individualità si trasformano in fetore e
putrefazione".
Nota 59: CT, VII, XXII,
156.
Nota 60: TTC, XXIII, vv.
3-8; cfr. anche IX, vv. 5-6. Cfr. anche LT, IV, 51: "Ti diverti perché le
cose non sono mai le stesse, senza sapere che anche noi non siamo mai gli
stessi".
Nota 61: E, 34; cfr.
anche E, 42, 98, 99, 100.
Nota 62: CT, VI, XVIII,
119. Cfr. anche CT, I, II, 15: "Se l'uomo dorme nel bagnato
si prende il mal di reni e resta mezzo paralizzato: è così anche per
l'anguilla?"; e anche CT, I, I, 1; VI, XVII, 108.
Nota 63: E, 82; cfr.
anche E, 88: "Pitagora di Mnesarco attese alla ricerca più di ogni
altro uomo, e fatta raccolta dei libri ad essa dedicati, trasse da quelli la sua
sapienza, il suo sapere molte cose e la sua arte di frode".
Nota 64: TTC, XVIII, vv.
3-4.
Nota 65: TTC, XIX, v.
1-2.
Nota 66: TTC, III, vv.
7-9. E’ da ricordare che con "cuore" si traduce il termine cinese hsin,
che significa anche "mente". Tenendo presente questa integrazione
e parafrasando, si potrebbe dire che il governo del saggio consiste nel liberare
il cuore dei popolo date passioni e la mente del popolo dai
pregiudizi, dalla dittatura delle "etichette". Per la traduzione di Shêng
jên con "saggio" anziché con "santo" cfr. il Capitolo
II del presente libro.
Nota 67: CT, IV, XI, 66.
Nota 68: CT, VIII, XXIII,
171 (corsivo nostro). Cfr. anche CT, VI, XV, 105: "[Il saggio]
rigetta la sapienza e le antiche tradizioni"; e CT, IX, XVI, 207:
"Stimare l'antico e disprezzare l'odierno è il vezzo degli studiosi [ ...
]. Solo l'uomo sommo è capace di camminare nel mondo senza appartarsene e di
adeguarsi agli uomini senza perdere se stesso, di imparare dagli altri senza
studiare e di accettarne le idee senza considerarle aliene".
Nota 69: E, 19.
Nota 70: CT, I, 11,
14.
Nota 71: TTC, XIV, v.
21.
Nota 72: TTC, II, v. 7.
Nota 73: CT, I, II, 10
Nota 74: CT, VIII, XXIII,
174.
Nota 75: E, 108:
"Hybrin chré sbennúnai mállon é pyrkaién". G. Colli traduce
così: "La tracotanza è necessario estinguerla più del divampare di un
incendio" (G. Colli, La sapienza greca, Milano 1982, III, p. 79).
Nota 76: CT, I, II, 12.
Nella traduzione a cura di Liou Kia-hway si ha: "Questa unità,
dividendosi, forma gli esseri; e, formando gli esseri, essa si distrugge. Così
ogni essere non ha compimento né distruzione, perché viene riassorbito
nell'unità originaria. Solo l'illuminato sa che la comprensione conduce
all'unità, così egli respinge i propri pregiudizi per attenersi alla giusta
misura. La giusta misura permette la pratica, la pratica porta a un risultato,
il risultato è il conseguimento. Giungere al conseguimento è vicino al Tao.
Bisogna affermare i fatti. Compiere senza sapere perché, ecco il Tao" (Zhuang-zi
cit., p. 25). Questo "senza sapere perché" non significa affatto
rinuncia alla conoscenza scien- tifica, ma rinuncia alla presunzione di
una conoscenza metafisica che pretenda di dare risposte definitive agli
"ultimi" perché. Cfr. queste paro le di Lieh Tzu: "E’ errata
tanto l'affermazione che il cielo e la terra si sfasceranno quanto quella che
non si sfasceranno. Se si sfasceranno o non si sfasceranno, non posso
saperlo". Per vedere come il taoismo non fu affatto antiscientifico ma,
anzi, sia stato promotore della ricerca e della "sperimentazione"
scientifica, cfr. J. Needham, op. cit., pp. 42-193.
Nota 77: Cfr. CT, V,
XIII, 95: "Gli scritti altro non sono che parole. Se nelle parole v'è
qualcosa di pregevole sono le idee. Se nelle idee v'è qualcosa di accettabile,
ciò che in esse è accettabile non può esser tramandato a parole". Cfr.
anche CT, IX, XXVI, 211: "Lo scopo delle parole è l'idea: afferrata
l'idea metti da parte le parole".
Nota 78: Nella traduzione a
cura di Liou Kia-hway si ha "respinge i propri pregiudizi" invece di
"non s'ingegna".
Nota 79: Cfr. E, 75:
"Massima virtù è aver senno, e sapienza è dire il vero e operarlo da
uomo che conosce e che segue la natura delle cose".
Nota 80: E, I, 1-2.
Nota 81: TCC, LXX, vv.
1-4. La corrispondenza tra le parole di Eraclito e quelle del Tao Tê Ching non
sta solo nel fatto che, per entrambi, la maggior parte degli uomini non intende
il loro discorso, ma anche nel fatto che non l'intende pur essendo esso alla
portata di tutti. "... è come se non ne avessero esperienza, essi che
di parole e di opere fanno pure esperienza" (E, 1,4-5; cfr. anche E,
2 ed E, 3: "Non le pensano queste cose quelli che se le trovano
davanti, né quando ne hanno udito parlare le conoscono anche se essi questo lo
credono"); cfr., nel Tao Tê Ching, oltre ai versi appena ricordati
dei capitolo LXX, anche questi del capitolo LIII: "La gran Via è assai
piana/ ma la gente preferisce i sentieri" (TTC, LIII, vv. 4-5).
Nota 82: E, 76: "A
tutti gli uomini è dato conoscere se stessi e non andare oltre il limite"
(anthrópoisi pási métesti ghinóskein eoytoús kai sofronéin). Sofronéín
è tradotto con "avere senno" dal Walzer (Fírenze 1936, p. 146) e con
"avere saggezza" dal Mazzantini (Toríno 1945, p, 183).
Nota 83: CT, III, VII,
50 (cfr. Zhuang-zi cit., p. 71: "Il Santo non dirige gli uomini
dall'esterno. Corregge dapprima se stesso, e così la sua influenza si estende.
Solo dalle sue capacità discende la sua forza"). Questo vuol dire che
l'interiorità non è in alcun modo staccata dall'esteriorità: data la syllápsis
universale, nel momento stesso in cui si opera su di sé, si opera sul
mondo. Cfr. TTC, XXII, vv. 7-8: "Per questo il santo preserva l'Uno/
e divien modello al mondo"; cfr. anche CT, III, VII, 51:
"Diletta il cuore nell'insipidezza, accorda il ch’i
all'indifferenza, segui la spontaneità delle creature senza ammettere alcun
interesse egoistico e l'impero sarà governato" (Zhuang-zi cit., p.
71: "Pratica il distacco [...] concentrati sul silenzio, conformati alla
natura degli esseri, sii senza egoismo. Allora gli uomini saranno in pace"
). Se il lavoro sull'interiorità produce spontaneamente effetti sull'esteriorità,
è evidente che ogni pedagogia della saggezza diviene superflua: "il
Tao non può essere trasmesso" (CT, VII, XXII, 155).
Nota 84: CT, VI, XVI,
107 (cfr. Zhuang-zi cit., p. 141: "Riforma te stesso, ecco tutto.
Chi si contenta di conservare la propria integrità è felice").
Nota 85: LT, IV, 51.
Nota 86: TTC, XLVII, vv.
1-5.
Nota 87: TTC, LII, vv. 8-13.
Nota 88: Su questa troppo
facile interpretazione si adagia Tsung Tung Chang, Metaphysik, Erkenntnis und
praktische Philosophie im Chuang-tzu, Frankfurt am Main 1982, p. 75. Vi è
stato addirittura chi ha visto nel richiamo di Eraclito alla conoscenza di sé
un'anticipazione di tematiche cristiane (cfr. S. Arcoleo La conoscenza di sé
come processo di interiorizzazione in Eraclito, "Sapienza": 29,
1976, pp. 5-17).
Nota 89: Cfr. anche la seconda
parte del frammento 19: "e da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le
cose".
Nota 90: Cfr. CT, I, II,
14. Cfr. Zhuang-zi cit., p. 27: "Tutti gli esseri e me stesso siamo
una cosa sola".
Nota 91: Cfr. Zbuang-zi cit.,
p. 23 (cfr. CT, I, II, 11).
Nota 92: Che l'interiorità non
sia un blocco chiuso appare chiaramente anche dal frammento 51 di Eraclito:
"I confini dell'anima vai e non li trovi, anche a percorrere tutte le
strade: così profondo è il Discorso che essa comporta". Il contenuto di
questo frammento è, al proposito, sufficientemente esplicito, ma lo diventa
ancor di più se si tiene presente che lógos - qui tradotto da Diano con
"Discorso" - richiama l'idea di syllápsis; allora il frammento
può essere parafrasato così: sono tali e tante le connessioni che l'anima
comporta, che la sua identità e la sua definizione non sono in alcun modo
raggiungibili.
Nota 93: Si può quindi parlare
di "perdita" della soggettività solo se ci si riferisce a un tipo di
soggettività che si presume e si immagina come cosa dai confini definiti
e stabili; ciò non è invece possibile se si è in grado di pensare a un tipo
di soggettività che si dà come campo di attività dai limiti variabili.
In tal senso tanto Eraclito quanto i taoisti classici possono essere visti
"all'altezza" della psicanalisi e dei suoi sviluppi.
Nota 94: Cfr. E, 119:
"La Sibilla con la bocca della follia dà suono a parole che non hanno
sorriso né abbellimento né profumo, e giunge con la sua voce al di là
di mille anni, per il nume che è in lei". Sul collegamento saggezza-follia
cfr. G. Colli, La nascita della filosofia, Milano 1983, p. 21.
Nota 95: Cfr. TTC, XVI,
XXIX, XXXII, XXXVIII, XLVIII, LXIII, LXXI, LXXVII, LXXXI; LT, II, 17 e IV,
50; CT, I, II, 9; VII, XXII, 155 e IX, XXVI, 208: "In ogni
cosa il Tao non vuole intralci: se è intralciato resta ostruito, se è
continuamente ostruito viene conculcato. Quando è conculcato nascono tutti i
mali" (Zhuang-zi cit., p. 253: "Non si deve tentare di ostruire
una strada. Ne risulterebbe un blocco che fermerebbe il corso naturale delle
cose e farebbe nascere tutti i mali"). Sul farsi vuoti come condizione di
saggezza cfr. Chang Chung Yuan, Creativity and Taoism, New York 1968, pp.
48 sgg.; K. Schipper, op. cit., pp. 231-244; J. Grenier, L'esprit du
Tao, Paris 1957, pp. 105 sgg.
Da Giangiorgio Pasqualotto, "Il
Tao della filosofia. Corrispondenze tra pensieri d'oriente e d'occidente",
Parma, Nuova Pratiche editrice, 1989, pp. 19-47.
Da "http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/maestri/eraclito.htm" : Eraclito Sri Aurobindo Nota dell'Editore nel testo originale inglese
Il testo di "Eraclito" venne pubblicato
per la prima volta sulla rivista mensile Arya dal dicembre 1916 al giugno 1917.
Nel 1941 i sette capitoli vennero riuniti in un libro pubblicato da Arya
Publishing House (Calcutta). Una seconda edizione a cura dello stesso editore è
del 1947. Sri Aurobindo visionò personalmente le bozze di tali edizioni. Una
terza edizione fu pubblicata dal Sri Aurobindo Ashram Trust, Pondicherry, nel
1968. Nel 1972 "Eraclito" venne stampato come parte del sedicesimo volume del
Sri Aurobindo Birth Centenary Library. Il testo di questa edizione (la quarta) è
stato controllato partendo dalla pubblicazione su Arya e dalle edizioni del 1941
e del 1947 e sono stati corretti alcuni errori tipografici.
A cura di Paola Bertoldi
La filosofia ed il
pensiero degli antichi Greci è forse il più intellettualmente stimolante
e limpido che il mondo abbia mai conosciuto. La filosofia indiana delle
origini era intuitiva, capace di stimolare la visione profonda delle
cose e nulla è mai stato concepito di più esaltante e profondo,
rivelatore delle grandi profondità e delle grandi altezze, più potente
nel dischiudere visioni infinite, della Parola divina e ispirata, il
mantra dei Veda e dei Vedanta. Ma quando quella filosofia divenne
intellettuale, precisa, fondata sulla ragione umana, divenne al tempo
stesso rigidamente logica, innamorata della fissità e dei sistemi,
desiderosa di costruire una sorta di geometria del pensiero. Al
contrario, l'antica mente greca era dotata di una precisione fluida, di
una logica indagatrice ma flessibile; l'acutezza e l'attenzione
intellettuale erano le sue caratteristiche fondamentali, proprio in
virtù delle quali determinò il carattere e l'ambito del pensiero
europeo. Non c'è pensatore greco più stimolante del filosofo Eraclito,
che nel suo stile aforistico aggiunge allo stimolo intellettuale moderno
qualcosa dell'antica visione ed espressione psichica ed intuitiva dei
mistici del passato. C'è in lui la tendenza al razionalismo ma non
ancora la fluida chiarezza della mente razionale che fu la creazione dei
Sofisti.
Il Professor R.D. Ranade ha pubblicato recentemente un breve trattato sulla filosofia di Eraclito che per la sua impaginazione sembra parte di un'opera più vasta, ma non si sa di quale opera si tratti. Ci piacerebbe che fosse parte di un insieme di saggi o di una storia della filosofia scritti da questo eminente studioso. Ad ogni modo l'opera è un dono inestimabile perché il professor Ranade possiede ad un livello superlativo la rara capacità di esporre in modo semplice ma completo e di rendere affascinanti argomenti come la filologia e la filosofia spesso ostici, aridi, difficili e sgradevoli per il lettore ordinario. Aggiunge alla chiarezza, alla lucidità e al fascino dell'espressione uno stile di presentazione altrettanto chiaro e limpido, in quel modo perfetto così insito nelle lingue e nelle menti greca e francese ma così raro nella lingua inglese. Nello spazio di diciassette pagine presenta il pensiero dell'antico, enigmatico, Efesino con una chiarezza e un'adeguatezza che ci lasciano incantati, illuminati e soddisfatti. Su un paio di punti particolarmente delicati tendo a non concordare con le sue conclusioni. Egli rifiuta categoricamente l'opinione di Pfleiderer che considera Eraclito un mistico, opinione sicuramente esagerata ed errata per il modo in cui viene esposta, ma che ritengo nascondere un certo grado di verità. Le ingiurie che Eraclito scaglia contro i misteri del suo tempo non sono molto rilevanti. Infatti Eraclito rifiuta gli aspetti di magia oscura, di estasi fisica e di eccitazione dei sensi che i Misteri avevano incorporato almeno in alcuni loro sviluppi finali, nell'ambito del processo di degenerazione che nel secolo successivo avrebbe ridotto gli Eleusini a bersaglio degli scherzi di Alcibiade e compagni. Il suo cruccio è che i riti segreti che il popolo considerava con riverenza superstiziosa ed ignorante "mistificano con empietà quello che gli uomini considerano mistero". Egli si ribella all'approccio oscuro ai segreti della Natura tipico dell'estasi dionisiaca, ma esiste anche un misticismo apollineo luminoso oltre all'oscuro e a volte pericoloso misticismo dionisiaco, un Dakshina (sentiero della mano destra) oltre ad un Vama Marga (sentiero della mano sinistra) nel tantra mistico. Pur non prendendo parte, né essendo un sostenitore di riti o cerimonie, Eraclito ci sorprende rivelandosi se non altro un erede intellettuale dei Mistici e del misticismo, sebbene possa essere considerato un figlio ribelle. Ha qualcosa dello stile mistico, qualcosa dell'intuizione Apollinea dei segreti dell'esistenza. Certamente, come afferma Ranade, il mero esprimersi per aforismi non è misticismo; aforismi ed epigrammi sono spesso, se non sempre, uno sforzo condensato e pregnante dell'intelletto. Ma lo stile di Eraclito, come descritto da Ranade stesso, non è solo aforistico ed epigrammatico ma anche ermetico e tale ermetismo non è soltanto l'oscurità voluta da un filosofo che condensa in modo eccessivo i propri pensieri o che vuole caricarli di troppi significati, ma è enigmatico alla maniera dei mistici, che cercavano di esprimere l'enigma dell'esistenza nel linguaggio stesso dell'enigma. Che cos'è ad esempio quel "Fuoco inestinguibile" nel quale Eraclito trova la sostanza primaria ed imperitura dell'universo e che identifica successivamente con Zeus e l'eternità? O cosa intende con "il fulmine che governa ogni cosa"? Interpretare il fuoco come mera forza materiale dotata di calore e fiamma o come metafora dell'essere che è in continuo divenire, è, a mio parere, snaturare il significato delle parole di Eraclito. Il fuoco include entrambe le idee e tutto ciò che le collega e questo ci riporta immediatamente al linguaggio ed al pensiero Vedico; ci torna in mente il Fuoco Vedico, cantato come il costruttore dei mondi, l'Immortale nascosto negli uomini e nelle cose, il confine degli Dei, Agni che "diviene" tutto attorno agli immortali , che diventa e contiene tutti gli Dei. Ci ricordiamo della folgore Vedica, il Fuoco elettrico, il Sole che è la vera Luce, l'Occhio, l'arma meravigliosa dei divini esploratori Mitra e Varuna. Si tratta dello stesso stile ermetico, dello stesso stile di pensiero conciso e ricco di significati; anche se non identiche, le concezioni sono notevolmente affini. Il linguaggio mistico ha sempre lo svantaggio di diventare oscuro, privo di significato o fuorviante per coloro che non ne possiedono il segreto e di rappresentare un enigma per i posteri. Ranade afferma che è impossibile comprendere quello che Eraclito intendeva dicendo: "Gli dei sono mortali, gli uomini immortali". Ma è veramente impossibile se evitiamo di isolare questo filosofo dal pensiero originario dei mistici? Anche il rishi Vedico invoca l'Aurora dicendo: "O dea e umana!". Gli dei nei Veda sono sempre chiamati "uomini" e nella tradizione viene usata la medesima parola per indicare uomini e immortali. L'immanenza del principio immortale nell'uomo e la discesa degli dei nel regno della mortalità sono le idee fondamentali della visione mistica. Allo stesso modo Eraclito riconosce l'inestricabile unità dell'eterno e del transitorio, di ciò che è per sempre ma sembra esistere solo nella lotta e nel cambiamento che sono un continuo morire. Gli dei si manifestano come cose che continuamente si trasformano e muoiono e l'uomo è fondamentalmente un essere eterno. Eraclito non si perde in antitesi sterili; il suo metodo consiste nell'affermazione di antinomie e nell'abbozzare la loro riconciliazione attraverso l'opposizione. Così quando afferma che il nome dell'arco (biòs) è vita (bìos) ma che la sua opera è morte non sta facendo uno sterile gioco di parole; sta invece parlando di quel principio di guerra, padre e re di tutto, che fa dell'esistenza cosmica in apparenza un processo di vita ma in realtà un processo di morte. Le Upanishad avevano colto la stessa verità affermando che la vita è il dominio del Re della Morte, descrivendola come il contrario dell'immortalità ed affermando che tutte le forme di vita e di esistenza sulla terra furono create dalla Morte per il proprio sostentamento. Se non teniamo conto del carattere simbolico del linguaggio di Eraclito rischiamo di renderlo sterile interpretandolo in modo troppo letterale. Eraclito fa l'elogio dell'anima "asciutta", come la più saggia e migliore, ma, afferma che le anime provano piacere e soddisfazione nel diventare "umide". Questa inclinazione dell'anima verso il piacere naturale, in una sorta di ebbrezza che infiacchisce, deve essere contrastata perché Dioniso, dio del vino, e Ade, Signore della Morte e degli oscuri mondi inferiori, solo la medesima divinità. Il Professor Ranade ritiene questo elogio dell'anima asciutta un elogio alla luce della ragione, trovando in esso la prova che Eraclito fosse un razionalista e non un mistico, ma stranamente prende le affermazioni opposte riguardo all'anima umida e a Dioniso, in senso letterale e materiale, come una disapprovazione morale del vino. Di certo non può essere così. Eraclito non può intendere con "anima asciutta" la ragione di un uomo sobrio e con "anima umida" la mancanza di ragione o la ragione offuscata di un ubriaco e quando afferma che Dioniso e Ade sono 1a stessa cosa non è certo solo per dirci che il vino è deleterio per la salute! Evidentemente anche qui, come sempre, usa un linguaggio figurato e simbolico perché vuole trasmettere un significato profondo, per i1 quale il linguaggio comune gli pare troppo povero e superficiale. Eraclito usa l'antica lingua dei Misteri, benché in modo personale e adattandolo ai propri fini, quando parla di Ade e di Dioniso, del Fuoco inestinguibile e delle Furie, o dei soccorritori della Giustizia che dovrebbero catturare il Sole se oltrepassasse i propri confini. Perderemmo il senso vero delle affermazioni di Eraclito se in questi nomi vedessimo soltanto i significati più limitati e superficiali della religione popolare mitica. Quando Eraclito parla dell''anima asciutta o umida sta pensando all'anima e non all'intelletto, a psiche, non a nous. Psiche corrisponde pressappoco a chetas o citta della psicologia indiana, e nous a buddhi; l'anima asciutta del pensatore greco corrisponde alla "coscienza del cuore" purificata, shudda citta degli psicologi indiani, che per esperienza la definirono il fondamento di un intelletto purificato, visudddha buddhi. L'anima umida è quella che si lascia turbare dal vino impuro del piacere dei sensi, dall'eccitazione emotiva e da un'ispirazione ed un impulso oscuri che scaturiscono dal mondo inferiore. Dioniso è il dio di questa estasi di ebbrezza, il dio dei misteri bacchici, "dei viandanti della notte, dei maghi, dei baccanali, dei mistici", ed è per questo che Eraclito afferma che Dioniso e Ade sono la stessa cosa. Al contrario il devoto estatico del sentiero indù della Bhakti rimprovera colui che segue esclusivamente 1a via del discernimento del pensiero per la sua conoscenza "arida", usando l'espressione di Eraclito con significato peggiorativo anziché celebrativo. Ignorare l'influenza del pensiero mistico e dei suoi metodi di espressione sul pensiero dei Greci, da Pitagora a Platone, significherebbe alterare l'evoluzione storica della mente umana che inizialmente operò nello stile e nella disciplina simbolica, intuitiva ed esoterica dei Mistici, dei veggenti Vedici e Vedantini, degli iniziati orfici e dei sacerdoti egiziani. Da quel velo la mente umana emerse sul sentiero di una filosofia metafisica ancora collegata ai mistici per l'origine delle sue idee fondamentali, per lo stile aforistico ed ermetico - e per lo sforzo di impossessarsi direttamente della verità attraverso una visione intellettuale piuttosto che tramite un ragionamento scrupoloso -, ma intellettuale in quanto a metodo e fine. E' il periodo dei primi Darshanas in India e dei primi intellettuali in Grecia. In seguito dilagò il razionalismo filosofico, con Buddha e i filosofi buddhisti e logici in India, con i Sofisti, Socrate e tutta la loro splendida progenie in Grecia; il metodo intellettuale non iniziò con loro, ma con loro raggiunse la piena autonomia e maturità. Eraclito appartiene al periodo di transizione e non a quello dell'apogeo della ragione e ne è il rappresentante più tipico; perciò il suo stile ermetico, il suo pensiero conciso e denso di significato e le difficoltà che incontriamo nel chiarire e razionalizzare totalmente ciò che egli intende. L'ignorare i mistici, i nostri padri originari, purrve pitarah, è il grave difetto del modo in cui la mente moderna vuole spiegare dell'evoluzione del pensiero. II
Qual è esattamente
l'idea dominante del pensiero di Eraclito? Da dove è partito e quali
sono linee guida della sua filosofia? Infatti se è vero che il suo
pensiero non si sviluppa secondo il metodo severo e sistematico tipico
dei filosofi successivi, se non giunge a noi in vaste ondate di
ragionamenti sottili e ricche immagini come quello di Platone, ma
piuttosto tramite aforismi spezzati, scagliati come frecce verso la
verità, comunque non si presenta certo con riflessioni filosofiche
isolate. Gli aforismi sono correlati ed interdipendenti; derivano tutti
dalla sua concezione fondamentale dell'esistenza e vi ritornano
costantemente per trovare il proprio significato.
Nella filosofia greca, come in quella indiana, il primo problema da analizzare è quello dell'Uno e del Molteplice. Ovunque vediamo una molteplicità di cose e di esseri: è reale o soltanto fenomenica, pratica, maya vyavahara? Ha l'uomo - è questo il problema che ci tocca più da vicino - un'esistenza reale ed immortale che gli è propria, o è solo il risultato fenomenico ed effimero dell'evoluzione, del gioco di qualche principio originario unico, Materia, Mente, Spirito, che è la sola vera realtà dell'esistenza? L'unità esiste veramente e, se esiste, è un'unità di molteplicità che si sommano o è l'unità del principio primordiale,? E' un effetto o una causa? Un'unità di totalità, un'unità di natura, o un'unità di essenza, secondo la visione del Pluralismo, del Sankhya e del Vedanta? O ancora, se il Molteplice e l'Uno sono entrambi reali, quali sono i rapporti tra questi principi eterni dell'essere? Si riconciliano forse in un Assoluto che li trascende? Questi non sono sterili problemi di logica, né contrapposizioni tra nebulose astrazioni metafisiche come vorrebbe farci credere, con disprezzo, l'uomo 'pratico', schiavo delle proprie sensazioni, poiché dalla risposta a queste domande dipende la nostra concezione di Dio, dell'esistenza, del mondo, della vita e del destino umano. Eraclito, come riportato da Ranade, a differenza di Anassimandro, - che come i nostri Mayavadini negava al Molteplice la vera realtà e di Empedocle per il quale tutto era alternativamente uno e molteplice, - riteneva reali e coesistenti sia l'unità che la molteplicità. L'esistenza è dunque eternamente una ed eternamente molteplice, come hanno concluso anche Ramanuja e Madhwa, sia pure in uno spirito molto diverso e partendo da punti di differenti.. La visione di Eraclito è nata dalla sua potente intuizione concreta delle cose, dal suo grande senso delle realtà universali, poiché nella nostra esperienza del cosmo troviamo sempre questa inseparabile coesistenza eterna dalla quale non possiamo sfuggire. Il nostro sguardo sul Molteplice ci rivela dovunque un'eterna unità, qualunque sia l'oggetto che scegliamo come suo principio e tuttavia tale unità non può operare se non attraverso la molteplicità dei suoi poteri e delle sue forme, né la vediamo mai separata o priva della propria molteplicità. Una sola materia ma molti atomi, molti plasma e corpi; un'Energia, ma molte forze; una Mente, o almeno una Sostanza mentale, ma molti esseri mentali; uno Spirito, ma molte anime. Forse periodicamente questa molteplicità ritorna, si dissolve, viene riassorbita dall'Uno dal quale ha avuto origine, ma l'esistenza stessa di queste fasi di evoluzione ed involuzione ci costringe a postulare la possibilità e persino la necessità di una nuova evoluzione: la molteplicità non è dunque mai realmente distrutta. Col suo yoga il seguace della visione Advaita ritorna all'Uno; si sente fuso nella totalità e crede di essersi liberato del Molteplice, di averne dimostrato l'irrealtà ma si tratta della realizzazione di un singolo individuo, di uno dei Molteplici, ed il Molteplice continua ad esistere a dispetto di essa. Tale realizzazione prova soltanto che esiste un piano di coscienza nel quale l'anima può realizzare l'unità dello Spirito e non più percepirla soltanto con 1'intelletto; non dimostra nient'altro. Su questa verità dell'eterna unità e dell'eterna molteplicità Eraclito pone le basi del proprio pensiero e getta la propria ancora; dalla totale accettazione di questa idea, non analizzata in modo razionale ma accettata in tutte le sue conseguenze, deriva tutta la sua filosofia. Resta comunque un problema da risolvere prima di poter proseguire. Dato che l'Uno eterno esiste, chi è o che cosa è? È Forza, Mente, Materia, Anima? Oppure, poiché la materia ha molti principi, esiste un principio particolare della materia che ha dato origine a tutto i1 resto o che con il proprio potere attivo si è trasformato in tutto ciò che vediamo? Gli antichi pensatori greci concepivano la Sostanza cosmica formata da quattro elementi, omettendo, o non avendo ancora scoperto, il quinto, l'Etere, che lla filosofia indiana considera il principio primo e originario. Cercando la natura della Sostanza originaria, i filosofi greci si fissarono ora sull'uno e ora sull'altro dei quattro elementi identificandolo con la Natura primordiale, chi sull'Aria, chi sull'Acqua, mentre Eraclito rappresenta simbolicamente l'origine e la realtà di tutte le cose con un Fuoco inestinguibile. "Né un uomo né un dio", afferma, ha creato l'universo, "ma da sempre esiste e sempre esisterà il Fuoco eterno." Nei Veda e nel linguaggio antico dei mistici in generale, i nomi degli elementi, o principi originari della Sostanza hanno un significato chiaramente simbolico. È così che nel Rig-Veda il simbolo dell'acqua viene costantemente usato. In esso si dice che all'inizio esisteva l'Oceano incosciente da cui l'Uno fu generato dalla grandezza della Sua energia, ma è evidente dal linguaggio dell'inno che non si tratta di un oceano fisico bensì del caos senza forma dell'essere incosciente in cui il Divino, la Divinità, giace nascosta in un'oscurità avvolta in un'oscurità ancora più grande. Allo stesso modo i sette principi attivi dell'esistenza sono chiamati fiumi o acque; troviamo i sette fiumi, la grande acqua, i quattro fiumi superiori, in un contesto che ne mostra chiaramente il significato simbolico. Questa stessa immagine appare nel mito Puranico di Vishnu, che dorme sul serpente infinito nell'oceano di latte. Tuttavia, anche in un'epoca così antica come quella del Rig-Veda, l'etere è il massimo simbolo dell'Infinito, l'apeiron dei Greci; l'acqua simboleggia quello stesso infinito sotto l'aspetto di sostanza originaria; il fuoco è il potere creativo, l'energia attiva dell'Infinito; l'aria, il principio vitale, fa discendere il fuoco dai cieli eterei fin sulla terra. Questi non sono solo simboli; è chiaro che i mistici vedici vedevano una connessione profonda e un parallelismo effettivo fra le attività fisiche e quelle psichiche, per esempio fra l'azione della Luce e il fenomeno dell'illuminazione mentale. Per loro il fuoco era allo stesso tempo l'energia divina luminosa, la Volontà Veggente del Divino universale, attiva e creatrice di tutte le cose, e il principio fisico creatore di tutte le forme dell'universo, che arde segretamente in ogni vita. Non sappiamo con certezza fino a che punto i primi filosofi greci abbiano conservato queste concezioni complesse nelle loro generalizzazioni del principio originario, ma Eraclito, nella sua concezione del Fuoco inestinguibile, sottintende certamente qualcosa di più di una sostanza o di un'energia fisica. Il fuoco è per lui la manifestazione fisica di una grande forza che ardendo crea, modella e distrugge, generando un cambiamento incessante. L'idea dell'Uno che diventa eternamente Molteplice e del Molteplice che diventa eternamente Uno, l'Uno che non è sostanza o essenza stabile ma forza attiva, una sostanziale Volontà di Divenire, è la base della filosofia di Eraclito. Nietzsche, che a ragione Ranade ritiene erede di Eraclito, il più chiaro, concreto e fecondo dei pensatori moderni - allo stesso modo di Eraclito fra gli antichi Greci - fonda il proprio pensiero filosofico sulla concezione dell'esistenza come un'immensa Volontà di Divenire e del mondo come un gioco di Forze; per lui il Potere divino è il Verbo creatore, inizio di tutte le cose e meta di tutto ciò che vive. Ma Nietzsche afferma soltanto il Divenire escludendo l'Essere dalla sua visione e quindi la sua filosofia è poco soddisfacente, insufficiente, non equilibrata: una filosofia che fa pensare ma non risolve nulla. Al contrario Eraclito non esclude l'Essere dai dati del problema dell'Esistenza, senza peraltro creare contrapposizione o frattura tra l'Essere e il Divenire. Data la sua concezione dell'Esistenza, contemporaneamente una e molteplice, è costretto ad accettare come simultaneamente veri, come veri l'uno nell'altro, questi due aspetti del suo Fuoco inestinguibile: l'Essere è un eterno Divenire e il Divenire è sostenuto da un Essere eterno. Tutto scorre perché tutto è mutamento del divenire; non possiamo bagnarci due volte nella stessa acqua, perché si tratta di un'altra acqua, un'acqua che scorre sempre diversa. Tuttavia, col suo sguardo penetrante rivolto alla verità delle cose, non poteva non scorgere dietro a tutto ciò un'altra verità. L'acqua nella quale ci bagniamo è la stessa e contemporaneamente non lo è; la nostra esistenza è eternità e transitorietà; siamo e contemporaneamente non siamo. Eraclito non risolve la contraddizione, la afferma e cerca di spiegarla a suo modo. Egli vede questo processo come una continua trasformazione e ri-trasformazione, uno scambio e un interscambio in un tutto costante, governati da uno scontro di forze, una lotta creatrice e determinante: "la guerra che è padre e re di tutte le cose". Tra il Fuoco come Essere e il Fuoco nel Divenire l'esistenza compie un movimento discendente e ascendente, pravrtti e nivrtti; chiamato "la via dell'eterno ritorno" sulla quale tutto si muove. Queste le idee fondamentali del pensiero di Eraclito. III
Due frasi di Eraclito
ci danno il punto di partenza di tutto il suo pensiero. Nella prima
afferma che è saggio ammettere l'unità di tutte le cose, nella seconda:
"L'Uno procede dal tutto e tutto procede dall'Uno." Come dobbiamo
intendere queste affermazioni così ricche di significato? Dobbiamo
interpretarle una per mezzo dell'altra e concludere che secondo Eraclito
l'Uno esiste soltanto come risultante del molteplice come il molteplice
esiste come divenire dell'Uno?
Ranade sembra dare questa interpretazione, infatti egli afferma che Eraclito nega l'Essere e riconosce soltanto il Divenire, come Nietzsche ed i buddisti. Certamente questo significa attribuire troppa importanza alla teoria del mutamento perpetuo, isolandola troppo dal contesto. Se questa fosse veramente la visione di Eraclito sarebbe difficile comprendere perché avrebbe cercato un principio originario ed eterno, quel Fuoco inestinguibile che tutto crea col suo perpetuo mutamento, che tutto governa con la forza fiammeggiante della "folgore", che riassorbe in sé ogni cosa attraverso una conflagrazione ciclica; sarebbe altrettanto difficile spiegare la sua teoria del movimento ascendente e discendente e ammettere, come ritiene Ranade, che Eraclito abbia condiviso la teoria di una conflagrazione cosmica ed anche difficile immaginare quale potrebbe essere il risultato di tale catastrofe cosmica. Ridurre tutto il divenire al Nulla? Certamente no. Il pensiero di Eraclito è agli antipodi di un nichilismo speculativo. Ridurlo ad un'altra specie di divenire? Evidentemente no, perché una conflagrazione assoluta potrebbe ridurre le cose esistenti al loro principio eterno d'essere, ad Agni, riportarle al Fuoco immortale. Qualcosa che è eterno, che è eternità in se stesso, qualcosa che è per sempre uno - perché il cosmo è eternamente uno e molteplice, e pur divenendo molteplice non cessa d'essere uno - qualcosa che è Dio (Zeus), qualcosa che si può rappresentare come Fuoco, quel Fuoco che pur essendo una forza sempre attiva, è anche sostanza o almeno forza sostanziale e non soltanto un'astratta Volontà di divenire, qualcosa da cui ogni divenire cosmico ha origine ed in cui ritorna, che cos'è se non l'Essere eterno? Eraclito era molto preso dalla sua idea dell'eterno divenire che per lui era la sola spiegazione possibile del cosmo ma il suo universo ha ancora una base eterna, un principio originario unico. Questo differenzia radicalmente il suo pensiero da quello di Nietzsche e dei buddhisti. Da lui i pensatori Greci successivi presero l'idea del perpetuo fluire delle cose: "tutto scorre". Eraclito aveva sempre presente l'idea dell'universo in continuo movimento e in perpetuo cambiamento ma dietro a questo movimento e in tutto ciò che esiste vedeva un principio costante di determinazione ed anche un misterioso principio di identità. Ogni giorno, afferma, è un nuovo sole quello che sorge; certo, ma se il sole è sempre nuovo, se non esiste che per mezzo del cambiamento ad ogni istante, come accade a tutta la natura, è comunque sempre il Fuoco inestinguibile che sorge ad ogni alba sotto forma di sole. Non possiamo entrare due volte nello stesso fiume perché le acque che scorrono sono sempre nuove, "noi entriamo nelle stesse acque e tuttavia non vi entriamo, siamo e non siamo." Il significato è chiaro: in tutte le cose, in tutte le esistenze c'è un'identità, sarvabhutani, ma anche un continuo mutamento; c'è un Essere e c'è un continuo Divenire, per cui abbiamo sia un'esistenza eterna e reale che un'esistenza temporanea e apparente; non siamo soltanto una trasformazione continua, ma anche un'esistenza costante e identica a se stessa. Zeus esiste, Fuoco attivo immortale e Verbo eterno, 1'Uno per mezzo del quale tutte le cose sono unificate, dal quale derivano tutte le leggi e tutti i risultati, l'Uno che mantiene inalterati i confini del tutto. Il Giorno e la Notte sono uno, la Vita e la Morte sono uno, la Giovinezza e la Vecchiaia sono uno, il Bene e il Male sono uno perché tutto è Uno e ogni cosa è solo la sua forma. Eraclito non avrebbe mai accettato come origine delle cose un principio del Sé puramente psicologico, ma in realtà non è molto lontano dalla posizione Vedantina. I Buddhisti della scuola Nichilista usavano nel modo a loro caratteristico le stesse immagini, il fiume e il fuoco. Come Eraclito, vedevano che niente in questo mondo rimane identico nemmeno per due secondi anche quando la continuità delle forme è evidente. La fiamma infatti rimane immutata in apparenza, ma ad ogni istante è un fuoco diverso, come il fiume continua il suo corso con acque sempre nuove. Da tutto ciò traggono la conclusione che non esiste alcuna essenza delle cose, che niente esiste per se stesso; il divenire apparente è tutto ciò che possiamo chiamare esistenza; dietro ad esso non c'è che il Nulla eterno, il Vuoto assoluto o forse un Non-Essere originario. Eraclito invece pensava che se la forma della fiamma esiste solo in virtù di un mutamento perpetuo, - o meglio per una trasformazione costante della sostanza dello stoppino nella sostanza della lingua di fuoco - , deve esistere un principio di esistenza comune ad entrambi, capace di mutare da una forma all'altra. Anche se la sostanza della fiamma cambia in continuazione, il principio del Fuoco è sempre lo stesso e produce sempre gli stessi risultati di energia, agisce sempre nello stesso modo. L'Upanishad descrive il cosmo come un movimento e un divenire universali: tutto ciò che è mobile nella mobilità jagatyam jagat - il termine stesso che indica l'universo, jagat, contiene in sè una forte idea di movimento - in modo tale che l'universo intero, il macrocosmo, è un principio di movimento e di conseguenza di mutamento e instabilità, mentre ogni cosa nell'universo è in se stessa un microcosmo di questo stesso mutamento e di questa stessa instabilità. Le esistenze sono "tutte divenire"; L'Atman esistente in sé, Svayambhu, è diventato tutti i divenire, atma eva abhut sarvani bhutani. I1 rapporto fra Dio e il Mondo è riassunto nella formula: "È Lui che si è manifestato in ogni cosa, sa paryagat"; è Lui il Signore, il Veggente e il Pensatore che divenendo ovunque - il Logos di Eraclito, il suo Zeus, l'Uno da cui derivano tutte le cose - "ha stabilito tutte le cose secondo la loro natura fin dall'eternità". Questa formula è analoga alla frase di Eraclito: "Tutte le cose sono fissate e determinate". Sostituiamo all'Atman Vedantino il suo Fuoco e non resta nulla nel testo dell'Upanishad che il pensatore greco non avrebbe accettato come simbolo del proprio pensiero. E le Upanishad non utilizzano forse proprio il simbolo del fuoco? "Come un unico Fuoco è entrato nel mondo e si è modellato secondo le diverse forme", così l'Essere unico è diventato tutti questi nomi e forme pur rimanendo l'Unico. Eraclito afferma esattamente la stessa cosa: Dio è tutti i contrari. "Egli assume diverse forme, proprio come il fuoco che spruzzato di spezie prende il nome corrispondente al gusto di ciascuna." Ognuno Gli dà il nome che preferisce, dice il veggente greco, ed "Egli accetta tutti i nomi e tuttavia non ne accetta nessuno, neppure il nome supremo di Zeus." Acconsente e contemporaneamente rifiuta di essere chiamato Zeus. La stessa cosa affermava l'Indiano Dirghatamas nel suo lungo inno dei Misteri divini nel Rig-Veda: "I saggi chiamano l'Uno che esiste con molti nomi". Benché assuma innumerevoli forme, dice 1'Upanishad, Egli non ha alcuna forma che la visione possa afferrare, Egli il cui nome è un potente splendore. Ancora una volta vediamo come i pensieri, le espressioni e le immagini del saggio greco siano vicini al significato e allo stile dei saggi Vedici e Vedantini. Se vogliamo comprendere il pensiero di Eraclito dobbiamo mettere ciascuna delle sue affermazioni al posto che le compete. "E' saggio ammettere che tutte le cose sono uno" - non soltanto vengono dall'unità e ed essa ritornano, ma sono Uno ora e sempre; tutto è, era e sarà sempre il Fuoco inestinguibile. Secondo la nostra esperienza tutto sembra molteplice, un eterno divenire di molteplici esistenze; dov'è in tutto ciò il principio di identità eterna? È vero, dice Eraclito, così appare, ma la saggezza guarda oltre e vede l'identità di tutte le cose; la notte e il giorno, la vita e la morte, il bene e il male: tutto questo non è che l'uno, l'eterno, l'identico; coloro che negli oggetti vedono soltanto una differenza non comprendono la verità degli oggetti che osservano. "Esiodo non conosceva il giorno e la notte perché sono l'Uno", esti gar hen, asti hi ekam. Ora, l'eterno e l'identico che tutte le cose sono è proprio quello che intendiamo con Essere, proprio ciò che è negato da coloro che riconoscono soltanto la realtà del Divenire. I Buddhisti Nichilisti sostenevano che esistono soltanto innumerevoli idee, vijnanani e forme impermanenti che non sono altro che combinazioni di parti e di elementi: nessuna unità, nessuna identità da nessuna parte; trascendere le idee e le forme significa giungere all'estinzione di sé, al Vuoto, al Nulla. Tuttavia bisogna porre da qualche parte un principio di unità, se non alla base o nell'essere segreto delle cose, almeno nella loro azione. I buddhisti dovettero postulare il loro principio universale di Karma che, a pensarci bene, finisce per ricondursi ad un'energia universale che è causa del mondo, un principio creatore e conservatore immutabile. Nietzsche ha negato l'Essere, ma ha dovuto parlare di una 'Volontà-di-Esistenza' universale che non è altro che il tapo brahma delle Upanishad: "1'Energia-Volontà è Brahma". Il Sankhya posteriore ha negato l'unità delle esistenze coscienti, affermando però l'unità della Natura, Prakriti, che ancora una volta è il principio originario, la sostanza delle cose e l'energia creatrice, la phusis dei greci. È dunque saggio ammettere che tutte le cose sono uno; perché a questo giunge la visione, questo l'anima e il cuore cercano, a questo che il pensiero arriva girando in cerchio nell'atto stesso della negazione. Eraclito vedeva ciò che dovrebbero vedere tutti coloro che guardano il mondo con un po' d'attenzione, cioè che in tutto questo movimento, in questo cambiamento, in questa differenziazione c'è qualcosa che si fonda sulla stabilità, che torna all'identità, che assicura l'unità, che trionfa nell'eternità. E' immutabile: era, è e sempre sarà. Noi siamo 'Quello' malgrado tutte le nostre differenze; partiamo dalla stessa origine, procediamo dalle stesse leggi universali, viviamo, ci differenziamo e lottiamo in seno ad un'unità eterna, cerchiamo sempre ciò che lega tutti gli esseri e unifica tutte le cose. Ciascuno, dal proprio punto di vista, sottolinea l'uno o l'altro aspetto del Tutto, ne perde di vista o minimizza altri aspetti e gli attribuisce un nome diverso, come Eraclito che gli diede il nome di Fuoco attratto dall'aspetto della Forza creatrice e distruttiva. Ma quando Eraclito generalizza si esprime in modo ampio: è l'Uno che è il Tutto; è il Tutto che è Uno - Zeus, l'eternità, il Fuoco. Avrebbe potuto affermare con 1'Upanishad: "Tutto questo è Brahman", sarvam khalu idam brahma, pur non potendo proseguire dicendo: "Questo Sé, questo Me è il Brahman". Avrebbe piuttosto dichiarato di Agni ciò che una formula Vedantina dice di Vayu: "tvam pratyaksham bramasi", Tu sei il Brahman manifesto. Possiamo tuttavia concepire l'Uno in diversi modi. I pensatori della scuola Advaita affermarono l'Uno, l'Essere, ma rifiutarono tutte le cose considerandole Maya, oppure riconobbero l'immanenza dell'Essere in queste manifestazioni in divenire che tuttavia non sono il Sé, non sono Quello. La filosofia Vishnuita concepì l'esistenza come eternamente una nell'Essere, Dio, che è eternamente molteplice per la Sua natura ed è energia-coscienza nelle anime che diventa o che esistono nella Sua natura. Anche tra i Greci Anassimandro negò la realtà molteplice del Divenire. Empedocle affermò che il Tutto è eternamente uno e molteplice; tutto è unità che diventa molteplice e che in seguito ritorna all'unità. Ma Eraclito non risolve così l'enigma. "No, afferma, io rimango fermo nella mia idea dell'eterna unità di tutte le cose; esse non cessano mai di essere uno. Tutto è il mio Fuoco eternamente vivente che prende forme e nomi diversi, che si trasforma in tutto ciò che esiste e tuttavia rimane se stesso, non il risultato di un'illusione o di un mero fenomeno del divenire, ma una realtà rigorosa e concreta". Tutte le cose sono dunque l'Uno nella loro realtà, nella loro sostanza, nella loro legge e nella loro ragione d'essere; l'Uno nelle sue forme, nei suoi valori, nei suoi cambiamenti diventa realmente tutte le cose. Muta e tuttavia è immutabile, poiché non aumenta né diminuisce, e neppure per un istante perde la sua natura e la sua identità con il Fuoco inestinguibile. Molti valori che si riferiscono ad un'unica sorgente, molte forze che tornano alla stessa energia immutabile; molti divenire che rappresentano e si riconducono all'Essere eterno. Così Eraclito introduce la sua formula "L'Uno procede dal tutto e tutto procede dall'Uno", con la quale rende ragione del dispiegarsi del cosmo, come la formula "tutte le cose sono uno" spiega l'eterna verità del cosmo. Nel procedere del cosmo, afferma, l'Uno diviene tutte le cose istante per istante, da cui il flusso eterno delle cose, ma tutte le cose ritornano eternamente al loro principio di unità, da cui l'unità del cosmo, l'uniformità dietro il flusso del divenire, la stabilità, la conservazione dell'energia attraverso tutti i cambiamenti. Egli completa la spiegazione con la sua teoria dello scambio, nella quale tutto è un continuo interscambio. Non c'è dunque fine a questo movimento simultaneamente ascendente e discendente? Poiché il movimento discendente ha trionfato finora fino a creare il cosmo, non trionferà forse anche il movimento ascendente nel dissolvere il cosmo nel Fuoco inestinguibile? Questa affermazione ci porta a chiederci se Eraclito condividesse la teoria di una conflagrazione ciclica o pralaya. "Il Fuoco verrà su tutte le cose, le giudicherà e le condannerà". Se Eraclito condividesse questa visione avremmo un'altra sorprendente coincidenza tra il pensiero di Eraclito e le nozioni così familiari agli indiani, il pralaya ciclico, la conflagrazione del mondo all'apparire dei dodici soli descritta nei Purana, la teoria Vedantina dei cicli eterni di manifestazione e di ritiro dalla manifestazione. In effetti le due linee di pensiero sono sostanzialmente identiche e devono inevitabilmente condurre alle medesime conclusioni. IV
Eraclito spiega il
cosmo come un'evoluzione e un'involuzione del suo principio eterno e
unico del Fuoco, sostanza e forza unica, simboleggiato dall'immagine
della strada che si snoda verso l'alto e verso il basso. "La strada
ascendente e discendente, afferma, è una sola ed unica strada". Dal
fuoco, principio irradiante e produttore di energia, procedono l'aria,
l'acqua e la terra - questo è lo svolgersi discendente dell'energia.
Nella tensione stessa di questo processo esiste una forza di potenziale
ritorno, che riconduce le cose alla propria sorgente seguendo l'ordine
inverso. Nell'equilibrio di queste due forze, l'una che sale e l'altra
che scende, risiede tutta l'azione cosmica; tutto è un equilibrio di
energie opposte. Il movimento della vita è paragonato da Eraclito al
movimento di ritorno dell'arco, è un'energia di trazione e di tensione
che trattiene un'energia di distensione, essendo ogni forza di azione
compensata da una corrispondente forza di reazione. L'armonia
dell'esistenza deriva dalla resistenza dell'una all'altra.
La stessa idea di un'evoluzione di stati successivi di energia emanati da una medesima sostanza-forza primaria è presente nella teoria indiana del Sankhya. A dire il vero in essa il modello proposto è più completo e convincente. Inizia infatti con l'energia originaria, l'energia radice, mula prakrti, che a partire dalla sostanza primaria, pradhana, evolve, si trasforma per mezzo di uno sviluppo e di un cambiamento, nei cinque principi successivi. L'etere, ignorato dai Greci, ma riscoperto dalla Scienza moderna , e non il fuoco, è il principio primo; poi vengono l'aria, il fuoco, - energia ignea, radiante ed elettrica -, l'acqua, la terra; lo stato fluido e quello solido. Il Sankya, come Anassimene, fa dell'aria il primo dei quattro principi ammessi dai Greci, benché non la consideri la sostanza originaria, differendo perciò dall'ordine proposto da Eraclito. Ad ogni modo attribuisce al principio del fuoco la funzione di creare tutte le forme - l'Agni dei Veda, il grande costruttore dei mondi - e almeno su questo concorda con il pensierosi Eraclito ; infatti proprio per rappresentare il principio di energia che si cela dietro ad ogni formazione e trasformazione Eraclito deve aver scelto il Fuoco come proprio simbolo e come immagine materiale dell'Uno. Ricordiamo fino a che punto la scienza moderna concorda con gli antichi per l'importanza che attribuisce all'elettricità e alle forze radioattive - il fuoco e la folgore di Eraclito, il triplice Agni dei Veda - nella formazione degli atomi e nella trasformazione dell'energia. Ma i Greci non giunsero alla distinzione finale che l'India attribuì a Kapila, il supremo pensatore analitico: la discriminazione tra Prakriti ed i suoi principi cosmici, i ventiquattro tattva che formano gli aspetti soggettivi ed oggettivi della natura, e tra Purusha e Prakriti, Anima-Coscienza ed Energia-Natura. E mentre nel Sankya l'etere, il fuoco e gli altri elementi non sono che i principi dell'evoluzione oggettiva di Prakriti, gli aspetti evolutivi della phusis originaria, gli antichi Greci non furono in grado di trascendere questi aspetti della Natura ed arrivare all'idea di un'energia pura, né poterono spiegare l'aspetto soggettivo di Prakriti. Il Fuoco di Eraclito deve servire nello stesso tempo come sostanza prima di tutta la Materia, di Dio e dell'Eternità. La stessa focalizzazione sull'Energia-Natura ed il fallimento nella ricerca delle sue relazioni con l'Anima sono presenti nel pensiero scientifico moderno, insieme allo stesso sforzo di identificare un qualche principio primario della Natura, ad esempio l'etere o l'elettricità, con la Forza originaria. Ad ogni modo la teoria della creazione del mondo ad opera di una trasformazione evolutiva della sostanza o energia originaria, parinama, è comune ai sistemi Greci e Indiani, indipendentemente dalle loro divergenze sulla natura della phusis originaria. Ciò che caratterizza Eraclito fra i primi saggi greci è la sua concezione del cammino ascendente e discendente, che è un unico e medesimo cammino nella discesa e nel ritorno verso l'alto. Questa visione corrisponde all'idea indiana di nivritti e di pravritti, duplice movimento dell'anima e della natura: pravritti verso l'espansione, nivritti il movimento di ritorno verso l'interno. I pensatori indiani si interessarono a questo doppio principio poiché riguarda l'azione dell'anima individuale che entra nel divenire della natura e che da esso si ritrae, ma al tempo stesso concepivano un analogo movimento periodico di espansione e contrazione della Natura stessa, che porta ad un ciclo continuo di creazione e dissoluzione: sostenevano cioè la teoria di un pralaya ciclico. La teoria di Eraclito sembra richiedere una conclusione analoga. In caso contrario dovremmo supporre che la tendenza discendente, una volta in azione, abbia sempre il sopravvento sulla tendenza ascendente, oppure che il cosmo proceda eternamente dalla sostanza originaria, con una costante tensione al ritorno in essa ma senza tornarvi mai veramente. Il Molteplice sarebbe dunque eterno non soltanto nel suo potenziale di manifestazione, ma nell'atto stesso della manifestazione. È possibile che questo fosse il pensiero di Eraclito, ma non è la conclusione logica della sua teoria. Infatti sarebbe in evidente contraddizione con ciò che suggerisce la sua metafora della strada, che implica un punto di partenza e uno di ritorno. Inoltre, anche gli Stoici sostengono chiaramente che Eraclito credeva alla teoria della conflagrazione, cosa che non avrebbero potuto affermare se non fosse stata generalmente considerata parte del suo insegnamento. Gli argomenti moderni addotti da Ranade contro questa concezione si appoggiano su dei fraintendimenti. Eraclito non afferma semplicemente che l'Uno è sempre il Molteplice, che il Molteplice è sempre l'Uno, ma usando le sue stesse parole: "dal tutto procede l'Uno e dall'Uno procede il tutto". È la stessa idea che Platone esprime in termini diversi nella formula: "La realtà è nello stesso tempo molteplice e una e pur nella sua divisione è sempre riunificata". Questo rappresenta una costante corrente e contro-corrente di cambiamento, la strada che sale e scende. Possiamo quindi supporre che come l'Uno attraverso una trasformazione che tende verso il basso diviene il Tutto nel processo discendente, - pur rimanendo eternamente l'unico Fuoco sempre vivente - , così il Tutto attraverso lo sviluppo ascendente possa ritornare all'Uno e continuare essenzialmente ad esistere dato che può nuovamente tornare a manifestarsi in vari esseri ripetendo il movimento discendente. Dunque ogni difficoltà scompare se ricordiamo che ciò che è sottinteso è un processo di evoluzione ed involuzione - così anche la parola indiana srsti significa liberazione o proiezione di ciò che era trattenuto o latente - e che la conflagrazione distrugge le forme esistenti, ma non il principio della molteplicità. Non sussiste dunque più alcuna incoerenza nella teoria di Eraclito di una conflagrazione periodica, è piuttosto, trattandosi dell'espressione più elevata del cambiamento, il risultato logico del suo sistema di pensiero.
V
Se è la legge di
Trasformazione che determina l'evoluzione e 1'involuzione dell'unica
strada ascendente e discendente, la stessa legge regna anche lungo tutto
il sentiero, ad ogni passo e ad ogni tornante, sugli innumerevoli eventi
che accadono sul ciglio della strada. Dappertutto regna la legge dello
scambio e dell'interscambio, amoibe. L'unità e la molteplicità sono
legate ad ogni istante da questo rapporto attivo. L'Uno si scambia
costantemente col molteplice: date dell'oro e ricevete in cambio dei
beni, ma tali beni non rappresentano altro che valore dell'oro. Il
molteplice si scambia costantemente con l'Uno; questi beni, diciamo,
esistono o scompaiono o sono distrutti, ma al loro posto c'è l'oro, la
sostanza-energia originaria che ne rappresenta il valore. Guardando il
sole pensate che sia sempre lo stesso astro che sorge ogni giorno,
poiché è il costante dono di sé del Fuoco agli elementi che compongono
il sole che ne preserva la forma, l'energia, il movimento e tutte
caratteristiche. La scienza ci dimostra che questo vale per tutte le
cose; il corpo umano, ad esempio, è sempre lo stesso ma mantiene la sua
identità apparente solo grazie ad una continua trasformazione. C'è una
distruzione continua e tuttavia non c'è alcuna distruzione. L'energia si
distribuisce, ma non si dissolve mai; la legge è la trasformazione e la
conservazione dell'energia nel cambiamento, non la distruzione. Anche se
questo mondo di molteplicità alla fine sarà distrutto dal Fuoco,
tuttavia non c'è fine, e il mondo non è distrutto ma mutato nel Fuoco.
Inoltre c'è uno scambio fra tutti questi divenire che sono soltanto
valori attivi dell'Essere, beni dal valore fissato in rapporto all'oro
universale. Il Fuoco prende la propria sostanza da una forma e la dona
ad un'altra, muta un valore apparente in un altro valore apparente, ma
la sostanza-energia rimane la stessa e il nuovo valore equivale a quello
vecchio, come quando il combustibile si trasforma in fumo, braci e
cenere. La scienza moderna, dotata di una maggiore conoscenza di ciò che
accade nella trasformazione, conferma la tesi di Eraclito. Si tratta
della legge della conservazione dell'energia.
In pratica questo è il segreto attivo della vita: ogni vita fisica, mentale, o semplicemente dinamica, si sostiene attraverso uno scambio ed un interscambio continui. Tuttavia la spiegazione di Eraclito non è ancora del tutto soddisfacente. La dimensione, il valore dell'energia scambiata rimane costante quando la forma cambia, ma perché i beni cosmici che rappresentano l'oro universale dovrebbero essere anch'essi così fissi e in un certo senso immutabili? Qual è la spiegazione? Come si generano questa eternità di principi e di elementi, di insiemi di combinazioni, e la persistenza ed il ricorrere delle stesse forme che possiamo continuamente osservare nel cosmo? Perché in questo costante flusso cosmico, le cose dovrebbero restare sempre uguali? Perché il sole, pur essendo sempre nuovo, sarebbe praticamente sempre lo stesso sole? Perché il ruscello dovrebbe essere sempre lo stesso, proprio come Eraclito ammette, pur essendo le acque che scorrono sempre diverse? In questo ambito Platone ha concepito il suo piano eterno delle idee fisse, col quale sembra aver voluto significare la realtà-idea originante e lo schema originario ideale di tutte le cose. Una filosofia idealista come quella indiana potrebbe dire che questa forza, la Shakti, chiamata Fuoco in occidente, è una coscienza che con la sua energia sostiene il piano originario delle idee e le forme corrispondenti delle cose. Ma Eraclito ci dà un'altra spiegazione, non del tutto soddisfacente ma profonda e colma di verità feconde. La spiegazione si trova nelle sue sorprendenti affermazioni sulla guerra, la giustizia, la tensione e le Furie che perseguitano coloro che osano oltrepassare i limiti. Eraclito è il primo filosofo che ha concepito l'intero universo in termini di Potere. Qual è la natura dello scambio? È lotta, eris, è guerra polemos! Quali sono la regola e il risultato della guerra? La giustizia. E come agisce la giustizia? Con una giusta tensione e una compensazione di forze che producono l'armonia delle cose e la loro stabilità. "La guerra è il padre di tutto ed il sovrano di tutte le cose"; "il divenire di tutte le cose dipende dalla lotta"; "sapere che la lotta è giustizia": queste le sue massime magistrali sull'argomento. Dapprima non riusciamo a capire perché lo scambio dovrebbe essere lotta, sembrerebbe piuttosto una forma di commercio. La lotta esiste, ma perché non dovrebbe esistere anche l'interscambio pacifico e consenziente? Eraclito non ne vuole sapere; nessuna pace! Concorderebbe così col Tedesco moderno nel ritenere il commercio un dipartimento della Guerra. È vero che esiste una forma di commercio, oro in cambio di beni e beni in cambio dell'oro, ma il commercio stesso e tutto il suo ambito sono governati da una costrizione potente e, dirò di più, violenta, del Fuoco universale. È questo che Eraclito intende affermando che le Furie inseguono il sole. "Per timore di Lui", dice 1'Upanishad, il vento soffia ... e la morte vaga." Tra tutti gli esseri c'è una continua prova di forza: da questa guerra nascono e da essa sono preservati. Vediamo che Eraclito ha ragione: ha afferrato l'aspetto iniziale della Natura cosmica. In essa tutto è scontro di forze, e con questo urto, attraverso questa lotta, afferrandosi, combattendosi, non soltanto le cose vengono ad esistere ma rimangono in vita. Karma? Legge? Leggi diverse si affrontano e competono tra loro e con la loro tensione mantengono l'equilibrio del mondo. Karma? È la giustizia dispotica di un Potere coercitivo eterno; sono le Furie che ci perseguitano se osiamo oltrepassare i nostri limiti. La guerra, contesta Eraclito, non è semplice ingiustizia, violenza caotica: è giustizia, benché si tratti di una giustizia violenta, l'unica giustizia possibile. Vediamo nuovamente che dal suo punto di vista ha ragione. È dall'energia impiegata e dal suo valore che derivano i risultati, e quando due forze si affrontano il dispendio di energia è una prova di forza. Non dovrebbe forse il forte essere ricompensato in accordo alla sua forza e il debole secondo la sua debolezza? Questa è, almeno nel mondo, la legge primaria, benché soggetta all'aiuto che il debole riceve dal forte, aiuto che non deve necessariamente essere un'ingiustizia o una violazione di confini, a dispetto dell'opinione di Nietzsche e di Eraclito. Non c'è forse a volte un'immensa forza nascosta dietro la debolezza, la forza stessa della pressione esercitata sugli oppressi che genera la sua terribile reazione, il movimento di ritorno dell'arco, Zeus, il Fuoco eterno che sorveglia i propri confini? Non soltanto c'è guerra fra un essere e un altro, fra una forza e l'altra, ma all'interno di ognuno esiste un' eterna opposizione, una tensione degli opposti, ed è proprio questa tensione che crea l'equilibrio necessario all'armonia. L'armonia dunque esiste perché il cosmo stesso, nel suo compimento è un'armonia, ma al tempo stesso l'armonia esiste perché nel suo procedere il cosmo è guerra, tensione, opposizione, equilibrio di eterni contrari. Non esiste vera pace, a meno che per pace non s'intenda una tensione stabile, un equilibrio di potere fra forze ostili, una specie di mutua neutralizzazione degli eccessi. La pace non può creare, non può far vivere nulla e la preghiera di Omero che la guerra possa cessare di esistere tra gli dei e tra gli uomini è una mostruosa assurdità, perché se fosse esaudita significherebbe la fine del mondo. Può esistere una fine periodica, non attraverso la pace o la riconciliazione, ma attraverso una conflagrazione, un attacco del Fuoco, to pur epelthon, un giudizio folgorante e una condanna. La Forza ha creato il mondo, la Forza è il mondo, la forza con la sua violenza sostiene il mondo, la Forza metterà fine al mondo e lo ricreerà in eterno. VI
Eraclito è il primo e
più coerente insegnante della legge della relatività, il risultato
logico delle sue concezioni filosofiche fondamentali. Poiché tutto è uno
nel suo essere e molteplice nel suo divenire, ne consegue che ogni cosa
deve essere una nella propria essenza. La notte e il giorno, la vita e
la morte, il bene e il male possono essere soltanto aspetti diversi
della stessa realtà assoluta. La vita e la morte sono di fatto una sola
cosa e possiamo affermare, a seconda del nostro punto di vista, che ogni
morte non è che il procedere ed il trasformarsi della vita o che tutta
la vita è soltanto un'attività della morte. In realtà entrambe non sono
che un'unica energia che si manifesta attivamente in forma duale. Da un
certo punto di vista noi non esistiamo perché la nostra esistenza è solo
una continua trasformazione di energia; da un altro punto di vista
esistiamo perché in noi l'essere è sempre lo stesso e sostiene la nostra
identità segreta. Di conseguenza possiamo dire che una cosa è buona o
cattiva, giusta o ingiusta, bella o brutta soltanto da un punto di vista
puramente relativo perché adottiamo una posizione particolare o stiamo
pensando ad un fine pratico o ad un relazione valida solo
temporaneamente. A tale proposito Eraclito fa l'esempio del "mare, la
più pura e la più impura delle acque", elemento perfetto per i pesci,
nocivo e imbevibile per l'uomo. E non è così per tutte le cose? Esse in
realtà sono sempre le stesse ed assumono le loro qualità e proprietà in
virtù della nostra posizione nell'universo del divenire, della natura
della nostra visione e della struttura della nostra mente. Tutte le cose
completano il cerchio e ritornano all'unità eterna: all'inizio e alla
fine, infatti, sono identiche. È soltanto nell'arco del divenire che
variano e differiscono le une dalle altre, senza alcuna relazione
assoluta. La notte e il giorno sono identici; sono soltanto la natura
della nostra visione, la nostra posizione sulla terra e le relazioni tra
terra e sole a creare la differenza. Ciò che è giorno per noi, è notte
per altri.
Per questa sua insistenza sulla relatività del bene e del male si ritiene che Eraclito abbia enunciato una specie di superamento della morale, ma dobbiamo comprendere cos'è realmente questa super-morale. Eraclito non nega l'esistenza di un assoluto, ma per lui l'assoluto si trova nell'Uno, nel Divino, non negli dei, bensì nell'unica Divinità suprema, il Fuoco. Si è obiettato che abbia attribuito relatività a Dio perché afferma che il principio primo vuole ed al tempo stesso non vuole essere chiamato Zeus. Ma qui ci si può ingannare totalmente. Il nome Zeus esprime soltanto l'idea relativa e umana del Divino; di conseguenza Dio, pur accettando il nome, non è vincolato e neppure limitato da esso. Tutte i nostri concetti su di Lui sono parziali e relativi, "Ciascuno gli dà il nome che preferisce". Questa non è nient'altro che la verità proclamata dai Veda: "Uno solo esiste, che i saggi chiamano con molti nomi". Brahman vuole e al tempo stesso non vuole essere chiamato Vishnu poiché è anche Brahma e Maheshvara, e tutti gli dei, il mondo e tutti i principi e tutto ciò che esiste, e tuttavia non è nessuna di queste cose, neti neti. Come gli uomini L'avvicinano, così Egli li accetta. Ma l'Uno per Eraclito, come per i Vedanta è assoluto. Ciò risulta chiaramente da tutte le sue affermazioni: giorno e notte, bene e male sono una cosa sola, perché sono l'Uno nella propria essenza e nell'Uno scompaiono le distinzioni operate dalla mente. C'è un Verbo, una Ragione in tutte le cose, un Logos, e questa Ragione è una; soltanto gli uomini, con la relatività della loro mente, la trasformano nel loro pensiero personale, nel loro modo particolare di considerare le cose e vivono secondo questa relatività variabile. Ne consegue che esiste un modo assoluto, divino, di guardare alle cose. "Per Dio tutte le cose sono buone e giuste, ma gli uomini ne considerano alcune giuste ed altre ingiuste". C'è dunque un bene assoluto, una bellezza assoluta, una giustizia assoluta di cui tutte le cose sono l'espressione relativa. Esiste nel mondo un ordine divino; ogni cosa realizza la propria natura secondo il proprio posto nell'ordine; e in virtù del suo posto e della sua simmetria nell'unica Ragione delle cose, è buona, giusta e bella, proprio perché adempie questa Ragione secondo i dettami eterni. Per fare un esempio, la guerra mondiale può essere considerata da alcuni un male, un'abominevole carneficina, da altri un bene per le nuove possibilità che offre al genere umano. Essa è buona e simultaneamente cattiva; ma questa è solo la visione relativa. Nella sua totalità, nel suo compimento, in tutte le sue circostanze, - ed in ognuna di esse viste come parte di un piano divino, di una giustizia divina, di una forza divina che si realizza nella vasta ragione delle cose -, è, dal punto di vista assoluto, buona e giusta - per Dio, non per l'uomo. Dobbiamo dedurre da tutto ciò che il punto di vista relativo non ha alcuna validità? Neppure per un istante. Al contrario è l'espressione della legge divina in accordo ad ogni visione mentale, secondo le necessità della sua natura e della sua posizione evolutiva. Eraclito lo dice chiaramente: "Tutte le leggi umane sono alimentate da un'unica legge, quella divina". Questa frase dovrebbe essere sufficiente a difendere Eraclito da ogni accusa di antinomia. È vero, nessuna legge umana è l'espressione assoluta della giustizia divina, ma da essa trae il proprio valore e la propria sanzione; è valida per il proprio oggetto, nel posto che le compete, in un tempo appropriato alla sua necessità relativa. Anche se le nozioni umane di bene e di giustizia variano attraverso le trasformazioni del divenire, comunque il bene e la giustizia umani persistono nella corrente degli eventi, conservando una dimensione invariabile. Eraclito ammette dei valori relativi, ma in quanto filosofo li deve superare. Tutto è ad un tempo uno e molteplice, assoluto e relativo, e tutti i rapporti del molteplice sono fenomeni relativi, che sono alimentati, ritornano, e sono preservati da quello che di assoluto esiste in loro.
VII
Le idee di Eraclito
sulle quali ho insistito finora sono generali, filosofiche, metafisiche;
tendono a quelle verità primarie dell'esistenza, devanam prathama
vratani , che la filosofia cerca sempre per prime poiché sono la chiave
di tutte le altre verità. Ma qual è il loro effetto pratico sulla vita e
sull'aspirazione degli uomini? Dato che, in fin dei conti, il vero
valore che la filosofia ha per l'uomo è quello di far luce sulla natura
del suo essere, sui principi della sua psicologia, sulle sue relazioni
con il mondo e con Dio, sulle tendenze determinate e sulle vaste
possibilità del suo destino. La debolezza della maggior parte delle
filosofie europee, escluse quelle dell'Antichità, è il vivere troppo
sulle nuvole e ricercare la verità metafisica pura esclusivamente per se
stessa; per questo sono state piuttosto sterili, prive di impatto
diretto sulla vita.
Nietzsche si distingue tra i filosofi europei recenti per aver restituito alla filosofia parte del suo antico dinamismo e della sua forza pratica, anche se, sotto la pressione di questa tendenza, può aver trascurato l'aspetto dialettico e metafisico del pensiero filosofico. Senza dubbio, quando cerchiamo la verità, dobbiamo iniziare cercandola per se stessa e non partire con un fine pratico prestabilito o con preconcetti che possano distorcere la nostra visione disinteressata delle cose, ma quando abbiamo trovato la verità, il suo impatto sulla vita assume un'importanza capitale e rappresenta la vera giustificazione dell'energia spesa nella ricerca. La filosofia indiana ha sempre compreso la sua duplice funzione; ha cercato la verità non solo per piacere intellettuale o come dharma naturale della ragione, ma per comprendere come l'uomo può vivere per mezzo della verità, o lottare per raggiungerla. Da questo deriva 1a sua influenza immediata sulla religione, sulle idee sociali, sulla vita quotidiana del popolo e il suo immenso potere dinamico sulla mente e sulle azioni dell'umanità indiana. Anche i filosofi greci, Pitagora, Socrate, Platone, gli stoici, gli epicurei, avevano lo stesso scopo pratico e la stessa forza dinamica, ma avevano impatto soltanto su una minoranza colta, poiché la filosofia Greca, avendo perso l'antica connessione con i Mistici, si separò dalla religione popolare. Ma come generalmente solo la Filosofia può illuminare la religione e salvarla dalla grossolanità, dall'ignoranza e dalla superstizione, allo stesso modo soltanto la Religione può, salvo eccezioni, dare ardore spirituale e potere effettivo alla Filosofia, salvandola dal divenire priva di sostanza, astratta e sterile. Se le due sorelle divine si separano è una disgrazia per entrambe. Ma se cerchiamo nelle parole di Eraclito l'applicazione alla vita umana delle sue grandi idee fondamentali, rimaniamo delusi. Non ci guida mai direttamente e, tutto sommato, lascia che traiamo dall'immensa ricchezza delle sue idee solo ciò che siamo in grado di trarre. La sua concezione, possiamo dire, aristocratica della vita, può essere considerata il risultato morale della sua concezione filosofica del Potere come natura del principio originario. Afferma che la moltitudine è cattiva, i pochi sono buoni e un solo individuo, se è il migliore, vale quanto migliaia di individui. Potere di conoscenza, potere di carattere - il carattere, afferma, è la forza divina dell'uomo, - potere ed eccellenza sono generalmente i fattori che prevalgono nella vita umana e hanno un valore supremo; queste qualità, al loro grado puro, elevato, sono rare fra gli uomini, sono la difficile realizzazione dei pochi. Da queste indicazioni, fin qui decisamente vere, potremmo dedurre una filosofia sociale e politica. Ma il democratico può rispondere che se esistono virtù, conoscenza e forza concentrate in un individuo isolato, o nei pochi, anche nella moltitudine esistono una virtù, una conoscenza e una forza diffuse, che agendo collettivamente possono bilanciare o superare i rari casi di eccellenza. Se, come afferma anche l'antico pensiero indiano, il re, il saggio, il migliore è Vishnu stesso ad un livello che l'uomo comune, prakrto janah, non può sperare di raggiungere, lo stesso vale per "i cinque", il gruppo, i popoli. Il Divino è samasti e vasti, si manifesta nella collettività e nell'individuo e la giustizia sulla quale Eraclito insiste tanto esige che entrambi abbiano il loro effetto e il loro valore; dipendono infatti l'uno dall'altro e attingono l'uno dall'altro per la raggiungere l'eccellenza. Altri pensieri di Eraclito sono degni di interesse, come quello in cui afferma l'elemento divino nelle leggi umane - pensiero profondo e ricco di implicazioni. Le sue opinioni sulla religione popolare sono interessanti, ma rimangono in superficie ed anche muovendosi in superficie non conducono lontano. Respinge e disprezza violentemente il degrado delle antiche formule mistiche che caratterizza la sua epoca e si rivolge invece ai veri misteri, quelli della Natura e del nostro essere - quella Natura che, afferma, ama rimanere nascosta, è piena di misteri e sempre occulta. È un segno del fatto che le conoscenze dei primi mistici erano andate perdute ed il significato spirituale aveva abbandonato i simboli, com'era accaduto al tempo dell'India Vedica; ma in Grecia non si è prodotto nessun nuovo movimento potente in grado di sostituirle, - come invece è accaduto in India - , con nuovi simboli, nuove affermazioni filosofiche delle verità occulte, con nuove discipline, nuove scuole di yoga. Ci sono stati dei tentativi isolati come quello di Pitagora, ma la Grecia nel suo insieme, seguendo la direzione indicata da Eraclito, sviluppò il culto della ragione e lasciò che le reminescenze dell'antica religione occulta diventassero superstizione e rito convenzionale. Doppiamente interessante è la sua condanna del sacrificio animale, che considera un vano tentativo di purificarsi lavandosi col sangue, come pulire col fango piedi coperti di fango. Troviamo qui la stessa tendenza alla rivolta, contro una pratica religiosa antica e universale, che in India distrusse il sistema sacrificale della religione vedica, sebbene la grande compassione del Buddha fosse assente dalla mente di Eraclito: la pietà non sarebbe mai diventata una motivazione potente presso le antiche razze mediterranee. Ma i termini stessi usati da Eraclito ci mostrano che l'antico sistema sacrificale in Grecia come in India, non era semplicemente una pratica barbarica destinata a propiziare divinità selvagge, come ha concluso erroneamente la ricerca moderna; aveva invece un significato psicologico: purificazione dell'anima e propiziazione di potenze superiori capaci di venire in aiuto e di conseguenza, molto probabilmente, si trattava di una pratica mistica e simbolica. Sappiamo infatti che la purificazione era una delle idee dominanti degli antichi Misteri. Nell'India della Gita, nello sviluppo del Giudaismo ad opera dei profeti e di Gesù, mentre gli antichi simboli fisici e soprattutto il sacrificio del sangue furono sconsigliati, l'idea psicologica del sacrificio fu conservata, rinforzata e provvista di simboli più sottili come l'Eucaristia cristiana e le offerte dei devoti nei templi shivaiti e vishnuiti. La Grecia, con la sua tendenza razionalista e il suo insufficiente senso religioso, non ha potuto salvare la sua religione; si è orientata invece verso una netta divisione tra filosofia e scienza da un lato e religione dall'altro, caratteristica peculiare della mente europea. Anche in questo Eraclito fu un precursore indicando la direzione naturale del pensiero occidentale. Altrettanto sorprendente è la sua condanna dell'idolatria, una delle prime nella storia dell'umanità: "Colui che prega un'immagine parla ad un muro di pietra". La violenza intollerante di questo razionalismo, di questo positivismo ribelle, fa nuovamente di Eraclito un precursore di un vasto movimento della mente umana. Non è certamente una protesta religiosa come quella di Maometto contro il politeismo naturalista, pagano e idolatra degli Arabi, o quella dei Protestanti contro il culto estetico ed emotivo rivolto ai santi nella Chiesa cattolica, contro l'idolatria per la Madre di Cristo, l'utilizzo delle immagini e il suo complicato rituale; il movente di Eraclito è razionale, filosofico, psicologico. Certo Eraclito non era un razionalista puro; credeva negli Dei, ma solo come presenze psicologiche, poteri cosmici, ed era troppo infastidito dalla grossolanità dell'immagine fisica, dalla sua influenza sui sensi, dall'offuscarsi della rilevanza psicologica delle divinità, per comprendere che la preghiera non è rivolta alla pietra, ma alla persona divina rappresentata in quella pietra. E' da notare che nella sua concezione degli dei si avvicina agli antichi profeti Vedici, pur non essendo per temperamento un mistico religioso. La religione Vedica sembra aver escluso le immagini; furono poi i movimenti di protesta del Jainismo e del Buddhismo ad introdurre o almeno a rendere popolare e a diffondere il culto delle immagini in India. Anche in questo campo Eraclito prepara la via per la distruzione dell'antica religione, per il regno della filosofia e della ragione pura, per il vuoto che verrà colmato dal Cristianesimo, poiché l'uomo non può vivere di sola ragione. Quando era ormai troppo tardi si tentò nuovamente spiritualizzare la religione antica, con il notevole tentativo di Giuliano e di Libanio di far rinascere un paganesimo rigenerato contro il Cristianesimo trionfante, ma il tentativo fu troppo etereo, esclusivamente filosofico e privo del potere dinamico dello spirito religioso. L'Europa aveva ucciso senza alcuna possibilità di rinascita il suo antico credo e doveva quindi volgersi all'Asia per trovare la propria religione. Così, per la vita normale dell'uomo, Eraclito non ha altro da darci che il suo accenno ad un principio aristocratico nella società e nella politica - e possiamo notare che tale tendenza aristocratica è stata molto forte fra quasi tutti i filosofi successivi. Nell'ambito religioso la sua influenza tese a distruggere l'antico credo senza sostituirlo con qualcosa di più profondo e benché non sia stato un razionalista puro, preparò la strada al razionalismo filosofico. Tuttavia, anche senza religione, la filosofia può darci qualche sprazzo di luce sul destino spirituale dell'uomo, qualche speranza d'Infinito, qualche ideale di perfezione verso cui rivolgere i nostri sforzi. Platone, che aveva subito l'influsso di Eraclito, tentò di fare questo per noi; il suo pensiero cercò Dio, tentò di raggiungere l'ideale, sperò in una società umana perfetta. Sappiamo che i neoplatonici elaborarono le loro idee sotto l'influsso del pensiero orientale e che a loro volta influenzarono il Cristianesimo. Gli stoici, i discendenti intellettuali più diretti di Eraclito, formularono idee notevoli e feconde sulle possibilità umane ed una potente disciplina psicologica - come diremmo in India uno yoga - per mezzo del quale speravano di realizzare il loro ideale. Ma cosa può darci Eraclito? In modo diretto, niente. Dobbiamo ricavare da soli ciò che ci è possibile dai suoi principi primi e dalle sue frasi ermetiche. Eraclito era considerato nell'Antichità un filosofo pessimista e ci sono un paio di sue frasi dalle quali, volendo, possiamo dedurre l'antico infruttuoso vangelo della vanità delle cose. Il tempo, afferma Eraclito, gioca a dadi come un bambino che si diverte a contare e costruisce castelli sulla spiaggia solo per poterli distruggere. Se questa è l'ultima parola, tutti gli sforzi umani, tutte le aspirazioni umane sono vani. Da quale principio filosofico dipende questa affermazione sconfortante? Tutto si riconduce alla risposta a questa domanda, poiché la frase in se stessa non è che l'affermazione di un fatto evidente in sé, cioè la mutevolezza delle cose e la transitorietà delle forme. Ma se i principi che si manifestano nelle forme sono eterni, o se esiste uno Spirito nelle cose che trae vantaggio dalle trasformazioni e dalle evoluzioni del Tempo e se questo Spirito dimora nell'essere umano come potere immortale e infinito della sua anima, non giungiamo certo ad affermare la vanità del mondo e dell'esistenza umana. Se invece il principio originario ed eterno del Fuoco è una sostanza e una forza puramente fisica, allora veramente, dato che tutto il grande gioco della coscienza in noi e tutto il suo sforzo devono perdersi in questo fuoco e dissolversi in esso, non può esistere nessun valore spirituale permanente nel nostro essere, e tanto meno nella nostra opera. Ma abbiamo visto che il Fuoco di Eraclito non può essere un principio puramente fisico o incosciente. Eraclito intende dunque dire che la nostra esistenza è solo un Divenire in costante mutamento, un gioco o Lila che non ha altro scopo se non quello di essere giocato, e altro fine che condannare la vanità di ogni attività cosmica tornando all'unità indistinta del principio, o sostanza, originario? Perché, anche se questo Principio, l'Unità alla quale il Molteplice fa ritorno, non è unicamente fisico, o non è del tutto fisico ma piuttosto spirituale, possiamo ancora affermare, come i Mayavadini, la vanità del mondo e dell'esistenza umana, dato che il mondo non è eterno e l'esistenza umana non ha altro scopo che il proprio annullamento, una volta ottenuta la certezza della vanità e dell'irrealtà di tutti i suoi interessi e scopi temporali. La condanna del mondo per mezzo dell'unico Fuoco assoluto è forse la condanna della vanità di tutti i valori temporali e relativi del Molteplice? È questo uno dei modi in cui possiamo interpretare il pensiero di Eraclito. La sua idea che tutte le cose nascono dalla guerra ed esistono per la lotta, se fosse isolata, potrebbe portarci a quella conclusione, anche se lo stesso Eraclito non vi arriva in modo così deciso. Poiché se tutto è una continua lotta di forze, se il suo aspetto migliore è solo una giustizia violenta e l'armonia più elevata è soltanto una tensione di contrari privata della speranza di una riconciliazione divina, se il fine è la condanna e la distruzione ad opera del Fuoco eterno, allora tutte le nostre speranze ideali, tutte le nostre aspirazioni sono fuori luogo e non hanno alcun fondamento nella verità delle cose. Ma c'è un altro aspetto del pensiero di Eraclito. Egli afferma davvero che tutte le cose vengono ad essere "per mezzo della lotta", a causa dello scontro delle forze che e sono governate dalla giustizia determinante della guerra. Afferma anche che tutto è completamente determinato, soggetto al fato. Ma cos'è allora che "determina"? La giustizia di uno scontro di forze non è fato; le forze in conflitto "determinano" veramente ma soltanto di momento in momento, secondo un equilibrio in costante mutamento, sempre modificabile dal sorgere di nuove forze. Se esiste nelle cose una predeterminazione, un destino inevitabile, allora dietro al conflitto deve esserci qualche potere che li determina, che ne fissa i limiti. Cos'è questo potere? Eraclito ce lo spiega; tutte le cose nascono dalla lotta, ma nascono anche dalla Ragione, kat' erin, ma anche da kata ton logon. Cos'è questo Logos? Non è una ragione incosciente nelle cose poichè il suo Fuoco non è una semplice forza incosciente, è Zeus, è l'Eternità. Il Fuoco, Zeus, è Forza, ma è anche Intelligenza. Diciamo dunque che è una Forza intelligente, origine e sovrana delle cose. E nemmeno questo Logos può essere identico per natura alla ragione umana, perché questa è giudizio e intelligenza individuale e pertanto relativa e parziale, capace di afferrare soltanto la verità relativa, non la verità vera delle cose, mentre il Logos è uno e universale, ragione assoluta che di conseguenza ordina e dirige tutte le attività del molteplice. Filone non era dunque nel giusto quando deduceva dall'idea di una forza intelligente, che origina e governa il mondo, Zeus e Fuoco, la sua interpretazione del Logos come "il divino dinamico, l'energia e la manifestazione di Dio"? Eraclito non si sarebbe forse espresso in questi termini, forse non ha compreso l'ampiezza del suo stesso pensiero, ma il significato dato da Filone è proprio quello che si trova approfondendo e riunendo le diverse massime di Eraclito e traendone le debite conseguenze. Siamo molto vicini alla concezione Indiana di Brahman, la causa, l'origine e la sostanza di tutte le cose, l'Esistenza assoluta la cui natura è Coscienza (Chit), che si manifesta come Forza (Tapas, Shakti) e si muove nel mondo del suo stesso essere come Veggente e Pensatore, kavir manisi, come Conoscenza-Volontà in tutto, vijnanamaya purusa, che è il Signore e il Divino, is, isvara, deva, che ha ordinato tutte le cose secondo la loro natura fin dall'eternità - i "limiti" che, secondo Eraclito, il Sole deve rispettare, la sua affermazione che "le cose sono assolutamente determinate". Questa Conoscenza-Volontà è il Logos. Gli Stoici ne parlano come di un Logos-seme, spermatikos, riprodotto negli esseri coscienti come numerosi Logos-semi; e questo rimanda subito al prajna purusa dei Vedanta, l'Intelligenza suprema che è il Signore e che dimora nello stato di sonno e tiene ogni cosa in un seme di densa coscienza che agisce attraverso le percezioni del Purusha sottile, l'Essere mentale. Vijnana è in verità una coscienza che non vede le cose, come è tipico della ragione umana, a pezzetti e frammenti, legate da relazioni di separazione e aggregazione, ma nella ragione originaria della loro esistenza, nella legge del loro esistere, nella loro verità primaria e totale; perciò è il Logos-seme, la forza cosciente originante e determinante che opera come Intelligenza e Volontà supreme. Il veggente Vedico la chiamava Coscienza-di-Verità e credeva che anche gli uomini potessero diventare coscienti della Verità e penetrare nella Ragione e nella Volontà divine, e per mezzo della Verità diventare immortali, anthropoi athanatoi. Il pensiero di Eraclito ammette forse una speranza simile a quella che nutrivano i profeti vedici, speranza che cantavano nei loro inni con così totale fiducia? O giustifica forse una qualche aspirazione verso uno stato di superumanità divina come quello che i suoi discepoli, gli stoici, si sforzarono con tanto ardore di raggiungere, o come quello di cui Nietzsche, il moderno Eraclito, ha fornito un quadro troppo grossolano e violento? La sua affermazione che l'uomo si infiamma come fuoco e scompare come la luce nella notte, è banale e piuttosto scoraggiante. Ma dopo tutto questa affermazione può essere vera solo per l'uomo apparente. E' possibile per l'uomo che evolve oltrepassare i suoi limiti attuali? E' in grado di elevare la sua ragione mentale, relativa ed individuale ad una partecipazione diretta, ad una comunione con la natura divina e assoluta? Può innalzare i valori della sua forza umana fino ai valori superiori della forza divina e da essi trarre ispirazione? Può diventare consapevole come gli dei di un bene assoluto e di una bellezza assoluta? Può innalzare il suo essere mortale fino alla natura dell'immortalità? Contro la sua immagine malinconica della transitorietà dell'uomo, c'è la sua famosa frase ermetica: "Gli dei sono mortali, gli uomini immortali", frase che, interpretata in modo letterale, potrebbe significare che gli dei sono poteri che periscono e vengono sostituiti da altri poteri, mentre solo l'anima dell'uomo è immortale, ma che deve almeno significare che nell'uomo esiste uno Spirito Immortale dietro all'apparenza effimera. C'è anche la sua affermazione: "Non puoi trovare i limiti dell'anima", e la sua massima più profonda: "Il regno è del bambino". Se l'uomo è nel suo vero essere uno spirito infinito ed immortale, non c'è alcuna ragione per la quale non possa destarsi alla propria immortalità, non possa elevarsi alla coscienza dell'universale, uno e assoluto, e vivere in una più alta realizzazione di sé. "Ho cercato me stesso", afferma Eraclito e cos'ha trovato? C'è tuttavia una grande lacuna, un grave difetto nella sua conoscenza delle cose e dell'io umano. Possiamo vedere in quanti modi la visione profonda e lo sguardo divinatore di Eraclito abbiano anticipato le teorie più ampie e profonde della Scienza e della Filosofia e come anche i suoi pensieri più superficiali indichino le forti tendenze successive della mente occidentale; vediamo inoltre come certe sue idee abbiano influenzato filosofi profondi e creativi come Platone, gli Stoici, i Neoplatonici. Persino nei difetti della suo pensiero è un precursore del pensiero Europeo successivo, almeno in quanto non si è lasciato seriamente influenzare dalle religioni o dal misticismo dell'Asia. Ho tentato di mostrare quanto spesso il suo pensiero coincida e sia quasi identico al pensiero Vedico o Vedantino. Ma la sua conoscenza della verità delle cose termina con la visione della ragione universale e della forza universale; sembra aver riassunto il principio delle cose in questi due termini primari: l'aspetto della coscienza e quello del potere, un'intelligenza suprema e una suprema energia. L'occhio del pensiero indiano vide un terzo aspetto del Sè e del Brahman; oltre alla coscienza universale che agisce nella conoscenza divina, oltre alla forza universale che agisce nella volontà divina, ha visto anche la felicità universale che agisce nella gioia e nell'amore divini. Il pensiero europeo, seguendo la linea di Eraclito, si è focalizzato sulla ragione e sulla forza e ne ha fatto i principi che il nostro essere deve tendere a realizzare nella loro perfezione. La forza è il primo aspetto del mondo: guerra, scontro di energie; il secondo aspetto, la ragione, emerge dietro il velo della forza che prima la nascondeva e si rivela come una certa giustizia, una certa armonia, una certa intelligenza e ragione determinante nelle cose; il terzo aspetto è il segreto più profondo: felicità, bellezza, amore universali che, unendosi ai primi due aspetti, possono realizzare qualcosa di più elevato della giustizia, di migliore dell'armonia, di più vero della ragione: unità e beatitudine, l'estasi della nostra esistenza realizzata. Di questo potere segreto, il pensiero occidentale ha visto soltanto i due aspetti inferiori, il piacere e la bellezza estetica, perdendo di vista la bellezza e la felicità spirituali. Per questo motivo che l'Europa non ha mai potuto elaborare da sola una religione potente, ma ha sempre dovuto volgersi verso l'Asia. La scienza prende possesso dei modi di funzionamento e delle dimensioni e della Forza; la filosofia razionale persegue la ragione fin nelle sue estreme sottigliezze ma la filosofia e la religione ispirate possono impadronirsi del segreto supremo, uttamam rahasyam. Eraclito avrebbe potuto rendersene conto se avesse spinto la sua visione un po' in là. La Forza, da sola, può produrre soltanto un equilibrio di forze: la lotta che è giustizia; in questa lotta avviene uno scambio incessante, e quando la necessità dello scambio viene compresa nasce la possibilità di sostituire la guerra con la ragione quale principio determinante dello scambio. Questo è il secondo sforzo dell'uomo, sforzo di cui Eraclito non ha visto chiaramente la possibilità. Possiamo elevarci al di sopra del concetto di scambio e giungere alla nozione più elevata di reciprocità; una dipendenza reciproca fatta del dono di sé è il segreto celato della vita; da quel segreto può crescere il potere d'Amore che sostituisce la lotta e oltrepassa il freddo equilibrio della ragione. Questa è la porta dell'estasi divina. Eraclito non ha potuto vederla e tuttavia la sua frase sul regno del bambino tocca quasi il cuore del segreto. Perché questo regno è evidentemente spirituale, è la corona, il dominio a cui giunge l'uomo perfetto e l'uomo perfetto è un bambino divino! E' l'anima che si risveglia al gioco divino, che lo accetta senza paura né riserve, che si arrende al Divino in una purezza spirituale, che permette alla forza inquieta e turbata dell'uomo di essere liberata dalle preoccupazioni e dal dolore per diventare il gioco gioioso della Volontà divina, che consente alla ragione relativa e traballante di essere sostituita dalla conoscenza divina che, per la Grecia, per l'uomo razionale, è stoltezza, che permette infine alla faticosa ricerca del piacere della mente incatenata di abbandonarsi alla spontaneità dell'Ananda divino, "perché tale è il regno dei cieli". Il Paramhansa, l'uomo liberato, è nella propria anima balavat, simile ad un bambino. |
Ricordatevi che di qualsiasi scritto, dove nasce da una idea un conflitto,
bisogna coglierne della logica l'essenza, per un sano spunto di partenza.
Se non si è schiavi di una religione, una idea anche se forte,
può far utilizzo della ragione, come del pennello ne fa l'arte.
(LexMat)
Quanto rimane, è un destino dove solo la conclusione è fatale.
Ed a dispetto della morte, tutto è libertà, un mondo di cui l'uomo è il solo padrone.
(Albert Camus)
Presentazione
La Logica di Russel, il Coraggio di Camus e la Fede di Chesterton.
mercoledì 2 ottobre 2013
Eraclito
Da "http://www.emsf.rai.it/gadamer/interviste/03_eraclito/eraclito.htm" :
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